Giugno 2010

 

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Le Giravolte

AA. VV.

Percorsi per
teresa vella
florio santini
a.b.
 
 

 

 

 

L’educazione all’armonia, alla delicatezza delle forme, all’esattezza dei rapporti. E acquisito tutto ciò, ecco poi il piacere dell’invenzione.

 

 

Lo scultore Giuseppe Vella, in una foto degli anni Sessanta del Novecento.

Cortesy Autore

La bottega degli artisti

La lezione di nonno Giuseppe

Come i ricordi anche le mani hanno radici. Le mie affondano profondamente in quelle di mio nonno. Anch’esse – e ben più faticosamente – mani di artista. Le mie, da bambina e accanto a lui nella sua bottega di lavoratore, artigiano e artista, hanno conosciuto i rischi e l’incisività della sgorbia ben prima della leggerezza della matita.
Da quei segni irrimediabili e definitivi ho intuito la necessità che idee precise e definite debbano precedere l’attuazione, in ogni campo e per mezzo di ogni materia. La creazione d’arte non ammette incertezza. La materia che deve farsi ponte fra l’idea e la forma quasi sempre non permette ripensamenti. L’idea stessa decade e in qualche modo snatura se il segno non dà seguito con certezza alla sua forma. Come la parola che traduce l’emozione nel poeta, come l’intuizione del velista che cattura un impalpabile spirar del vento, o il gesto della ballerina che lega all’impulso della nota il movimento.
Ma tanta capacità di esattezza non può nascere ovviamente dall’improvvisazione. Così come il famoso cerchio di Giotto. All’esecuzione certa si può arrivare solo dopo tanta e ripetuta esperienza. La sofferenza e pazienza del ripetere e la correzione e l’elaborazione dell’errore.
E proprio questo soprattutto e innanzitutto insegnava l’artigiano artista nonno Giuseppe alla nipotina Teresa.
Non è l’artista che addomestica la materia – come con facile enfasi si ripete spesso – ma è la materia che addomestica l’artista. O meglio, sfortunato l’artista che non sa lasciarsi educare dalla materia. Perché soltanto così potrà entrare in un suo intimo contatto con essa. Stabilito il quale, potrà imporre la sua volonta creativa e formativa alla materia stessa. E da artigiano diventare artista. Ma ad ogni mutar di materia l’artista artigiano dovrà esser disposto a ripetere il suo inevitabile apprendistato. Così, andando dal legno al ferro, o allo stucco e al gesso. Ognuno con la sua propria natura e con regole diverse che ne dettano il rapporto. Persino passando da legno a legno, ciascuno con anima e corpo suoi propri, che quindi esigono trattamenti, strumenti e modi diversi. E mani sapientemente e diversamente usate.
Questo nella sua bottega dimostrava e insegnava l’artigiano Vella Giuseppe, ammaestrando la giovanissima apprendista al rapporto con le essenze diverse del rovere e del noce, del ciliegio, del mogano e del palissandro.
E se tutto questo è tecnica, un altro genere di comunicazione inevitabilmente si produceva, e non per esplicite dichiarazioni ma per prossimità continua e contiguità quotidiana.
L’educazione all’armonia, alla delicatezza delle forme, all’esattezza dei rapporti. E acquisito tutto ciò, ecco poi il piacere dell’invenzione. Giacché anche la creatività ha bisogno di una sua educazione per non stravolgersi in incontrollata e confusa proposta.
E questo anche mostrava in ogni gesto e opera l’artista Giuseppe Vella. Sia che modellasse gessi, sia che plasmasse stucchi, sia che connettesse legni.
Ma un’altra lezione intanto sempre mi veniva giorno per giorno da nonno Giuseppe, che affiancava e sottintendeva intimamente quelle dell’artigiano e dell’artista, e le valorizzava entrambe. La lezione del lavoratore Vella, per il quale ogni impegno doveva essere mantenuto con rigore, correttezza e onestà. E ogni prestazione d’opera adempiuta nel miglior modo a prescindere dalla circostanza di guadagno, ampio, limitato, e a volte anche nullo.
Insegnamento fondamentale, perché se il rapporto finale del lavoratore come dell’artista, per mezzo delle proprie opere, è con il mondo, quello primario ed essenziale, attraverso le stesse opere, è con se stesso.
Questo, nel mio ricordo di nipote e nella mia coscienza di artista, il segno lasciato da Giuseppe Vella, lavoratore, artigiano e artista.

teresa vella

Giuseppe Vella

Grande artista, raffinato disegnatore e scultore, eccellente insegnante di disegno e talentuoso ebanista di grande valore, Giuseppe Vella, primo di sei figli, nasce a Maglie il 19 luglio 1895 da Orsino Vella e Mariantonia Tagliamonte.

Un disegno per mensola e una "Rosa Mistica" scolpita in legno da Giuseppe Vella.

Courtesy Autore

Partecipa alla Prima guerra mondiale e grazie ai meriti acquisiti nel conflitto si reca in soggiorno a Parigi dove, trattenutosi per lavorare e studiare, entra in contatto con l’ideologia socialista delle avanguardie francesi facendone tesoro. Il socialismo lo accompagnerà per tutta la vita.
Una volta rientrato a Maglie, Vella ricomincia a progettare, disegnare e ad eseguire prestigiosi intagli di decori per mobili in stile, contribuendo, insieme ai due fratelli Antonio e Rocco, ad aiutare la numerosa famiglia di origine. Spesso crea calchi in gesso al fine di trarne modelli per lavori in legno, bassorilievi soprattutto di immagini sacre.
Sposa Maria Nisi, appassionata di sartoria, opera lirica e poesia; dalla loro unione sono nati, nel 1926, Maria Antonia e, nel 1927, Giuseppe. Inizia a insegnare Disegno e Storia dell’Arte presso l’Istituto d’Arte di Galatina, ma tale incarico gli viene revocato per non aver voluto aderire al regime fascista, rifiutandone la tessera. Il suo perseverare nell’idea socialista (PSIUP) è causa di una serie di altri gravi soprusi nei suoi confronti, come ad esempio la chiusura della sua fabbrica di mobili in stile in via Ospedale.
Vicissitudini politiche a parte, le creazioni di Giuseppe Vella sono presenti non solo nelle case, nelle chiese e nei palazzi del Salento, ma anche a livello nazionale, per esempio a Milano e a Roma, dove ha anche insegnato Disegno e Storia dell’Arte presso i Gesuiti.
Aveva un carattere forte, una grande e tenera umanità tale da farlo considerare come un secondo padre da quei discepoli che si recavano nella sua bottega di viale Madonna Addolorata per apprendere il “mestiere”. D’altro canto, il suo talento, permeato di una forte componente ideologica, dava fastidio a quanti, non comprendendone appieno il genio, incuteva timore. Ma Giuseppe Vella rimane nella memoria e nel cuore dei Magliesi, anche di chi non lo ha conosciuto e visto se non nelle rare fotografie in cui porta una cravatta nera a pois bianchi.

Muore nel 1969, a 74 anni. Il Comune di Maglie gli ha dedicato una strada presso la Zona Artigianale, insieme a tutti quegli altri artisti che non ci sono più, ma hanno lasciato all’arte del Salento una ricchissima eredità.

 

 



E il lettore? Bearsi assorto davanti al suo mare, ascoltando parole immuni da regole accademiche e, nel caso vi riuscisse, tornare fanciullo.

 


La bottega
degli artisti

Amarcord Florio Santini

Pubblichiamo le ultime “cose” di Florio che abbiamo conservato in redazione. Questo scrittore ci aveva sorpreso quando lasciò Casamassella e si trasferì a Lucca senza dir niente a nessuno. Era solo apparso un “lamento”, che era evidentemente una sfida a non dimenticarlo: nessuno pubblica più le mie cose – aveva scritto – prendendo le distanze dalla terra salentina. A malincuore, sono convinto. Perché qui aveva ritrovato una dimensione che pensava di avere smarrito nei labirinti della sua vita di spirito nomade, e qui aveva piantato la sua tenda-rifugio, oasi, buen retiro per l’Asino Arpista che aveva solcato sentieri di cielo in tutto il mondo.

I monologhi dell’Asino Arpista
Le guerre confondono il cervello

La colpa morì fanciulla, perché nessuno la volle”.

Esistono sentimenti nobilissimi, generosi, caritatevoli, che non servono a nulla; chi n’è destinatario non ricava vantaggio alcuno. Per esempio, il perdono. Quand’ero piccolo, dicevo piangendo: «Mamma, perdonami, non lo faccio più». Mia madre perdonava e io ripetevo l’errore, come del resto tutti i miei ottusi simili nonché coetanei. Allora, il grande valore che diamo alla parola “perdono” a che serve?
Sulla faccia della terra non v’è un solo uomo che non sia stato perdonato da un altro uomo. Insomma, dei due chi è quello che sbaglia, che perde tempo dietro ad una certezza, la quale invece tradisce? Mi sembra una partita doppia che ignori il saldo. Sì, perdonare ti fa sentire buono, superiore, tollerante; così come esser perdonato ti fa sentire compreso, accettato quale sei. Ma la vita prosegue indifferente e l’ex colpevole si placa, in definitiva, tranquillo, soddisfatto.
Il perdono è una grossa pietra che si mette sopra un fatto da nascondere. Semplice. Perché il vero perdono ha da esser definitivo: sarebbe disonesto tornarvi a bomba. Scopo del vero perdono, infatti, è far dimenticare; il che, purtroppo, non è giusto! Chi perdona chiude una partita per sempre; chi è perdonato la lascia invece aperta; qualcuno fa come se la cosa non fosse mai avvenuta e tutto finisce lì. Troppo semplice.
In verità, non mi sembra giusto; il perdono è un cinico incoraggiamento a credere che niente sia stato. Gratitudine? Il malvagio non la prova, poiché egli aveva ragione a far quel male che fece. L’avere ottenuto clemenza, per lui, è ulteriore premio al suo delinquere. Chiede venia; facile; difficile è credere tale debolezza un atto dovuto. La storia dell’umanità è piena di azioni imperdonabili, ingiustamente perdonate. Come si fa a perdonare, per esempio, agli Stati Uniti (fino ad oggi distrattamente felici per il troppo benessere) l’aver dimenticato la fame dei poveri? E come si fa, dall’altra parte, a perdonare l’odio accumulato nei secoli da chi quella fame soffrì “per tradizione”?
In un caso e nell’altro, perdonare sa di ridicolo, a meno che non si miri ad un concetto di santità sovrumana, capace di regolare le questioni nostre in chiave metafisica; il che però non significa rapporto logico nel senso della necessaria, terrestre reciprocità, quella che a noi, non angelici esseri di ben altro universo, interessa a tu per tu, sul piano immediatamente storico.
Poi, perdonare non è diritto, non è dovere. Sarebbe troppo facile… Mi sembra piuttosto vi sia un perseverare nascosto, favorito proprio dal perdono, a causare conseguenze diaboliche. Oserei dire – spero di non essere frainteso – che, a pensarci bene, il perdono non paga, perché le guerre confondono il cervello.
C’è anche da aggiungere che coloro i quali si sentono sovrumanamente delegati a perdonare, divengono cattivi, quando incontrano qualcuno che perdono non chiede. Sì, perché il perdono, non dovendo essere grazia caduta dal cielo, a chi fece il male volontariamente – si pensi ad un certo infallibile, micidiale “sceicco” dei nostri infetti, malvagi giorni –, si trasforma in sconfitta inattesa.
Ogni colpevole ha un suo orgoglio; fra l’altro, basato sul non sentirsi affatto colpevole, dunque per nulla da perdonare. Inoltre, il perdono non corregge, non significa e non lascia traccia educativa; nella migliore delle ipotesi, ti accetta com’eri; dunque, è antipedagogico ovvero inutile, privo di etica.
Io non scambierei questo sentimento lassista con un atto d’amore, come molti “colpevoli da lui colpiti” ritengono. È un bel gesto e basta, tutto qui; ma l’altro era e rimane sordo. Viviamo in un’epoca di conclamate uccisioni e di presunte epidemie. Se uno Spirito infinito, quello che cito spesso e solo nel quale credo, perdonasse in blocco le une e le altre, i morti non certo diminuirebbero e la colpa dell’attuale tragedia rimarrebbe attribuita a nessun reo. Il grande, l’auspicato, il Divino perdono dello Spirito del Mondo, al contrario, lo vedo come una punizione inesauribile, che grazie alla sua inflessibilità tende a migliorare l’uomo divenuto appunto diabolico: quello che vigliaccamente spera nel suddetto inutile perdono. Spera, ma non crede.
Ritiriamola dunque dall’uso questa pur dolce, caritatevole parola. Troppe volte abbiamo visto che non funziona. Troppe volte, chi la invoca truffa chi in buona fede la diffonde. Ammesso che gli angeli abbiano un loro vocabolario, trasferiamola oltre di grado e di efficacia; ma più noi cercheremo di comprenderla, quindi di attuarla, più questa parola lascia spazio ai colpevoli, illude i misericordiosi. E allora?
Quando la Legge era legge, Legge finale che ignorava la debolezza del perdono, i fatti di questa povera terra erano apodittici come un imperativo kantiano e non si scherzava, né con le bombe né con i sermoni. L’odio non conosceva scorciatoie pietistiche. Era odio e basta. Maledizione, credetemi; a questo punto mi vien voglia “globalmente” di perdonare tutto e tutti, a oltranza; nel mucchio!!! Insomma, mi vien voglia di perdonare persino chi perdona: così, alla cieca, come bontà vorrebbe… E il problema si complica. Sento odor di caos ritornato. Mi arrendo.
Anzi, ritornando a quella santa donna di mia madre, dirò con lei: «La colpa morì fanciulla, perché nessuno la volle».

Florio Santini legge con noi
Le novelle della Gattamora” ovvero “That’s life”

Il capolavoro è subito nella rilegatura squisitamente artigianale, nella scelta dei caratteri chiarissimi, galeotti; capitolo dopo capitolo, sempre variati. Da tempo non ricevevo un bibliografico saggio che mi facesse ritrovare gioia e voglia di recensire: intendasi nel senso di leggere qualcosa di nuovo, con interesse nuovo, dopo tanta noia. Soprattutto nell’epoca in cui il fiabesco sembrerebbe morto, sotterrato dalle odierne “cronache dell’odio”, al momento, unica cultura nostra…
Eppure, Pierluigi Camboa, medico, sociologo, poeta in una sola persona, è riuscito ad iniziare un anacronistico quartetto di dolcissime novelle, con queste improvvise parole buone; in verità, per la prima volta mi commuovo: «C’era una volta una gattina. Una gattina nera. Il suo nome era Maria Luisa…». Segue il notturno incontro con l’amico cordiale dai grossi occhi rotondi e gialli e la descrizione della saggia vita a due, nella serenità d’una bianca masseria, grande grande, con tanti archi. Da quel momento, ogni pagina sarà arabesco fantastico all’insegna del più spericolato “Panta rei”.
Il ritmo corre delirante: di colpo ci troviamo intrigati in una novella onirica, emersa da un antico manoscritto a farci tentar di capire l’allegoria nascosta nella storia non facile di Genoeffa e di Magistro Ulderico, coronata dalla poesia finale all’Angelo del Mare.
Segue una (così la intitola l’imprevedibile Autore) “Storia pregressa”, in pieno ambiente irlandese, sanguigno, religioso ad oltranza, anche se piuttosto volgare e sboccato in un libro come questo; ma qui tutto è lecito, letterariamente lecito. E ritorna l’altrove già ribattuto dibattito col Super-Io…
La lettura si fa tragica, caotica, ironica; però è tutto meno che (ad usare il termine inatteso) una gran cazzata:

... spuma del mare m’ha insegnato a dire quanto lo sguardo d’una dama ignota fosse mancato a un solitario cuore...

Questa è lirica autentica, non vi pare? In chiusura non manca nemmeno un incontro tolstoianamente russo, dove l’amore è in agguato.
Direte: «Che buffo miscuglio di fatti!».
Confesso che le pagine sono nitide, sì, come più non usa; tuttavia, non ho trovato spiegazioni. Nessuna pietà per lo smarrito, confuso lettore, ch’io volevo “sorreggere” in questo originalissimo testo. Forse, è successo quanto segue, dato che chi scrive non solo è poeta, ma professionalmente analizza, ogni giorno, i misteri del nostro essere bio-psichico.
I colori, perciò, si sono sovrapposti più che mischiati; si sono amalgamati più che fusi. Risultato di fondo: impressioni, soltanto impressioni.
Niente, comunque, impedisce di ammettere che Pierluigi Camboa ha buttato giù una spiritosa tavolozza dall’impasto cangiante: un’esplosione, multicolore più d’ogni fuoco d’artificio di questa vulcanica terra.
Sono novelle strambe di cui è difficile raccontare la trama, proprio come per certi quadri d’avanguardia dei quali ogni titolo è possibile. Bisogna saper gustare passi come il seguente, e basta:

Camminavo stancamente su questa spiaggia di grossolana sabbia nerastra, mista a ciottoli levigati dal mare, dal vento, dal tempo… Già, anche dal tempo. È proprio vero: il tempo riesce a smussare tutte le asperità. Ed è così anche per gli esseri umani.

Forse, è questa la spiegazione del sibillino titolo inglese. Cercatelo voi il citato brano filosofico. Pierluigi Camboa non si cura di numerare le sue eleganti pagine; altro sintomo di quanto egli ami la libertà e la bellezza, caleidoscopicamente frammiste. Insomma, dire che si tratta d’un libro diverso non basta, come non basta compiacersi della presentazione ottocentesca, in tempi che disprezzano la colla paziente…
Stiamo – tutto qui – sfogliando il capriccio cartaceo d’un artista, che del gusto fece una missione, promettendosi di porgere a qualche omologo dono d’un genere estinto. Io ne ricavai un utile messaggio: gli scrittori dovrebbero curare le loro stampe di persona; i pittori dovrebbero montarsi le proprie cornici su misura; i poeti dovrebbero imitare il Gufo Ciccio dell’introduzione, e il lettore? Bearsi assorto davanti al suo mare, ascoltando parole immuni da regole accademiche e, nel caso vi riuscisse, tornare fanciullo.

 

 

 

Leggiamo poesia, allora. In un modo o nell’altro scopriremo il primo germoglio di un’epifania del cuore, di una coscienza più vasta. E sarà già tanto.

 

 

Poeti-narratori-artisti matinesi

La terra, i segni, le voci

Uno si aspetta le mozioni degli affetti conclamate, le macerazioni sentimentali dominanti, gli spasimi del dolore amplificati, il pianto e – quasi per contrappasso – l’ironia afosa, l’uno e l’altra tipici del mondo poetico vernacolare (o in lingua, ma con componimenti che sembrano tradotti direttamente dal dialetto) prevalenti pagina dopo pagina. Bene, c’è anche tutto questo, in Miscellanea. Antologia artistico-letteraria, edita a cura dell’Associazione Artisti Matinesi, con introduzione di Cosimo Muzzachi; ma in misura estremamente ridotta, e in toni alquanto sommessi.
Perché per il resto si (ri)scopre tutto un mondo che vive, pensa, compone border line, nel senso dell’eccentricità geografica, che non esclude tuttavia l’informazione e gli agganci con la cultura nazionale e, insieme, l’esercizio costante e la milizia della scrittura creativa, a volte con risultati di ottima fattura.
È proprio il caso di questa silloge, che ha un raggio distributivo necessariamente limitato, (la poesia, si sa, non ha mercato con i grandi editori, e figuriamoci con gli eroici stampatori-cultori delle istituzioni associative locali!), ma propone un ricco campionario di tensioni inventive, di rarità espressive tipiche del linguaggio salentino, di originali variazioni su temi poetici tradizionali ma interpretati in proiezioni moderne.
E il primo aspetto che sorprende gradevolmente è la scrittura “al femminile”: Fernanda Antonaci, Annamaria Delle Castelle, Maria Romano, Adriana Stefanelli, hanno – potremmo dire – l’incognita in più, il valore aggiunto che oscilla tra moti di liberazione, manifestazioni di un’antropologia culturale finalmente emersa, corrispondenze fra paesaggi sociali e paesaggi interiori, equilibrato dominio dei sentimenti sospesi tra realtà e sogno, e pertanto lontani dalla retorica e dal romanticismo intimista che s’incontra di frequente nei “poeti della domenica”: segno di una presa di coscienza civile, innanzitutto, e di una conquistata caratura culturale riflessa poi nei comportamenti, nei pensieri, nella dimensione moderna – appunto – che contraddistingue l’universo muliebre contemporaneo.

Nell’altro versante, rivivono – attualizzati – i tempi andati in Salvatore Fusaro, che dedica i versi alle glorie matinesi di fama nazionale (Raffaele Gentile), alla spiritualità (memoria, e presenza delle “sentinelle”, le suore di clausura), alla solidarietà; in Salvatore Marsano, che celebra la sacralità del pane e la bontà vivificatrice del suo profumo, nello stesso momento in cui enumera i dieci forni storici del paese; in Marcello Polimeno, con i suoi canti ricchi di memorie; in Paolo Murrieri, con i suoi versi d’una bellezza antica e incontaminata.
Tra paesaggio e poesia didascalica si snodano i versi di Massimo Barone, mentre due autori segnano il confine tra Matino quale fu e Matino qual è: Franco Murrieri, con i suoi ricordi non negoziabili, dai quali scaturisce un “testamento” di stupefacente singolarità e di generosa schiettezza, e Johnny Toma, che coglie il mutamento dei tempi e delle consuetudini, mai comunque disancorando il discorso dallo scetticismo dettato dalla condizione umana meridionale (il dialogo che alterna l’italiano di un galoppino con le espressioni gergali di un potenziale elettore è un sontuoso esempio di sceneggiatura per una tragicommedia). Ai più alti valori umani attingono i bellissimi versi di Tonio Ingrosso, autore di lungo corso e instancabile promotore della cultura in tempi in cui un poco ovunque la cultura muore di freddo; mentre Alfredo Cataldo intriga con i personaggi, le vicende piacevolmente ilari e i suggestivi garbugli desunti dalla cultura popolare e trasferiti nel teatro vernacolo.
Infine, le voci che – almeno nell’economia generale dell’antologia – si possono definire “fuori campo”. E sono quelle di Giorgio Romano, infaticabile collezionista di documenti storici e artistici locali e meridionali; di Franco Casalini, pittore di fama nazionale, autore di pregevoli soggetti religiosi; e di Cosimo Granito, che traduce il legno in tarsie realizzate con rigore creativo lenticolare.
Credo che nessuno degli autori inclusi in questa raccolta si sia formato in una qualche scuola poetica, o scuola di scrittura. Dovrebbe trattarsi di autodidatti, provengano dalle università o dal lavoro artigianale e agricolo. Eppure vi incontriamo elementi di buona cultura e di sentimenti raffinati che esprimono con sincerità bagliori di vite consacrate, lacerate, o celate dalla quotidianità.
Sicché leggiamo poesia magari non proprio ligia ai canoni compositivi, talvolta metricamente claudicante e in qualche caso leziosa; ma poesia spontanea, semplice, fresca, non legata a correnti o mode, colma di umanissimo stupore di fronte al non-dicibile dell’io in rapporto con il destino toccato in sorte, del pensiero che esonda in versi che seguono il ritmo del sentimento, e che forse per questo – oltre che per le algide leggi del mercato – sono trascurati: in nome della “purezza disciplinare” e di altre e non oscure ragioni di bottega sono farisaicamente esclusi o isolati dai circuiti mediatici.
Fate fogli di poesia, poeti: così ammoniva uno scrittore di questa nostra terra, Antonio Verri. Fate fogli di poesia, e abbandonateli sulle panchine, nei bar, sui treni o nelle strade, insomma ovunque, perché siano raccolti e letti. Diffondete fogli di poesia, scritti non importa da chi. Fateli volare ai quattro venti, i vostri versi, perché si inverino oltre il gran fortunale della scrittura ufficiale.
Ecco, è questa la sensazione che suscita la silloge: di poesie che, al di là di ogni espressione incolpevolmente volontaristica, vengono a radicarsi con levità quasi familiare dentro di noi, negli abissi della nostra anima. In fondo, questa è un’epoca che ha fame di sentimenti, molto probabilmente perché, come ha scritto T.S. Eliot, «il genere umano non può tollerare troppa realtà». Leggiamo poesia, allora. Frequentiamo poesia e poesie come queste: in un modo o nell’altro scopriremo il primo germoglio di un’epifania del cuore, di uno spleen, di una coscienza più vasta. E sarà già tanto.

a. b.

   
   
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