Giugno 2010

se si intercettassero i poeti

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Spiando rime e allegorie

Gigi Montonato

 
 
 

 

 

 

 

 

È credibile che un poeta invece di scriverle, le poesie, le detti? Che invece d’inviarle scritte, maniacale com’è sulla loro perfetta grafia, si fidi di comunicarle per telefono?

 

 

Diego Carrozzini

Che fa il poeta se sa di essere intercettato? Me lo chiedo, nel pieno del dibattito sul decreto governativo contro le intercettazioni telefoniche, nell’ipotizzata pesca a strascico di confidenze di ogni tipo tra amanti, amici, politici, faccendieri, spacciatori, mafiosi, terroristi, arbitri di calcio e presidenti di club. E se in mezzo alla rete di tanta varia umanità capitassero anche i poeti?
Il pensiero mi corre ad Ercole Ugo D’Andrea, ad Oreste Macrì, a Francesco Politi, a Florio Santini, ai miei cari amici poeti scomparsi, che mi tenevano per ore al telefono in interminabili conversazioni. I poeti parlano di tutto, sono incredibilmente ciarlieri. Fuori dai loro versi, dalle loro rime, assonanze, consonanze, omofonie, variazioni di parole, di ritmi, di metafore, di stilemi ed estetismi, di climax ascendenti e discendenti, sono capaci di giudizi estremamente immediati e tranchant.
Chi li ascolta, estraneo al loro mondo, farebbe fatica a decriptarli, ad associare alle loro frasi probabili comunicazioni in codice. Che so? Quella roba non è farina del suo sacco! Roba... farina... che potrebbero essere? Oh, quelle parole, quell’armonia di suoni… e se si trattasse di allucinogeni?
Se fossero pubblicate le loro intercettazioni, la procura avrebbe il suo bel da fare; la stampa impazzirebbe. La poesia, senza i doppi sensi, sarebbe una lampada spenta. Già nel Medioevo i bestiari, gli erbari e i lapidari erano contenitori formidabili di significati; le allegorie, involucri protettivi di tutto ciò che si voleva nascondere agli altri, dire e non dire, dire una cosa per significarne un’altra. Per visibilia ad invisibilia, come vuole la chiave simbolista o la verità in un ragionamento come suggerisce lo schema triangolare dell’allegoria.
Per altro verso la poesia è un rifugio-prigione e il poeta, quando ne esce, si butta su tutto come un rottweiler affamato e indispettito.

D’Andrea mi dettava al telefono le sue poesie, brevi e belle. Non ho mai saputo se le avesse già scritte o se gli uscissero così nel corso delle interminabili conversazioni, in cui parlava quasi sempre lui e quasi sempre delle stesse cose. Le trovo ancora scritte – se le cerco – su una vecchia agenda che ho sul tavolo accanto al telefono.
È credibile che un poeta invece di scriverle, le poesie, le detti? Che invece d’inviarle scritte, maniacale com’è sulla loro perfetta grafia – una vocale invece di un’altra, l’accento acuto invece del grave, un troncamento invece di un’elisione, la dieresi su una vocale invece che sull’altra – si fidi di comunicarle per telefono? Qualcuno potrebbe anche insospettirsi: qui gatta ci cova!
Poi mi faceva avere per posta le sue belle foto, mai istantanee o casuali, un po’ all’antica, vagamente crepuscolari, da studio fotografico, rigorosamente in bianco e nero, con sapiente gioco chiaroscurale, su carta millepunti. Perché i poeti sono vanitosi oltre ogni ragionevole comprensione. Ma delle foto l’intercettatore telefonico non avrebbe saputo nulla.
Immancabili i suoi riferimenti a Ungaretti e a Luzi, poeti coi quali aveva avuto dimestichezza; con Luzi, a quei tempi, ancora l’aveva. Siamo sicuri che Ungaretti e Luzi non siano nomi di fantasia per nascondere qualcuno? Oh, le intercettazioni…
Macrì mi chiamava dalla sua casa fiorentina la sera tardi per informarsi se avevo ricevuto la sua “Lettera critica” o se già era apparsa su Presenza.
Ma come ci si può fermare alle parole? Chissà che cosa nascondono “lettera critica” e “presenza”. Uno come Macrì, che aveva pubblicato testi fondamentali con case editrici importanti e scritto su riviste letterarie di assoluto prestigio nazionale e internazionale, come poteva tenere così tanto alla pubblicazione su un piccolo foglio della periferia salentina?
L’intercettatore telefonico avrebbe faticato a capire che il Salento era la “dimora vitale” del grande critico magliese, a cui nostalgicamente egli tornava, non tanto o non solo per ritrovarsi coi suoi vecchi amici e compagni di lettere, Marti, Valli, De Donno, che erano un po’ se stesso, il suo tempo, le sue occasioni, quanto e soprattutto coi nuovi, coi giovani, nei quali credeva e sui quali puntava per continuarsi nella vitalità salentina. Tornava a Gino Pisanò, a cui aveva affidato il suo “Simeone”; a me, a cui avrebbe voluto affidare la direzione de L’Albero, nell’ipotesi di un’improbabile ripresa della storica rivista comiana.
Ma immagino pure che Macrì si sarebbe divertito un mondo sapendosi intercettato. Spirito arguto, beffardo, che aveva innestato sulla màzzera salentina quel gusto tutto toscano della burla, di prendersi gioco degli altri. L’intercettatore sarebbe stato per lui come la mosca nella sua ragnatela. Si sarebbe divertito come un pazzo a catturarlo nelle sue secrezioni filosofiche e letterarie.
Politi mi svegliava nel cuore della notte per dirmi trionfalmente che finalmente aveva trovato la parola per un verso goethiano o rilkiano che non lo aveva convinto del tutto e che lo aveva fatto vagar per casa per giorni e giorni e tenuto insonne per parecchie notti. «Eh, caro mio – diceva soddisfatto – Ciccio Politi non finisce mai di rimuginare».
Già, ma è credibile uno che alle due di notte telefoni all’amico-collaboratore per dirgli di una parola finalmente trovata? O qui stiamo tra pazzi o le parole nascondono qualcosa.
Salvo a ritornare poi sul verso con un nuovo eureka, perché lui intendeva la traduzione come ri-creazione di un’atmosfera, un mix di sentimenti e di emozioni, in cui la ricerca s’alimenta inevitabilmente della condizione umorale, dello stato d’animo, più o meno di grazia. Ma qui i dubbi e i sospetti dell’intercettatore telefonico sarebbero aumentati.
Santini, invece, mi parlava delle sue iniziative fallite, del suo tentativo di gestire a Casamassella un piccolo ristorante letterario, con l’aiuto di un emigrante di ritorno, che gli aveva prosciugato un po’ di soldi.
Non sarà che in quella frazione dell’entroterra otrantino si vuole creare un centro di smercio fuori dall’attenzione delle forze dell’ordine?
Era sempre affamato di cose da fare, di scritti da pubblicare, di conferenze da tenere, di conversazioni a questa o a quella radio libera, dove lo invitavano i giovani del luogo. Lamentava l’ostracismo di giornali e riviste nei suoi confronti. Anche lui parlava strano. Diceva di avere un «clandestino a bordo». Si riferiva al suo male. Contro cui non si lamentava mai, che trattava anzi con cortese ospitalità. Ma all’intercettatore l’espressione poteva suonare come una chiara ammissione di favorire l’immigrazione clandestina con tutto quel che segue.
I poeti sono gli esseri più equivoci del mondo. Per gli intercettatori telefonici sarebbero un rompicapo. E per loro? Sapendosi intercettati, sarebbero più capaci di passare dalla finesse delle metonimie alla immediatezza degli improperi? Meglio lasciarli nella loro convinzione di essere soli, i poeti, anche se in conversazione con altri. Perché, se è vero che Macrì si sarebbe divertito, D’Andrea si sarebbe sorpreso, Politi si sarebbe indignato e Santini… beh, forse Santini si sarebbe compiaciuto che un altro ascoltatore, insperato, lo stava a sentire.

   
   
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