Giugno 2010

una certa idea di sud

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Voci dall’infinita
periferia

Antonio Errico

 
 
 

 

 

 

 

 

Vaticinio.
Così parlò di nidi di plastica e di cemento che si sarebbero alzati dov’erano anfiteatri d’uve e dizionari d’ombre, di pinete ridotte a cimiteri di alberi, di spiagge come millepiedi invase dal turismo di massa...

 

 

Lecce: Il busto di Re Tancredi, nel parco della Villa comunale.

Nello Wrona

A un certo punto del Gattopardo, Don Fabrizio dice a Chevalley: siamo vecchi, vecchissimi. «Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi».
È un’idea di Sud: antica, radicata, che probabilmente ancora agisce, che in qualche modo continua a incidere sulla concezione del mondo che si matura qui, a Sud.
Talvolta sembra che sia stato tutto già visto: genti d’ogni razza, destini d’ogni sorta, fasti e miserie, lo splendore e il buio della Storia, la tragedia e la commedia, l’assedio e il martirio, il peccato e la redenzione. Tutto già sentito: i canti dell’ebbrezza e le urla di dolore, le preghiere e le bestemmie in ogni lingua. Anche il silenzio è già stato sentito: quello provocato dall’oppressione, dalla rassegnazione, dal fatalismo: un silenzio che proviene dal fondo dei secoli, dall’angoscia della marginalità e dell’emarginazione. Tutto già vissuto, allora. Non c’è niente più che possa destare stupore, che possa illudere o disilludere, entusiasmare, deprimere, promettere, sedurre.
Il Sud ha un’identità complessa e multiforme, per molti aspetti indecifrabile, enigmatica, che muta in relazione al punto di vista, al rapporto che si stabilisce con la sua storia, con il groviglio dei suoi significati.
Forse sono innumerevoli i modi con cui si può guardare il Sud, perché forse innumerevoli sono le forme con cui il Sud si manifesta e si esprime, perché forse innumerevoli sono i suoi volti – talvolta anche le sue maschere –, le sue anime.

In un saggio edito da Laterza e intitolato Tre modi di vedere il Sud, Franco Cassano analizza alcuni quadri concettuali, alcune idee che hanno costituito e che ancora costituiscono il fondo e lo sfondo della questione meridionale.
Il primo paradigma è quello della dipendenza o dello sfruttamento. È il Sud pensato e usato sistematicamente come terra da conquistare, saccheggiare, depredare. Il Sud tenuto in condizioni di precarietà e di distanza dalle aree forti dello sviluppo, di estraneità dai circuiti dell’investimento economico, della ricerca, del dibattito, della cultura. È un Sud immobilizzato nello stereotipo, nell’immagine fissa, nel luogo comune dell’ineluttabile, dell’a priori. È sempre l’appendice di qualcosa, che ha giacimenti da cui, all’occorrenza, si possono ricavare risorse ed energie da esportare e da sfruttare in altre realtà territoriali e in differenti connotazioni sociali.
«Da duemila cinquecento anni siamo colonia», dice ancora Don Fabrizio.
L’altro paradigma, secondo Cassano, è quello della modernizzazione o del ritardo. Qui, a Sud, si arriva ad un punto dopo che ci sono arrivati il Centro e il Nord. Probabilmente si comprendono i fenomeni in anticipo, si intuiscono, si percepiscono con una sorta di veggenza intellettuale, ma poi, nei processi di progettazione e di realizzazione, i meccanismi si inceppano, i tempi si dilatano, le forze si disperdono. Se l’evoluzione sociale è determinata in modo prevalente dal passaggio dalla tradizione alla modernità, «il Sud coincide con quell’area territoriale in cui permangono in modo rilevante i tratti sociali, economici e culturali che frenano questa transizione e ritardano il progresso».
È questo il Sud che si ripiega su se stesso, che non vuole – o non riesce – a svincolarsi dall’immaginario cristallizzato e falso elaborato da una cultura di epigoni, da forme di espressione che si protraggono fino ad esasperarsi, che si riducono a topos, imitazione sterile, copia deformata.
È il Sud della nostalgia, che propone e propaga figurazioni di sé autoreferenziali e autocelebrative, che rifiuta il confronto e si rinchiude in una solitudine, in un isolamento, un’autoesclusione che lo condannano all’arretratezza e al ritardo; è il Sud che innalza altari al proprio passato, che si aggira tra le macerie quasi compiacendosi della decadenza, che orienta il proprio pensiero e la propria azione esclusivamente verso la conservazione delle cose come sono. Per questo Sud, qualsiasi elemento nuovo è un’invadenza, un’intrusione, un assalto al castello della propria identità che si deve necessariamente respingere attraverso l’opposizione o l’indifferenza.
C’è una poesia di Nelo Risi che si intitola “Lascia che ti spieghi, darling”. È un catalogo di antiche condizioni del Sud, che a tratti resistono, anche se con riverberi, con sembianze mutate.
Dice di una luce che sa tanto di colore, di occhi duri come le pietre rare, dello stare con i morti offrendo brocche e fave, del dividere la propria colpa con il redentore. Dice di un unirsi senza gioia, tanto per sposare, del sogno che si fa di un ambo perché non c’è altro da fare, delle rovine stanche di una vita anteriore, del restarsene seduti all’alba in attesa del campiere, dei fuochi d’artificio tra mucchi di letame. Dice che «questo e altro che non si finirebbe mai di vedere / sono l’alibi cinico della questione meridionale».

Chiunque si guardi intorno riesce a vedere cos’è e com’è quello che c’è intorno. Se c’è una campagna o una cattedrale, se ci sono vecchi, se ci sono bambini, se è luce o se è buio, se sta passando un treno, se cavalli sbrigliati si sfrenano sulla pianura; riesce a vedere se è estate o se è inverno, se il mare è calmo oppure se è in tempesta, se le creature sono felici, se provano dolore.
Tutti sanno vedere la realtà del presente, il tempo che vivono, i luoghi che abitano.
Ma di tanto in tanto tra coloro che si guardano intorno, c’è qualcuno che vede cose diverse. Spesso è un tipo strano: a volte silenzioso, a volte ciarlatano, a volte sembra un po’ matto. Però riesce a vedere sotto, dentro, in fondo, avanti, dietro, oltre le cose che tutti gli altri vedono.
Riesce a vedere non solo come sono nel momento in cui le guarda ma anche come sono state nel passato, come diventeranno nel futuro. Riesce a capire che cosa nascondono, che cosa non vogliono rivelare, quali segreti custodiscono. L’uomo un po’ strano sa vedere com’è stata e come sarà quella cattedrale, come diventerà quella campagna, come sarà la luce di altri mattini e il buio di altre sere, come saranno le estati e gli inverni che verranno. Certe volte riesce anche a capire se i figli e i figli dei figli di quegli uomini che vede saranno più felici o lo saranno di meno.
Spesso l’uomo un po’ strano viene chiamato poeta.

Vittorio Bodini fu un poeta che vide oltre quello che guardava. Capì come sarebbe diventata questa terra, dopo qualche tempo, dopo non molto tempo. Così parlò, quasi come un vaticinio, dello «sgocciolio suicida di questo paesaggio», di nidi di plastica e di cemento che si sarebbero alzati dov’erano anfiteatri d’uve e dizionari d’ombre, di pinete ridotte a cimiteri di alberi, «alti scheletri arsi in un incendio senza canti»; parlò di spiagge come millepiedi invase dal turismo di massa, di un mare sporco di nafta e di assassinio della natura.
Quando scriveva queste parole era il giugno del millenovecentosettanta.
Basta che noi ci si guardi appena appena intorno per capire se aveva visto bene o se si era sbagliato.
Vittorio Bodini fu un poeta che vide in fondo. Scavò in ogni angolo del Sud, cercò i significati originari, essenziali, i segni di un passato a volte strabiliante, a volte angoscioso; cercò le favole che il Sud racconta a se stesso da un tempo immemorabile; indagò i suoi misteri veri o presunti, la materia di cui erano fatti i suoi riti poveri e sontuosi, i suoi miti esclusivi o quotidiani. Cercò tutti i segni che rappresentavano la vita e la morte del Sud, e capì che la differenza tra la vita e la morte sta soltanto nell’ombra che si allunga dai tufi delle case, dai corpi delle creature.

Non si può sapere se – intimamente – l’uomo che rispondeva al nome di Vittorio Bodini abbia amato il Sud. Ma poeticamente Vittorio Bodini non amò né il Sud né il Sud del Sud.
Il Sud aveva dentro sé il senso della morte, che cresceva, si spandeva, contagiava ogni giorno, ogni situazione del vivere, logorava il pensiero, costringeva alla fuga, oppure a un’esistenza rintanata nella fatalità, nella rassegnazione.
Scriveva che ogni casa e ogni attimo del passato somiglia «a quei terribili polsi di morti / che ogni volta rispuntano dalle zolle / e stancano le pale eternamente implacati».
«Quando tornai al mio paese nel Sud, / io mi sentivo morire».
Ecco, dunque, la sensazione, il sentimento, anche il sentore, della morte. È come se, al ritorno al proprio paese del Sud, la vita si allontanasse, come se il sangue si ghiacciasse nelle vene, si perdesse coscienza di sé, si fosse rapiti da una nostalgia di paesi e creature lontane. Come se, nello stesso istante del ritorno, si cominciasse a sprofondare nella botola dei morti. La vita è nella distanza.
È altrove. Qui, a Sud, resta solo il sentire la morte.
Non amò il Sud, Vittorio Bodini, non amò il Salento. Non ci voleva vivere. Non ci voleva morire.
Chi è lontano dalla propria terra spera di poterci tornare almeno prima della fine. Spera di poter riposare per sempre lì dov’è nato. Generazioni di emigranti hanno avuto e hanno soltanto il grande sogno del tempo dell’eternità nella propria terra.
Bodini rinnega questo pensiero, lo scardina, lo ribalta. Con una consapevolezza lucida del rifiuto, con la constatazione di un amore imposto dall’appartenenza, dal vincolo di sangue. Solo da questo. Allora dice: «Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese / così sgradito da doverti amare».
Ecco: “mi tocca”. Come una condanna da scontare, una maledizione che non lascia scampo. Il desiderio di una morte in lontananza rappresenta la speranza della possibilità di una negazione assoluta dell’appartenenza, della disintegrazione interiore dell’io e del “mio”.
I giorni della vita, invece, sono attraversati da un pressante istinto di fuga, dalla meditazione ossessiva di un addio ad una periferia infinita dove accade quello che il mondo non può volere: perché un giornale «loda la guardia campestre / se spara sui ladri di chiocciole / nel bosco incolto o dà la caccia / a bimbe con le labbra viola / per qualche oliva selvatica nella macchia».
In questo spazio dove si vive «come dati insolubili che non maturano», tutto è – o appare – come non dovrebbe, ogni cosa sembra fuori posto, si rivela impropria, inadeguata, causa di un rimpianto lancinante, o di un rammarico che strozza l’esistenza.

   
   
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