Giugno 2010

la sindone

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Ma quell’uomo in croce
cambiò la storia del mondo

Tiziano Vallauri

 
 
 

 

 

 

 

 

La fede nell’esistenza di “vere immagini” di Gesù non si diffuse in Europa prima del VI secolo, si cercarono, poi si venerarono reliquie che portassero l’impronta di un corpo sopra un pezzo di stoffa: il tipo di segni che lasciano corpi nudi o insanguinati.

 

 

Un autoritratto dell’astigiano Secondo Pia, che sviluppò, nel 1898, la prima fotografia della Sindone.

Archivio BPP

Non riusciva a credere ai suoi occhi quando, nel buio rossiccio della camera oscura, i lineamenti del volto di Cristo avevano preso a delinearsi sulla lastra di vetro. L’avvocato Secondo Pia, fotografo dilettante a Torino, era rimasto esterrefatto: rivolgendosi al suo assistente, gli aveva detto in dialetto: «Varda, Carlin, se sossì a l’è nen un miràcol!».
E un miracolo sembrava davvero. Fotografato per la prima volta, con l’aiuto di una potente illuminazione elettrica, un lenzuolo che i piemontesi adoravano da secoli come il sudario del Nazareno, la Sindone, aveva rivelato le forme di un corpo fino ad allora invisibile a occhio nudo. In camera oscura, sul negativo della foto del lenzuolo si era disegnata al positivo, d’improvviso, chiarissima, la figura di un uomo dai capelli lunghi, barbuto, ferito alle mani e ai piedi. Dopo diciannove secoli di storia cristiana, nuove tecnologie restituivano intatto lo spettacolo tragico e salvifico del Golgota.
Era il 28 maggio 1898. L’avvocato Pia era stato invitato a fotografare la Sindone dal re in persona, Umberto I, che con l’ostensione e la riproduzione del sudario aveva voluto solennizzare il cinquantesimo anniversario dello Statuto Albertino. Ma chi avrebbe potuto aspettarsi una cosa simile, epifania fotografica di Cristo sotto la Mole?
In un baleno, la notizia si era sparsa in città, e alla processione dei pellegrini verso la cattedrale torinese si era aggiunta una diretta allo studio di Pia. La Sindone aveva inaugurato così la propria storia contemporanea, quella di un oggetto di culto assolutamente unico nel suo genere. Sintesi perfetta di corpo e di immagine. Impronta e ritratto. Antica reliquia e moderna fotografia.

L’epifania subalpina del 1898 riusciva tanto più memorabile, in quanto il tema della rappresentabilità del corpus Christi era vecchio quanto il Cristianesimo stesso. La vita del Gesù storico si era svolta infatti in un ambiente ebraico, dove dominava il divieto di fare immagini della divinità. Sul monte Sinai, Jahvé si era nascosto a Mosè quando gli aveva rimesso le tavole della legge; religione della scrittura, il monoteismo si era definito anche come una religione senza idoli. Ma l’inaudita incarnazione di Dio nel corpo umano del Messia – ragionarono i primi cristiani – aveva sottratto il monoteismo all’interdetto delle immagini. Il Dio fattosi uomo poteva ben essere rappresentato, se non altro, attraverso le tracce lasciate dal suo corpo.
“ Vedere” il corpo del Salvatore, consumarne visivamente la Passione in un gesto necessario di pietà, oppure nascondere agli altri e a se stessi la memoria di quello spettacolo, ricordandosi del Vangelo secondo Giovanni: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno»? Insigni storici dell’arte, fra i quali Hans Belting, autore fra l’altro del saggio su La vera immagine di Cristo, sono da tempo persuasi che in questa alternativa si sia consumata una parte non trascurabile del dilemma estetico, oltreché del vissuto religioso dei cristiani, dall’antichità ai nostri giorni.

Durante i primi secoli dell’era cristiana, nella rappresentazione iconografica di Cristo prevalse la cautela: piuttosto che figurazioni dirette di un giovane uomo, barbuto o meno, vivo o crocifisso, si ebbero immagini allegoriche del Pastore e del Maestro. La fede nell’esistenza di “vere immagini” di Gesù non si diffuse in Europa prima del VI secolo, fondandosi sull’idea di un contatto tra panno e corpo alla base della Croce. Dapprima si cercarono, poi si venerarono reliquie che portassero l’impronta di un corpo sopra un pezzo di stoffa: il tipo di segni che lasciano corpi nudi o insanguinati. Ma non si pretendeva, a quel tempo, di riconoscere nel tessuto la traccia di un ritratto. Si adorava un panno che si diceva essere venuto a contatto con il corpo di Cristo, senza volerci vedere un volto.
Fu invece questa nel Medioevo la vicenda della Veronica, o Vera Icona: un lenzuolo venerato appunto come una reliquia del Golgota, dove l’impronta di un viso barbuto appariva ben visibile, e che costituì l’attrazione principale dei pellegrini che si recavano a Roma nel Basso Medioevo, (oggi c’è chi riconosce questa reliquia, scomparsa dopo il Cinquecento, nel Volto Santo conservato presso il convento dei cappuccini di Manoppello, in Abruzzo, mentre altri la ritengono diversa, e custodita in San Pietro). «Quell’imagine benedetta la quale Iesù Cristo lasciò per esempio de la sua bellissima figura», fu la descrizione del panno nella Vita Nova di Dante. Più mirabile di ogni altra mirabilia capitolina, il sudario con la Veronica non anticipava forse, tramite l’immagine del Figlio, la contemplazione che i beati avrebbero avuto del Padre?
A partire dal Rinascimento, l’immagine del corpus Christi si affrancò dall’idea del contatto necessario di un corpo con un panno: volteggiò libera nello spazio dell’arte come in quello della devozione, sulle pale d’altare o nelle tele, sotto gli occhi o dentro il cuore delle anime fidenti. Più che mai nell’epoca del Manierismo e del Barocco, l’estetica religiosa visse di flagellazioni, di crocifissioni, di deposizioni, senza che si vincolasse l’immagine del sacrificio alla traccia lasciata su un panno dal corpo glorioso.

Nondimeno, le “vere immagini” più straordinarie sono quelle di un pittore tra i massimi del Seicento spagnolo, Francisco de Zurbarán. Il quale, nella sua ricerca di cristiano prima ancora che di artista, avvertì forte il bisogno di ritornare proprio al supporto tessile, al panno, al sudario, per restituire compiutamente l’immagine della Passione. Nel corso della sua lunga carriera, Zurbaràn ripetutamente dipinse una rappresentazione in trompe-l’oeil del sacro volto su un lenzuolo: ogni volta interpretando il soggetto in modo diverso, secondo quanto l’intensità della fede religiosa gli suggeriva sul momento.
Nella Santa Faz del 1631, che oggi sta nel Museo nazionale di Stoccolma, Zurbarán immagina esattamente (se così si può dire) quanto il fotografo Pia avrebbe scoperto nella Torino del 1898: tra le pieghe di un panno, il delinearsi netto e distinto dei tratti del Crocifisso! Più fascinosa ancora risulta tuttavia la Santa Faz di Valladolid, dipinta dal pittore oltre un quarto di secolo dopo, nel 1658. Qui, i tratti di un viso si distinguono a malapena sul lenzuolo. Il volto di Cristo si riduce a una macchia indistinta, che ha il colore del sangue essiccato. E il vero cristiano deve trovare in se stesso la forza per immaginare i tormenti del vero Salvatore.

Oggi ci sono circa due miliardi di cristiani di varie confessioni: 530 milioni vivono in Europa, 510 milioni in America Latina, 390 milioni in Africa e forse 300 milioni in Asia. Ma secondo il sociologo americano Philip Jenkins, uno dei più importanti studiosi del mondo delle religioni, questi numeri sono destinati a cambiare in modo sostanziale nei prossimi decenni. Entro il 2025, l’Africa e il continente Latino-Americano saranno in lizza per il titolo di terra più cristiana.
Una mappa del “centro di gravità statistico del Cristianesimo globale” mostra che esso si sta costantemente spostando a sud, da un punto nel Nord Italia nel 1800, alla Spagna centrale nel 1900, al Marocco nel 1970, al territorio intorno a Timbuctu oggi. La traiettoria in direzione meridionale è continuata incontrollata per tutto il secolo XX. Come ha sottolineato Todd Johnson, lo spagnolo è stato dal 1980 la lingua principale dei membri del Cristianesimo nel mondo, e il cinese, l’indi e lo swahili giocheranno presto un ruolo anche più rilevante. Allo stato attuale, la “schiavitù della Chiesa” nei confronti del Nord Atlantico, durata secoli, è arrivata al termine.

I numeri sono impressionanti: tra il 1900 e il 2000 il numero dei cristiani in Africa è cresciuto da 10 a più di 360 milioni, vale a dire dal 10 al 46 per cento della popolazione. Se questo non è, da un punto di vista quantitativo, il più grande cambiamento religioso nella storia umana in un così breve periodo, non si riesce a pensare a un altro che possa reggere il confronto. Oggi i centri più palpitanti di crescita del Cristianesimo sono ancora nella stessa Africa, ma anche lungo il bordo del Pacifico, nel cosiddetto “arco cristiano”. Già ora gli africani e gli asiatici rappresentano il 30 per cento circa di tutti i cristiani, e questa proporzione crescerà senza soluzione di continuità. E tutto questo, malgrado le persecuzioni che i cristiani subiscono in diverse aree del pianeta.
Plausibilmente, il raccolto cristiano più ricco potrebbe tuttavia trovarsi in Cina, una nazione di importanza inestimabile per le politiche dei decenni futuri. Alcune proiezioni suggeriscono che entro il 2050 la Cina potrebbe ospitare la seconda più grande popolazione di cristiani sul pianeta, superata soltanto dagli Stati Uniti. Con maggiore approssimazione possiamo pronosticare che per quella data si potrebbero contare circa tre miliardi di cristiani nel mondo, dei quali solo circa un quinto o anche meno saranno bianchi non ispanici.
Gli effetti di questi cambiamenti possono essere verificati in tutte le confessioni. La Chiesa cattolica romana, la più grande del mondo, fu la prima ad avvertire l’impatto. Attualmente, due terzi dei suoi adepti vivono in Africa, in Asia e in America Latina, e quel totale non include i popoli del Sud globale residenti al Nord. Entro il 2025 questa proporzione dovrebbe aumentare al 75 per cento, fenomeno questo che avrà certamente ripercussioni sulle future elezioni papali. La comunità anglicana – storicamente la “Chiesa inglese” – è sempre più dominata dalla presenza africana, tanto che il ramo nigeriano diventerà presto la sua rappresentanza più numerosa.

Anche la Chiesa avventista del settimo giorno mostra queste tendenze. Negli anni Cinquanta aveva circa un milione di adepti, concentrati soprattutto negli Stati Uniti. Oggi dichiara circa 14 milioni di seguaci, dei quali soltanto un milione risiede nel Nord America, e di questo milione una parte abbastanza consistente è costituita da immigrati. Delle Chiese con radici euro-americane, quelle che si stanno espandendo lo fanno acquisendo rapidamente una composizione più meridionale. Quelle che falliscono in questa espansione mantengono la loro identità chiaramente euro-americana, ma si vanno riducendo pericolosamente in termini di mercato. La comunità ortodossa, ancora saldamente radicata in Europa orientale, offre un modello preoccupante di declino demografico, apparentemente irreversibile.
Il Cristianesimo nel mondo è in fase di forte espansione, ma almeno in termini relativi quello “occidentale” è stagnante, mentre il vecchio Cristianesimo orientale sta probabilmente affrontando la sua crisi terminale. Nel momento in cui vediamo il Cristianesimo «andare verso Sud», pensiamo al commento ironico di John Updike, l’indimenticabile autore, fra l’altro, di Corri, coniglio. Che scrisse: «Non credo che Dio si trovi bene in Svizzera […]. Dio è al suo posto all’Equatore». Questa osservazione, al limite della profezia, è vera oggi, e probabilmente lo sarà di più nei prossimi anni.

La crescita contemporanea cristiana nel Sud globale poi non è per nulla associata solo all’estrema povertà. Se il Cristianesimo fiorisce in circolazione di povertà e persecuzione, questo non è il solo suo ambiente favorevole. Ovviamente, raggiunge altri tipi di fedeli, oltre ai poveri e ai perseguitati. Nelle nazioni del Pacifico, in particolare, la fede affascina molti professionisti e gruppi in crescita intellettuale. In Cina è proprio il legame con la modernità che dà al Cristianesimo il suo fascino iniziale per persone di livello culturale medio e alto. In altri termini, lo sviluppo economico e i progressi della scienza e della medicina non implicano alcuna diluizione della fede cristiana o della sua pratica, e gli africano si risentono profondamente di qualsiasi accusa secondo cui la loro fede è soprattutto plasmata dalla miseria o da una visione “primitiva” del mondo.
L’arcivescovo cattolico nigeriano di Abuja, John Onaiyekan, ridicolizza l’idea occidentale secondo cui «verrà il momento in cui gli africani verranno fuori dalle loro capanne e saranno educati, penseranno e si comporteranno come noi». Egli piuttosto suggerisce che «più i livelli di autostima e di sviluppo dell’Africa cresceranno, più questo continente diverrà audace nell’affermare una sua visione morale a livello globale».
Ed è, questa proposizione, uno sguardo lungo, gettato su terre fino a poco tempo fa ritenute di difficile conquista spirituale cristiana (Brasile interno, Vietnam, Filippine, Nigeria e “cuori di tenebra” africani, ad esempio), ma anche uno sguardo illuminante, che smentisce il refrain secondo cui il futuro apparterrebbe all’Islam.
Merito di chi è sempre in mezzo a tutti noi, a occupare la scena, a dettare anche i tempi del confronto culturale. In tv straccia ogni concorrenza, sugli schermi cinematografici o tra le pagine di un libro diventa sempre un caso. Di volta in volta, scompare e riappare in piazza. E subito spopola, si dica bene o male di Lui.

Non si pensi a Fellini, maestro di mare e di spiaggia; né a Kurosawa, maestro di pianure e di folle armate. Si pensi a Centochiodi, di Ermanno Olmi, maestro di alberi e di fiumi. Chi ha visto questo film di fine carriera, una sorta di film-testamento del regista “cattolico”, dispiegato ai limiti della provocazione negazionista, non ha potuto fare a meno di ricordare quello del suo debutto, E venne un uomo chiamato Giovanni dove, con la voce narrante di Rod Steiger, Papa Roncalli e il Vaticano II venivano raccontati con gli occhi dello stupore, quelli con i quali i cristiani del post-Concilio guardavano una Chiesa che, abbandonata ogni apologetica, si rimetteva in mezzo al mondo, pronta a testimoniare sia il bene che voleva compiere sia quello che Cristo seminava nel cuore delle culture e della storia (Cammina cammina, il film della mezza età di Olmi, era la parabola sull’attesa del Messia, e sul viaggio di ricerca di Re Magi molto simili a noi).
A fare un po’ di conti, da qualche anno a questa parte almeno tremila processioni del Cristo morto percorrono le strade dei nostri paesi, affiancate da centinaia di “Passioni viventi”. Lo sappiamo tutti, o siamo in molti ad averlo pensato: questa è la ricaduta di The Passion, il film del regista australiano Mel Gibson, e dei suoi imitatori anche nel mondo della carta stampata. In fondo, come sempre, se Cristo torna in piazza è per sentire la risposta che i cristiani di oggi danno alla domanda da lui rivolta nei Vangeli ai cristiani di ogni tempo: «Voi chi dite che io sia?».
Milioni di persone gli avranno senz’altro dato l’impressione che Egli sia il personaggio vagamente esoterico che Dan Brown ha immaginato per il suo Codice da Vinci. Altre centinaia di migliaia hanno provato a rispondere attraverso il sapere degli esperti interpretato da Corrado Augias e Mauro Pesce, autori dell’Inchiesta su Gesù. Verosimilmente, saranno parecchi anche quelli che in Gesù non lo ha mai detto, di Bart R. Ehrmann, hanno scoperto le ipotesi proposte di volta in volta dagli sviluppi delle scienze umane.

Ma perché meravigliarsi se atei, agnostici, eretici, apostati, autori di fanta-inchieste, avventurieri della penna, e altri loro compagni di strada si sono unilateralmente schierati dalla parte dei negatori della natura divina (e, sotto il profilo storico, a volte persino dell’esistenza fisica) dell’uomo di Nazareth? La prima volta che Gesù fu portato al Tempio fu subito riconosciuto come “skandalon”. Letteralmente: pietra d’intralcio. Perché la storia può essere raccontata anche al rovescio. E quella di Cristo non fa eccezione: dicerie e calunnie sul suo conto sono state sempre dette e saranno sempre ripetute. C’è una storia che può essere raccontata con gli occhi di chi non crede. C’è una storia che può essere raccontata con gli occhi di chi non sa. Sulla vicenda del Nazareno ci sono documenti che non hanno sempre lo stesso valore: esistono Scritture che hanno un’attendibilità che invece i testi apocrifi, quelli tardivi e quelli (anche subdolamente) fantasiosi, non possono in alcun modo vantare.
Le stesse invenzioni “artistiche” sui presunti rapporti tra Gesù e la Maddalena, e altre temerarie e variegate ossessioni sessuali seminate nei racconti dei nostri pruriginosissimi giorni possono rivendicare una tradizione anch’essa basata sulle fonti del secondo secolo dell’era volgare, nei testi apocrifi e in quelli gnostici. Ne abbiamo traccia persino nelle lettere di Gerolamo e negli scritti di altri Padri della Chiesa.
Vogliamo dire: sapevamo già tutto, o moltissimo, allora non rifilateci le vostre storie come novità. Certo, in nome della libertà di cambiare opinione, o di mettere in discussione un credo al quale si è attenuto fino alle soglie della vecchiaia, (quando non si ha più nulla da perdere), Olmi, che abbiamo preso ad esempio emblematico del discorso, ha tutto il diritto di mettere in discussione Dio e il Papa, la Società e la Chiesa, l’Ordine del Mondo, l’Insensatezza della Storia, l’Inutilità della Cultura. Tabula rasa, in un Paese come il nostro, in cui la Politica si è frantumata in guerra per bande, la Società Civile si è lasciata corrompere e soffocare dalla Politica, la Cultura si è fatta “Comunicazione di massa”, merce, notte bianca, fiera delle vanità.
Ma per colpa di chi? L’interrogazione sul senso di tutto questo travolge chi si fermi un momento e si guardi attorno: vedrà la desolazione, e in un orizzonte più vicino scorgerà forse anche la fine della speranza. Né pensiero forte, né pensiero debole. Perché gli intellettuali non hanno salvato il mondo, nel Novecento, né l’hanno migliorato in questi ultimi decenni. Non c’è bisogno di essere dei geni per cercare il vero e il giusto senza lasciarsi frastornare dal rumore di fondo che riempie i nostri vuoti. Al vero e al giusto, avrebbe detto Lev Tolstoj, bisogna saper sacrificare anche il bello, se non vi si integra.
Si definisce tutto ciò revisionismo? Lo si manifesta come desiderio di sapere – ancora una volta – chi è il giovane falegname di Nazareth? Lo si nega (lo si rinnega) se non si trova una risposta che soddisfi, se non è a nostra misura, se non risolve per miracolo le nostre frustrazioni profondamente sentite, se non ci dice perché è consentito lo scandalo della disobbedienza e del peccato, del male e del dolore? È bisogno di comprendere? E se fosse, tutto questo, solo il vero mistero di Cristo?

   
   
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