Giugno 2010

Storie e tradizioni del sud

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Il Bruzio
che trafisse il Nazareno

Ruggero Milani

 
 
 

 

 

 

 

 

E, allo stesso modo dei Giudei, per millenni disprezzati, non sia che questa terra debba pagare, e stia pagando con il proprio sangue quello innocente e divino sparso allora.

 

 

Un crocifisso in una chiesa rurale di Giuliano, nel Capo di Leuca.

Nello Wrona

“Militum unus occidit Christum”, dice la tradizione, e riferisce Mimmo Gangemi in un suo pregevole saggio. Uno dei soldati uccise Cristo. E la frase porta diritti alla Sacra Sindone esposta di recente nel Duomo di Torino, esattamente dieci anni dopo l’altra ostensione, e a quel corpo – «piagato, martoriato, sanguinolente» – avvolto nel lenzuolo, e a quel volto, impressionato tridimensionalmente, che vogliamo continuare a credere il volto (e il corpo) di Cristo, sebbene contestatissimi risultati del Carbonio 14 spostino la datazione del telo 1300 anni in avanti.
E conduce alla Sacra Sindone perché la legione romana stanziata in terra palestinese al tempo di Gesù era la Decima Fretensis, voluta da Ottaviano e denominata “Decima” per ricordare la celebre e invincibile Legio X di Giulio Cesare. Il primo a comandarla fu Sesto Pompeo. “Fretensis” deriva da fretum, che significa frattura, stretto. E “Fretum Siculum” era chiamato lo Stretto che divideva la Calabria dalla Sicilia.
Ad fretum oppure Ad statuam – espressione alternativa – terminava la Via Popilia, a Catona, di fronte alle acque micidiali di Scilla e Cariddi, dove si ergeva la statua di Nettuno Infero, al quale Sesto Pompeo era devoto. Proprio lì la legione aveva il suo campo-base, con il compito di presidiare lo Stretto.
Le fu subito dato il “cognomen Fretensis” perché formata da legionari del luogo, Reggini o Bruttii, o Bruzii, che rappresentavano ciò che rimaneva delle popolazioni dell’entroterra decimate due secoli prima dai militi romani e ancora additate al disprezzo che spettava ai barbari più barbari – mentre in realtà avevano posseduto e ancora possedevano cultura e civiltà significative – perché prime a voltare le spalle alle insegne romane passando dalla parte dei soldati di Annibale, e perché è sempre il vincitore a coniare la storia.
Reggio poté avere i suoi legionari perché era diventata Municipio, senza suffragio, nell’89 prima di Cristo, con il nome di Rhegium Julii. All’epoca di Cristo, la Legio Decima Fretensis era agli ordini di Ponzio Pilato. E le toccò flagellare e crocifiggere il Nazareno. Fu un suo soldato che «trafixit costatum Christi» – cronaca in un latino già adulterato –; fu un suo milite che gli porse sulla punta della lancia una spugna imbevuta d’aceto quando Lui chiese acqua; e fu un suo centurione a riconoscerlo Figlio di Dio appena il sole si eclissò, e calarono le tenebre da mezzogiorno alle tre, e tremarono le terre, e si squarciò il velo del Tempio.

Fin qui la storia. La leggenda a sua volta si accanisce e tramanda che il legno della Croce proveniva dalla Sila. Questo è difficile da accettare: in Palestina le crocifissioni erano all’ordine del giorno, si sarebbe dovuto trattare di un continuo andare e venire di navi cariche di tronchi, quando cedri e ulivi non difettavano in quella terra orientale.
Si trattò probabilmente di un’infamia, messa in circolazione per mantenere il disprezzo sui Bruzii macchiati dall’antico tradimento filo-cartaginese, mai dimenticato, e forse mai veramente perdonato.

(Digressione per capire meglio la questione del legno che venne usato per fare la Croce. Il teschio che figura ai piedi di Adamo in un quadro di Jacopo Bassano è proprio quello del primo uomo creato da Dio. Il Golgota, ossia il colle del Teschio, sul quale venne crocifisso Gesù, si chiamava così perché si diceva che vi fosse stato sepolto il cranio di Adamo. Sul teschio del primo peccatore cadde poi il sangue rigeneratore di Colui che col suo sacrificio volle redimere l’umanità dal peccato originale.
In effetti, una leggenda del genere è circolata a lungo. Ma il suo rapporto con la crocifissione è diverso, ed è il tema centrale di altre leggende medioevali, raccolte in seguito da un grande divulgatore della Cristianità, Jacopo da Varazze, in un libro, La leggenda aurea, che conobbe una straordinaria fortuna.
Vi si narra che tutto cominciò quando Adamo, ormai prossimo alla morte, mandò il figlio Seth nel Paradiso Terrestre per chiedere l’olio della misericordia e della salvezza all’angelo che ne custodiva i cancelli. L’angelo rispose che l’olio sarebbe stato concesso dal Figlio di Dio quando fosse giunto il momento della sua venuta, ma gli dette nel frattempo tre semi e gli ordinò di metterli sotto la lingua di Adamo dopo la sua morte.
Fu così che dalla bocca del primo uomo fiorirono tre rami: il primo di ulivo, il secondo di cedro, il terzo di cipresso. Per conoscere la storia di quei rami dal momento in cui Mosè li trovò nella Valle dell’Ebron, si può leggere un breve libro di Federica Armiraglio, La leggenda di Adamo ed Eva: vi si scoprirà che il “santo legno” fu custodito nel Tempio di cui Davide aveva iniziato la costruzione; che fece innumerevoli miracoli; che fu gettato nella piscina probatica – dove si lavavano le pecore destinate ai sacrifici –; che fu utilizzato come ponte per attraversare il ruscello Siloe; che venne trascurato da Salomone, ma fu devotamente adorato dalla regina di Saba; che infine fu utilizzato per la crocifissione del Nazareno.
Alcune leggende successive raccontano come l’imperatrice Elena abbia rinvenuto, tre secoli dopo, il legno della Croce. Non appena giunta a Gerusalemme, la madre di Costantino interpellò gli ebrei più sapienti della città, ma ricevette risposte vaghe e reticenti. Passò quindi ai modi bruschi e gettò in un pozzo, senza acqua e senza cibo, un ebreo di nome Giuda, finché questi non la condusse sul luogo dove le tre croci erano state interrate. Fu necessario, dopo la scoperta, accertare quale fosse quella di Cristo; e questo accadde quando una delle tre fece il suo primo miracolo, riportando un morto alla vita. Questa storia è stata raccontata da Piero della Francesca nel suo ciclo su La leggenda della vera croce, dipinto per la chiesa di San Francesco ad Arezzo.
Quanto al teschio che appare ai piedi di Adamo nella tela di Jacopo Bassano, non è escluso che il pittore abbia voluto inserire nella sua opera un “Memento mori”, una riflessione sulla morte, tema ricorrente nella pittura religiosa della Controriforma).

Riprendiamo il discorso iniziale. Dunque, furono davvero i Reggini della Fretensis a crocifiggere il Nazareno. Secondo Salvatore Parlagreco, che ha scritto un breve saggio dal titolo Storia della legione siciliana, i Messinesi intesero assumersi il “merito” di avere ucciso Gesù. Viene infatti asserito che la Legio X era siciliana e composta da legionari isolani. Ma non è così, precisa Gangemi. Perché, mentre Reggio, da città federata, divenne Municipio romano, Messina ottenne lo stesso privilegio più tardi, da Ottaviano Augusto, che regnò dal 29 prima di Cristo al 14 dopo Cristo, quando la Legio X era attiva e gloriosa fin dal 41 prima di Cristo ed era stanziata sull’altro versante, quello “continentale” dello Stretto.
Si tratta tuttavia di un “merito” che i Reggini cederebbero volentieri ai loro dirimpettai, e cugini, sebbene figli di sorelle in eterna lite, al punto che persino la generosa Fata Morgana, stremata dai continui dissapori, da decenni ormai nega la celestiale magia di specchiare ampi scorci di Messina sulle acque antistanti Reggio.
Messina, insieme con Siracusa, Ragusa e Catania, era “provincia babba”. Sembra un aggettivo spregiativo. E invece è un vanto, da attaccare la medaglia sul labaro cittadino, perché con “babba” si intendeva che era immune dal fenomeno mafia, in una Sicilia invece in piena metastasi di questo cancro. Era, però. Come erano, e non sono più Siracusa, Ragusa e Catania, a loro volta infettate. Messina rischia tuttavia di rimanere “babba” – senza alcun onore, stavolta, ma nell’accezione vera del termine – se non si oppone a chi le accolla la Passione di Cristo, a chi vuole ascrivere alla sua storia e alla sua coscienza una macchia che sicuramente non le appartiene.

Tornando alla Sacra Sindone e ai segni del calvario del Salvatore: il santo volto e le tracce di sangue visibili nel lino riconducono ai legionari di Rhegium Julii. Anche se si può non vedere alcuna colpa. Alla Decima Fretensis è soltanto toccata la ventura di essere stanziata in Palestina. Vi fosse stata comandata un’altra, nulla sarebbe mutato del destino umano del Cristo, che era già scritto.
Però non sia, come perfidamente può venir fuori dai pensieri, che arcani disegni, estranei a un cielo mai vendicativo, abbiano dato vita, concretezza e spessore a qualche malefico sortilegio che pende sul popolo reggino, per essere stato il predestinato artefice del compiersi di quel destino.
E, allo stesso modo dei Giudei, per millenni dispersi nel mondo, senza patria, perseguitati, disprezzati – «liberaci, o Signore, dai perfidi Ebrei» si recitava in chiesa, durante la messa, fino agli anni Sessanta – e sparsi a milioni “fumo nel vento”, come nella vecchia canzone Auschwitz dei Nomadi, non sia – ripetiamo – che questa terra debba pagare, e stia pagando con il proprio sangue quello innocente e divino sparso allora.

   
   
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