Giugno 2010

alla ricerca dei poeti dimenticati

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In ombra

Ada Provenzano - Giorgio Franciosa - Elisa Minerva

 
 
 

 

 

 

 

 

La poesia nasce dall’amore per le cose, dal desiderio di celebrarle, da calda speranza, da una vita che anima su tutto e oltretutto la vicenda millenaria dell’uomo.

 

 

Fortimbras

La parola poetica «sottrae all’ombra e alla notte ciò che esiste, scendendo su cose ed eventi come luce che fa essere nella loro inconfondibile specificità»: è quanto scrive Giorgio Mazzanti, citando il romanziere francese Schmitt; un po’ come la luce aurorale che richiama quella della prima creazione, che toglie dall’indistinto le cose, le fa essere nominandole, illuminandole.
Luce albale, la poesia è fuori dal tempo ed è destinata all’eternità cui anela: e tuttavia s’incarna ogni volta che il poeta agisce in-cantando il mondo. In questa prospettiva la poesia si pone subito tra la luce poetica, il mondo e l’apporto del poeta: tra qualcosa che viene dall’alto, da fuori, e il lavoro/intervento del poeta, tra la passione ispirata e il mestiere.
Cioè: bisogna stare in guardia dalle derive spiritualiste o, peggio, ideologiche, visto che la poesia non può essere mai astrazione «né mai può trasformarsi in un venir via dalla concretezza per fuggire il reale e il vissuto, o per rifugiarsi nell’idea, nella rarefatta universalità del concetto, del logos, finendo in un asettico intellettualismo». Parole che richiamano alla mente il saggio Contro il Romanticismo, di un Giancarlo Pontiggia quasi agli esordi, apprezzato da giovani e meno giovani poeti di rottura della sua epoca.
Da Elio Filippo Accrocca, ad esempio: «Il megafono invoglia / a sfiorare la costa d’altri lidi, a un passo / tra una scogliera e l’altra come gli anni / che rivedo sui fianchi d’altre donne… / Un costume ha il profilo del tuo corpo / che non afferro più da tanti mesi»; oppure da Aldo De Jaco: «Cara amica, / ho chiamato il Griso / e gli ho detto / di rapirti – ha detto / che non è possibile, che / devo convincerti –. Ma è questo / che non è possibile, non so / quale via percorrere. Oh!, naturalmente / so benissimo che in qualunque labirinto / si può giungere al Minotauro / ma io nel conoscerti non ho usato / il filo di Arianna né le molliche / di Pollicino…»; o – su altro registro – Elio Pagliarani: «Ma Nerina non è stata fortunata / Nerina non ha fatto un buon affare: / in parte si vedeva e in parte fu deciso / così…».

Torna sul luogo del delitto, Pontiggia, con Il miele del silenzio, antologia dell’ultima poesia italiana (ma il discrimine è fissato al 1970): è un viaggio più lento, «ragionato e paziente», rispetto alla silloge precedente, La parola innamorata, realizzata insieme con Enzo Di Mauro: raccolta controcorrente, contro ogni cordata avanguardistica, azzardata, secondo Davide Brullo «vigorosamente antistorica», con dei nomi inseriti (Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Valerio Magrelli, Cesare Viviani, e lo stesso Brullo) che hanno poi creato la nostra poesia contemporanea laureata.
Gli autori presenti ne Il miele del silenzio danno un ventaglio ampio di scritture: si va dal poemetto “occitanico” e sapienziale di Maurizio Marota, Federicae, alla cesenate Roberta Bertozzi, che nel poema Gli enervati di Jumièges mette in rotta di collisione la leggenda violenta del re franco Clodoveo II e il quadro del 1880 di Evariste Vital Luminais; è presente chi scrive un’opera sulle «nuotatrici della DDR che sbancarono le Olimpiadi di Montreal 1976» (Vincenzo Frungillo in Ogni cinque bracciate), e chi fa parlare Schiller («con gli occhi spolmonati / dalla malaria») e un giovane amante del 3500 a.C., descrivendo invasioni post-umane di granchi, rospi e locuste (Federico Italiano); si può leggere il dettato purissimo di Matteo Veronesi e quello amoroso di Isabella Leardini; ci sono le deflagrazioni consecutive di Alessandro Rivali che narra la presa e l’implosione di Bisanzio, l’eroismo quotidiano di Andrea Temporelli, «la forza pietosa e rigeneratrice della memoria» propria di Daniele Piccini, e i muri graffiati da Davide Brullo; e si può leggere – magari come post-fazione – la stessa introduzione del curatore, che così chiosa: «Ciò che sarà, della poesia e dell’uomo, ancora non sappiamo; e forse, proprio in questa esitazione, è molto del fascino scuro e insidioso di questi tempi e dei loro linguaggi».

Poesia e cinema, o della contaminazione come pretesto. Ipazia, film di Alejandro Amenábar Agora. Massacrata nel marzo 415 su istigazione del vescovo Cirillo, che da Paolo nella Lettera ai Corinzi aveva appreso che «la donna deve restare muta». Scrisse Socrate Scolastico, storico di quel secolo: «Fu presa per la strada, denudata, e poi, con conchiglie affilate, le tagliarono pelle e carne, infine smembrarono il corpo e lo bruciarono».
«In lei – aveva scritto nel ‘600 l’irlandese John Toland – gli assassini avevano colpito insieme la femminilità, la libertà di religione e l’indipendenza della ricerca scientifica». La femminilità, cioè la diversità. L’intolleranza, rappresentata dal fatto che nella sua scuola di filosofia neoplatonica e di astronomia aveva accolto discepoli pagani e cristiani, e ciò era insopportabile per i rappresentanti delle religioni fondamentaliste. Indipendenza della scienza: il pensiero va alla battaglia in atto contro il neo-darwinismo e gli evoluzionisti.
Eppure, proprio un poeta cattolico praticante come Mario Luzi aveva messo in bocca a Ipazia questi versi dedicati all’eroismo degli sconfitti, che non si arrendono al momentaneo vincitore: «Non c’è ritirata possibile. / Qualcuno ci ha dato ascolto, in molti hanno creduto / nella forza redentrice della nostra voce di scienza e ragione. / Lasciarli al loro disinganno non si può. / La nostra causa è perduta. Ma dopo? / Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani». Ottocento anni separano la morte di Socrate da quella di Ipazia. Eppure l’uno e l’altra, “diversi”, furono vittime della stessa infamia, tanto per usare un termine caro a Voltaire.
(Ma lo storico Franco Cardini, trattando di questa maestra di filosofia e di scienza, «che pur intratteneva affettuosi rapporti anche con molti suoi allievi cristiani», sostiene che la sua è una storia esemplare, nel senso che è una storia che non condanna il Cristianesimo, ma riconduce al dato effettivo della inadeguatezza morale e culturale dei mezzi e dei metodi che alcuni, troppi cristiani hanno usato nella storia per far trionfare non tanto la loro fede quanto il sistema di potere che la sosteneva. È secondario appurare se il regista abbia voluto girare un film anticlericale o addirittura anticristiano: «Il fatto è che quel film ci riconduce, magari polemicamente, a una serie di dati storici obiettivi che sono stati oscurati nel nome della costruzione di una controstoria tanto agiografica quanto profondamente falsa»).

Ma torniamo ai metaforici “grani” come autori in modi diversi ribelli, fuori casta. Come Solitari Numeri Uno. Spesso arrabbiati. Sempre colti. Alcuni voraci. Abbiamo detto del cattolico Giuliotti. Lo aveva preceduto il filosofo eroico ed esondante Lorenzo Giusso, l’aristocratico napoletano nemico delle Accademie, romantico, bergsoniano e quasi-gentiliano: «La Rettorica illustre va spargendo i suoi fiori / ai piedi della Fama che leva, leziosa, lo specchio. / Grappoli levigati di putti e di piccoli amori / imprigionano il Tempo tra verghe d’oro vecchio». Assai schivo – si seppe della sua attività poetica dopo che scomparve, più che mentre fu in vita – un altro aristocratico, l’editore Neri Pozza, che aveva pubblicato poeti e narratori di livello, da Luzi a Montale, da Gadda a Parise, a Sbarbaro, a Sinisgalli. Rivelano, i suoi versi, in modo speciale quelli dedicati alla Resistenza, uno straordinario vigore ritrattistico e narrativo: «Silvia, la neve, il tuo pianto fragile / e tu nuda e violentata sotto una cupola / di nuvole piene di fischi. // Cadde tempesta, ma l’alba che ti vide / come una bianca conchiglia / si fermò pavida in affanno. // Ombra di morte era nel tuo viso / e tu chiamasti lungamente / foglie a vestirti e un angelo cieco. // Così la morte ti prese nel suo freddo».
E si fanno memoria come lezione di vita e di cultura i versi di Franco Fortini: «Entro quell’ombra dormono tutti i miei anni // come abbiamo dormito soldati sfiniti / nelle nottate / delle sue guerre. // Sorride perché io viva / la vera creatura che era. / O da sempre conosciuta / libertà spino di marzo / dunque non m’hai lasciato…». Mentre Eugenio Battisti, autore dell’Antirinascimento, mitico libro degli anni Sessanta, il più odiato dagli Accademici e il più amato dai giovani autori, ebbe poesie e prose pubblicate postume (dalla moglie), i versi in realtà con echi più vicini di Ungaretti, di Quasimodo, di Gatto, e, più lontani, di Pascoli: «Per accettare in me la creatura, / deve cessare questa lotta assurda / con l’infinito. / Io non ne parlo e tu non la capisci; / è il ricordo d’un canto che non sento. / Tu, come il passato, mi hai sospinto / ancora là, dove terribilmente / sono fuggito». E Lamberto Maccioni di volumi ne pubblicò due (uno a cura di Quasimodo, Epicuro; l’altro, in realtà striminzito, ma prezioso, Definizioni, dove si leggono versi con tracce palesi di filosofi greci e con memorie di un poeta-storico della matematica): «Cadono i venti caldi, e si misura / l’uomo da testa a piedi. / Non un centimetro oltre: né coda di demonio / spunta, né angolo di Dio. / Scendono i venti freddi, e primavera / o autunno; la ruota si consuma. / Fra me e te un filo v’è impalpabile. / Vivere in nebbie, dignità dell’uomo».
E in Marcello Jacorossi l’arte è intesa «come dialettica tra reale e ideale, tra funzione storica e formale e verità della struttura umana. È, proprio, un “travagliato rapporto”, quello del fatto artistico…»: «…E poi ecco lì le cose, / tornano ad esser dure e separate / e voi a stroncarvi le braccia e la schiena / per ricostruire un tetto che vi copra / dall’acqua del cielo / e quando siete giunti alla fine / sembrate alberi secchi tra la sassaia. / Amico, guardati intorno al mattino, / troverai che l’aria è anche luce». E il critico musicale che non perdonava niente a nessuno, neanche a una Callas, per esempio, né a un Benedetti Michelangeli, scrivendo di musica e verità, né all’intero mondo dello spettacolo, e meno che mai alla borghesia tronfia dell’epoca: «No, non avrai col mio nome sulla muta faccia della tua casa / né i tuoi figli avranno, Conte, la pietra a memorare / che lassù per un lustro abitai, nei fastigi / da te ritenuti economiche soffitte / da cui si possa snidare quando si voglia / con un qualsiasi feudale pretesto / l’inquilino considerato modesto… / Qui visse scrisse amò dagli anni agli anni… No, non avrai / tu né la tua famiglia la lastra melensa e gloriosa / con lettere di fuoco sulla fronte del tuo palazzetto / a imprimere il nome del poeta / nei fastigi resi tali da lui, dalla mansarda ch’erano…». E ancora: tenuto a battesimo da Raffaele Crovi, il medico e agricoltore Aldo Dramis, realista calabrese che piacque anche a Pasolini: «Alla fine mi ero stancato, / presi quei quattro stracci che avevo / e me ne andai in campagna, / quattro piante tra ulivi e fichi / in una vallata buia come la morte. / Me ne andai di notte dal paese, / non volevo esser visto da nessuno. / Che cosa dovevo fare ormai? / Da più di un anno / non avevo visto una giornata di lavoro, / mi ero ridotto pelle e ossa / per i pensieri / e stracciato dalla testa ai piedi, i capelli lunghi come quelli / degli uomini di forza nelle fiere, / finisco che piglio e vado / ad impiccarmi su qualche ramo, / vada a farsi fottere la vita…».
E un poeta di confine, Antonio Prete, innamorato della Grecìa Salentina («Io t’ammàissu, o maddhìa, o muson olo / pu kante o fengo, kanonònta esena» – Erano i tuoi occhi, i capelli, il viso / che incantavano la luna quando ti guardava): «Concentrata nei suoi pensieri pare / incantata da tutta la bellezza / che ha osservato volando sopra i mari, / sopra deserti e città, e tutto adesso / vorrebbe trattenere nella mente, / riso di donna e veste d’animale, / balzo di rondine e di fiume, manto / d’ulivi e cresta innevata, ogni cosa / vorrebbe nei suoi silenzi serbare, / per quando il tempo non sarà più tempo / e la terra sarà un’altra terra».
C’è infine un “Barocco ragionato”, generato dal potere immaginativo, sensuale della parola. Non è questione di artificio, almeno nei grandi poeti, come Andrea Zanzotto: «Spesso ove mi sommerse il cuor del bosco / o nel mezzo a cesure che verzure / follemente feriscono, nel losco / trarsi a iatture delle mie venture, // là dove tutto che fu mio conosco, / acri sciami di pollini, erbe impure / e purissime al mel siccome al tosco, / ore preste alla sferza in piogge o arsure…»; oppure come il funambolico (e declassato da Calvino) Edoardo Sanguineti, ma in questo poeta con gioco meno raffinato e più consapevole e ironico: «Ti trancio un tetrastico tetro, / due distici è un torpido metro: / così, un verso avanti, uno indietro, / li incido con schegge di vetro»; o infine come Giorgio Barberi Squarotti del Gioco degli scacchi: «Le due ragazze (ah, giovani più / che questo pomeriggio lento, inerte, / ma che sembra in attesa dell’arrivo / della nube, rossa e nera che sia, / o dell’autobus che viene dal Nord, / candido, e ne escono gli antichi dei, / un gruppo di matrone, l’Erinni, ilari, / ultimo un gatto rosso, che, flessuoso, / indugia a lungo prima di saltare / nell’aiuola delle erbe profumate / giocavano con ansia e affanno agli scacchi…».

La poesia e la fusione col pentagramma, per un’altra e forse più sublime contaminazione. Il padre di tutti i cantautori fu senza ombra di dubbio il pugliese Domenico Modugno. Scrisse di lui Massimo Mila: «Vergine musicalmente, non è affatto un incolto. Abbia fatto oppure no studi regolari, è uomo letterariamente aggiornato. Nel connubio tra primitivismo e cultura sta probabilmente la ragione della sua forza. Ogni sua invenzione ha le radici nel mondo contemporaneo, si tratti di non equivoche prese di posizione sociale, come nell’impressionante canzone del Minatore, o di un innocente e non polemico affetto per creature umane, come nella Donna riccia o in Musetto, e per gli animali, dall’asino ubriaco al gatto nero, fino al canto veramente omerico e antico dedicato al pesce spada».
Tra i generi della poesia greca arcaica, quello della “lirica” indicava la poesia destinata alla recitazione con l’accompagnamento della “lira” o “cetra”. L’estensione semantica che il termine “lirica” ha assunto ai giorni nostri è palesato nei repertori più frequentati della lingua italiana, dallo Zingarelli al Devoto-Oli, secondo i quali quella lirica è poesia che tende a rivelare il momento soggettivo dell’artista in una luce di mitica esemplarità; e, in subordine, un componimento poetico di qualità lirica.

Un discorso sulla poesia contemporanea che ignori i cantautori nasconderebbe una realtà di fronte alla storia. Nella poesia classica, infatti, trovano spazio Archiloco, Simonide o Ipponatte. Quella medioevale accredita Bernart de Ventadorn o Jaufré Rudel. La Scuola Siciliana prese a piene mani da queste produzioni. Né si può trascurare l’influenza che la musica lirica esercitò nella poesia di D’Annunzio o di Montale. Impossibile sottrarsi, dunque, almeno ad alcuni epigoni contemporanei, riferendone i motivi più rilevanti. La poesia dei cantastorie dei nostri giorni ha profondamente cambiato i costumi, ha contribuito in una maniera tangibile ad una liberalizzazione delle idee, laddove troppo spesso i poeti si compiacevano del loro scriver forbito, del loro appartenere a questo piuttosto che a quel salotto della società bene. Per questa ragione cantastorie come Bob Dylan, Bob Marley, Nick Drake o John Lennon sono ascoltati senza soluzione di continuità, soprattutto dai giovani. E per la stessa ragione continuano ad aver fortuna i nostri cantautori.
A partire, appunto, da Mister Volare. E da una lirica, per esempio, come Vecchio frack, ispirata da un fatto di cronaca: il suicidio del principe Raimondo Lanza di Trabia, trentenne che nel 1954 si lanciò dalla finestra del suo palazzo nella romana Via Sistina. La canzone considera un corpo assente, e il frack che si anima con l’armonia trasognata delle parole: «È giunta ormai l’aurora, / si spengono i fanali, / si sveglia a poco a poco / tutta quanta la città, / la luna s’è incantata, / sorpresa e impallidita, / pian piano / scolorandosi nel cielo sparirà; / sbadiglia una finestra / sul fiume silenzioso / e nella luce bianca / galleggiando se ne van / un cilindro, / un fiore e un frack».
Allo stesso modo, ogni canzone di Fabrizio De André è immediatamente riconoscibile, ed è questa la testimonianza che i cantastorie, quando raggiungono alti livelli, sono semplicemente poeti. E anche al contrario: i poeti ai più alti livelli possono diventare (non tutti) dei cantastorie. Così De André scrisse di Luigi Tenco: «Ascolta la sua voce che canta nel vento / Dio di Misericordia, vedrai, sarai contento». Ogni aspetto toccato dal genovese ha finito per trasformarsi in una poesia al tempo stesso popolare e di ricerca. Popolari i ritmi e le rime, anche quelle equivoche e rare. Di ricerca, in particolare le composizioni in dialetto che per molti aspetti rappresentano forse l’esito più esaltante della produzione del cantautore (Creuza de mä e A çimma): «E ‘nt’ a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’ i scheuggi / emigranti du rie cu ‘i cioi ‘nt’ i euggi / finché u matin crescià da puéilu rechéugge / frè di ganeuffeni e dè figge / bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä / che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä» («E nella barca del vino ci navigheremo / sugli scogli emigranti della risata con i chiodi negli occhi / finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere / fratello dei garofani e delle ragazze / padrone della corda marcia d’acqua e di sale / che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare»).

È possibile considerare un testo con versi pensati proprio per essere musicati, anche se questo può avere un esito tanto positivo che negativo. Negativo perché “versi per musica” vuol dire che il testo che formano non ha un’autonomia a se stante. Positivo perché quegli stessi versi diventano parte organica di una partitura musicale.
È difficile considerare poetici dei versi per musica che ci siano strettamente contemporanei, ma spesso è sufficiente una breve presa di distanza perché questi, se lo sono, tali anche appaiano e per tali siano valutati. Così almeno per Hugo von Hofmannsthal, nel Novecento; e più indietro, con i libretti di Lorenzo Da Ponte. E se quest’arco di tempo si allarga ancora, decade ogni confine tra versi e musica: così per i trovatori. Ma siamo sicuri che la cetra non accompagnasse i testi di Virgilio o di Ovidio? E se così fosse, siamo certi che questi autori non pensassero, nell’atto compositivo, ad una destinazione musicale? Come allora, come in ogni secolo, anche la nostra è un’età di contaminazioni. Sono giustificate, dunque – anche perché evidenti – le adozioni di moduli futuristi nel finale dei versi del Paolo Conte di Canzone anfibia: «Piove sull’Aurelia / acqua del cielo di settembre 1950. / E passa sull’Aurelia / nella pioggia / un’Aurelia grigia / 1950. / Da un palazzotto 1950 / sto guardando quei due grigi / Aurelia, una bionda, sporgendosi in fuori / così si sciacquano / in un’acqua non di mare e non di terra / queste tre Aurelie / tra dalie e camelie 1950, / quanta bell’acqua».
Altre intelligenti forme di contaminazione, Franco Battiato compositore e Manlio Sgalambro filosofo: dalla loro collaborazione è emersa una splendida musica alternativa. Dietro ogni canzone, anche quelle più celebri, da Centro di gravità permanente a E ti vengo a cercare, c’è un universo filosofico-spirituale che fa da matrice e rivela un cammino interiore che lo stesso cantautore illustra così: se vogliamo usare la cronologia, prima viene l’India, quindi il misticismo indiano, il sufismo con lo studio della lingua araba, poi il buddismo, con maestri di viaggio verso il rifugio in una spiritualità che è diventata musica, e poi l’ebbrezza dei mistici cristiani, i Padri del deserto e del Monte Athos: tutti sono colonne portanti.
Scrive nel brano L’ombra della luce: «Difendimi dalle forze contrarie / la notte, nel sonno quando non sono cosciente, / quando il mio percorso si fa incerto. / E non abbandonarmi mai». Mentre nella celeberrima La cura (tratta da Fisiognomica), è ripreso il motivo “sapienziale” dell’amore all’interno di un’ottica ideale: «Più veloci di aquile i miei sogni / attraversano il mare. // Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. / Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza. / I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi, / la bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi. // Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto. / Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono. // Supererò le correnti gravitazionali, / lo spazio e la luce per non farti invecchiare. // Ti salverò da ogni malinconia, / perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te…».

L’ardua e sempre difficile arte del poetare sa essere anche emblematica come un gesto antico: dà il senso dell’immemorabile lunga durata e nello stesso tempo dell’immediato quotidiano che in essa si ingloba, irripetibile granello nel deserto, che contiene il deserto. Oggi come oggi, la lirica fa i conti con un’estrema frammentazione, complessità e caoticità del nostro presente, assumendole nelle proprie forme in tutta la loro aggrovigliata indecifrabilità, ma inserisce l’istantanea storica nel lungo respiro del tempo geologico, delle epoche, delle ere. In questo sentire e nella sua espressione, (come nelle cicatrici, nelle rughe e nelle pieghe che segnano la storia dell’uomo), consiste la sua classicità.
Ha scritto Zanzotto che la poesia nasce dall’amore per le cose, dal desiderio di celebrarle; certo, non da ottimismo, ma tuttavia da calda speranza, da una vita che anima su tutto e oltretutto la vicenda millenaria dell’uomo. Ecco: anche questi pensieri sono poesia.

(3 - Fine)

   
   
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