Giugno 2010

il sud al tempo dei Savoia

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Come eravamo

Cristina Baltieri - Luca Del Vecchio - Eraldo Masotti

Coll.:
Sandro Germani
Marino Giacoia
Giuseppe Maggiore
 
 

 

 

 

 

 

Era l’acqua!
Quell’anno anche ai bambini venne razionata l’acqua dei pozzi e delle cisterne: del resto, tutti erano cresciuti con l’idea che l’acqua fosse un bene proibito, qualcosa che soltanto il cielo, poteva dispensare.

 

 

Calabria immobile, a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria.

Rosa Pugliese

I Cia'ula agrigentini
che non videro la luna

La frana di una zolfara a Campobello di Licata, nell’Agrigentino, rivela un mondo: fra le 142 vittime si contano decine di bambini denutriti, pallidi, con la spina dorsale curva e la schiena glabra. Sono i carusi, i piccoli schiavi che vengono usati per trasportare lo zolfo lungo le strettissime gallerie carsiche. I picconieri li comprano quando hanno otto anni di età nelle campagne, versando ai genitori 150 lire in frumento. Il baratto è carne umana contro farina.
Il caruso lavora dodici ore, dalle quattro di mattina alle quattro del pomeriggio, sei giorni a settimana. Il settimo anche Dio riposò, ma lui deve trascorrerlo tra i cactus in cerca d’acqua. Per guadagnare la cifra necessaria a riconquistare la libertà a volte non gli basta la giovinezza: sempre che riesca ad arrivarci vivo. La legge sabauda vieta il lavoro minorile sotto i dodici anni, ma nessuno ci bada, e quando uno di loro, che ha appena nove anni, viene ucciso a calci nello stomaco dal suo padrone per aver tentato la fuga, il caso è immediatamente archiviato come “morte naturale”.
Primi testimoni di questa dolorosa corte dei miracoli, i giornalisti che si avventurano lungo le scale ripide e scivolose delle miniere sentono dei gemiti ritmati: sono i lamenti dei bambini che salgono verso la bocca torrida della galleria, incalzati da un picconiere che per farli procedere più in fretta li stimola sotto i talloni con la fiamma di una lucerna. Del tutto svestiti, lo sguardo allucinato dalle privazioni, i piccoli schiavi trascinano sulle spalle i carichi di zolfo. Ogni cesto pesa non meno di venti chili. I bambini grondano sudore, gli esili muscoli sono contratti sotto quel peso immane. Quando giungono allo sbocco, un vento gelido stronca le forze. A fine giornata li aspettano un pezzo di pane e una cipolla. Quando va bene, si trova un giaciglio dentro qualche grotta. Altrimenti ci si butta, nudi, tramortiti, sotto le stelle.
Per questi Ciàula che non vedono mai la luna, la vita è questa cosa qui. Non ne conoscono altre. Come l’adulto, che picconando strappa il minerale alla roccia, e quasi non ricorda più il mondo che è oltre il recinto della concessione di scavo.
Nella seconda metà dell’Ottocento, a Italia unificata, a Sicilia annessa, l’industria estrattiva dello zolfo rappresenta una delle poche voci attive della bilancia commerciale. Ma sono soldi che urlano, anche se nessuno è in ascolto. Così, lo scandalo dei piccoli schiavi siciliani si trascinerà da una Commissione d’inchiesta all’altra fino al secondo dopoguerra, quando le miniere dell’isola non riusciranno più a reggere la concorrenza di quelle americane. Soltanto allora l’inferno isolano avrà un nome, e sarà chiuso per sempre.

 

L'argento vivo della Puglia

Cantatore ricordava il tempo in cui dal ventre della terra venne l’acqua. Da quando gli abitanti, scorgendo il fumo delle mine e sentendo l’eco delle esplosioni, additavano gli operai che accostavano sulle alture e facevano chilometri per andare incontro a quegli uomini che a torso nudo, lucidi e anneriti dal sole, stavano scavando il più lungo solco del mondo.
Quell’anno anche ai bambini veniva razionata l’acqua dei pozzi e delle cisterne. Spesso il tempo che passava tra una razione e l’altra sembrava eterno. Del resto, tutti erano cresciuti con l’idea che l’acqua fosse un bene proibito, da potersi avere stentatamente nella vita: qualcosa che soltanto il cielo, quando voleva, poteva dispensare.
Il cantiere, finalmente, si spostò alle porte dell’abitato, e il solco entrò nel paese sventrando le strade. Ci calarono i tubi. Infine in piazza sorse una fontana dipinta di verde. L’acqua, tuttavia, non arrivava. Se ne andò via, invece, la vernice che, cadendo a scaglie sotto il sole cocente, mise a nudo il metallo rugginoso.
La presenza della fontana a secco divenne per i monelli pretesto di gioco, e per gli adulti occasione di beffe. Dicevano che avrebbe attirato i fulmini se fosse venuto un temporale. E un giorno capitò di trovarla trasformata in uno spaventapasseri, avvolta in una vecchia giacca, le maniche piene di stoppa, e un cappello in vetta. Nel pieno della siccità, la gente del paese faceva ricorso alle processioni e ai riti propiziatori, ma anche ad ironici esorcismi.
L’acqua ancora non veniva. Neanche dopo che erano stati attaccati dei manifesti con l’annuncio dell’erogazione imminente. E quando la gente credette di capire che si trattava soltanto di propaganda del governo, comparvero in paese grandi carri carichi di terraglie: giare, quartare, orci, anfore d’ogni tipo e misura. Ognuno volle avere un recipiente nuovo, possibilmente molto capiente. E tutti attesero il momento del grande miracolo.
Fino al pomeriggio in cui un sole insolitamente caldo arrossò le case e richiamò la gente nelle strade. C’era un gran vociare. La piazza brulicava. E d’improvviso la folla ondeggiò, si sollevò sulla punta dei piedi, come sollecitata da un impercettibile fremito che percorreva le viscere della terra. Tutti tendevano l’orecchio in un silenzio sospeso. L’attimo di stupore sembrò durare all’infinito. Si spalancarono le persiane e le finestrelle, altra gente si affacciò incuriosita, altra ancora sopraggiunse correndo dalle stradine adiacenti.
D’un tratto si udirono le campane a stormo. La folla si stringeva attorno alla fontana. Si udì la violenza dell’aria compressa precedere lo scroscio, poi un urlo straziante lacerò il cielo snidando le rondini spaventate: l’acqua! Era l’acqua! Sgorgava con un fiotto unico, pieno, inarrestabile. L’acqua come argento vivo che sconfiggeva millenni di storia seccagna, di vite agre, di giardini aridi, di piante stortignaccole, di colture grame. Era l’acqua che avrebbe benedetto le case, il lavoro, i giorni di tutti. L’acqua, finalmente! Un’acqua libera, vivificatrice, non più contesa. La ressa attorno alla fontana era frenetica. Orci e giare, issati sulle teste, risuonavano per le scosse delle spinte. Donne antiche come querce si inginocchiavano, piangevano, baciavano la terra. L’acqua!
Dalla calca cominciarono ad uscire le prime persone, completamente bagnate, con le terraglie brillanti d’umidità, appesantite, trasudanti frescura. Il piccolo Cantatore era dietro, incapace di farsi largo, quando vide scorrere il primo rivolo fra i suoi piedi nudi.

 

Ultimi graffiti
del Medioevo di Capitanata

Si lavorava se, come e quando voleva il soprastante, cioè il cane da guardia del proprietario terriero. Anche i soprastanti erano padri di famiglia, difendevano il pane fisso con i denti. Erano accaniti specie durante la mietitura. Sotto i covoni c’erano le cucume con l’acqua fresca. Si organizzava una catena di cento uomini e cento bambini, questi legavano i mannocchi, i primi alla falce. A volte il latifondista ordinava di non farli bere all’unica pausa, a mezzogiorno, perché per una passata d’acqua si perdeva un’ora e mezza. Chi disobbediva veniva licenziato su due piedi. Il segnale era un colpo di doppietta sparato in aria.
Ogni tanto passava il banditore pubblico. Dava uno squillo di corno e gridava: – Per ordine di sua eccellenza lu Potestà, tutti li femmane che devono figlià sono premiate. Se so’ màscule, cinque lire; se so’ femmane, duie lire e mieza. Se poi so’ màscule e se chiàmeno Benito, doppio premio è favorito. Femmane de lu paiese, figghiète, figghiète, figghiète! –. Così si arrivava anche a quindici, a venti figli. Per i premi si moltiplicò la popolazione. E il problema era come sfamare tutti.
E i bambini, poi, scalzi. In una famiglia con tanti figli si potevano comprare al massimo due paia di scarpe, da indossare solo in circostanze particolari, e da passare ai più piccoli quando diventavano troppo strette. Nella Murgia veniva la neve, le madri piangevano, i figli più piccoli mettevano i piedi sotto le loro ascelle, si scaldavano così, a turno. Le donne si prendevano i reumatismi, alcune erano uccise dalla polmonite. Raccontava il cantautore folk Matteo Salvatore: – Ad Apricena mio padre morì di stenti. Anche mia sorella Maria morì di fame, a quattordici anni. Li hanno portati tutti con la stessa cassa, quella del Comune, di terza classe. Maria aveva il vestito bianco di una donna che si era appena sposata. Sul suo corpo, dodici confetti, uno dietro l’altro. Secondo la tradizione, il numero dodici indica la sofferenza, e la sofferenza dei poveri non andava mai manifestata, altrimenti si rischiava di restare senza lavoro –.
All’epoca, per una giornata lavorativa di lunghissima durata un ragazzo guadagnava otto lire, un uomo venti lire. Nel dopoguerra, rispettivamente duecento e cinquecento lire. Spesso però dietro l’angolo c’era la concorrenza, imposta dalla disperazione. Sui campi andavano i vecchi del luogo, da sole a sole, a metà prezzo. Oppure i forestieri. Questi scendevano dal promontorio tutto roccia: venivano da Sannicandro, da Rodi, da Peschici, da Vico, da Cagnano, da Ischitella. Entravano in paese e si fermavano con le falci nelle piazze, preferibilmente di Apricena o di San Severo o di Torremaggiore o infine dei centri medi della Piana. Restavano staccati dagli altri, dalle prime luci del mattino, senza fiatare. Arrivava il soprastante e sceglieva fra costoro metà degli uomini che gli servivano. Poi si rivolgeva ai locali: – Oggi ci sono i foresti, chi di voi vuol lavorare, mezza paga –. I forestieri abbassavano la testa per paura e per vergogna. Andavano a lavorare insieme nelle masserie. Di notte dormivano insieme sulle aie.
Stravolse quest’inferno l’emigrazione. I braccianti abbandonarono le terre e le casupole della riforma agraria prive di acqua, di strade, di energia rurale. Nelle campagne rimasero i vecchi, ulivi stanchi. Contro l’atavica remissività della gente e lo scirocco dell’anima si batté per primo il “cafone” Di Vittorio. I ragazzi cominciarono a frequentare la scuola, l’ignoranza non sarebbe stata più uno strumento di soggezione. A un secolo e mezzo dalle leggi eversive di Murat, crollavano ad uno ad uno i cardini del neo-feudalesimo meridionale. Non era ancora Rinascimento. Ma non era più Medioevo.

 

Calabria grande e amara

Racconta Leonida Répaci che quando fu il giorno della Calabria il Signore volle che le madri fossero tenere, le mogli coraggiose, le figlie contegnose, i figli immaginosi, gli uomini autorevoli, i vecchi rispettati, i mendicanti protetti, gl’infelici aiutati, le persone fiere leali socievoli e ospitali, le bestie amate.
Volle il mare sempre viola, la rosa sbocciata a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, le messi pingui, l’acqua abbondante, il clima mite, il profumo delle erbe inebriante.
Operate tutte queste cose nel presente e nel futuro, il Signore fu preso da una dolce sonnolenza in cui entrava la compiacenza del Creatore verso il capolavoro raggiunto. Del breve sonno divino approfittò il diavolo per assegnare alla Calabria le calamità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, il feudalesimo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’Onorata Società, la vendetta, l’omertà, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione.
Dopo le calamità, le necessità: la casa, la scuola, la strada, l’acqua, la luce, l’ospedale, il cimitero. Ad esse aggiunse il bisogno della giustizia, il bisogno della libertà, il bisogno della grandezza, il bisogno del nuovo, il bisogno del meglio. E, a questo punto, il diavolo si ritenne soddisfatto del suo lavoro, e toccò a lui prender sonno, mentre si risvegliava il Signore.
Quando, aperti gli occhi, poté abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla creatura prediletta, Dio scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi lentamente rasserenandosi disse: – Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l’ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto. Utta a fa juornu, c’a notti è fatta! –. Una notte che già contiene l’albore del giorno.

 

Insorgenze sotto il Gran Sasso

I briganti trovarono chiuso l’uscio della casa, e bussarono con forza. Si affacciarono alla finestra due contadini lasciati a guardia dai padroni. Chiesero che cosa volessero. – Le armi! –, urlarono da basso. E i contadini, senza aprire, calarono un vecchio fucile da caccia, lasciato appunto per acquietare in qualche modo le brame dei briganti e per impedire che compissero atti feroci. Quelli di giù presero il ferrovecchio e pretesero che si aprisse la porta. Alcuni non volevano, forse perché, essendo del luogo, conoscevano di persona il proprietario della casa e avevano per lui un qualche sentimento di affettuoso rispetto; ma può darsi anche che, conoscendo la casa e sapendola proprietà di gente non danarosa, non volessero perder tempo. Ad ogni modo, vinse il partito di chi voleva entrare.
Non fecero grandi danni: la poca roba preziosa era stata messa per tempo al sicuro lontano da lì. Rubarono molta parte della biancheria e altri oggetti e provviste di famiglia; e fecero la festa a una botte di vino vecchio cotto, di quello che si mesceva soltanto nelle occasioni solenni, e si centellinava in piccoli bicchieri. Tirarono una fucilata sulla pancia della botte, così potevano colmare i bicchieri allo zampillo che sgorgava impetuoso dal foro aperto dalla grossa “palla di munizione”.
Quando se ne andarono, erano tutti ciucchi, e forse per questo non commisero atti vandalici. Così, più dei soldati piemontesi che se la godevano al sicuro in un paese a qualche chilometro di distanza, valse a difendere la casa il vino vecchio e lo spirito tutelare di chi anni prima lo aveva prodotto. Quando giunsero i bersaglieri, via via qualche brigante cadeva nelle loro mani, e per la legge marziale veniva immediatamente fucilato. Queste rapide esecuzioni spaventavano la gente. E i briganti riprendevano la via della montagna.

 

La vita agra nelle Terre
del Sacramento

Era la maestrina del villaggio, come chiarì qualcuno commentando la vita disagiata delle maestrine sbattute qua e là in borgate spesso sperdute e lontane. Ogni lunedì costei saliva sulla corriera, dopo aver trascorso la domenica a casa. La corriera, un vecchio arnese cigolante da tutte le parti, iniziava l’affannosa salita per raggiungere la vetta del colle da dove si apriva allo sguardo l’ampia vallata e, dirimpetto, il costone delle montagne su cui la strada continuava a snodarsi in tornanti innumerevoli come un’enorme fettuccia gettata a caso da favolosi giganti.
A guardarla, quella strada, sembrava proprio impossibile che la sgangherata corriera potesse percorrerla tutta fino alla vetta. E questo doveva essere anche il pensiero della maestrina il cui volto assumeva un’espressione di timorosa incertezza mentre l’autobus arrancava su per la salita. Il suo sguardo vagava, poi, da un punto all’altro della vallata, posandosi infine sulle casupole del villaggio che, una volta superata la vetta, apparivano e sparivano alla vista secondo il volubile procedere del trabiccolo che riprendeva ormai fiato sull’invitante discesa. Case abitate da donne con troppi bambini, da bambini con pochi vestiti – sempre gli stessi, ma sempre puliti – e da uomini senza sorrisi, perché la vita non offriva nulla per cui sorridere, dai secoli dei secoli.
Un lunedì la maestrina non si presentò più alla partenza. Né la si vide nei giorni che seguirono. Si pensò che fosse malata, e questo dubbio crucciò molte persone. Passarono così le settimane e i mesi, ma di lei non si seppe più nulla. Girò la voce che non avrebbe più insegnato nella piccola scuola del villaggio fra le calanche argillose della regione. Una scuola che era un unico stanzone buio, freddo, umido fino a mostrare le pareti lucide d’acqua: una spelonca nella quale ci si poteva soltanto ammalare, con l’eco delle voci che sembravano emergere dal fondo di un pozzo...

 

Partono i bastimenti
da Napoli-Immacolatella

La banchina si stendeva quasi a perdita d’occhio. Qualcuno vedeva per la prima volta il mare. Di sera, la nave si levava come la collina bianca, quando nelle notti illuminate dalla luna rientravano tutti tardi dalla campagna, la testa china per la stanchezza. Così, a trovarsela davanti, quella nave somigliava all’ombra che la collina allungava sulla terra dei paesi dai quali proveniva la gente, mentre era la presenza reale di un bastimento che avrebbe portato gli emigranti in America.
Erano tutti addossati lì, in un gruppo compatto, mentre le loro casse le avevano già portate via e le stavano caricando. Molti avevano solo delle valigie di cartone o dei grossi sacchi di tela. Erano uomini e donne di campagna, usciti per la prima volta dalla loro casa, e potevano perdersi, soprattutto in una grande città, per di più con un porto, dove tutto era confusione, tutto era difficile da capire senza uno che si prendesse la briga di guidare quella “carne paesana”, concittadini alla ventura: uomini e donne e bambini non da scannare per guadagnarci sul loro sangue, ma da mettere sulla strada giusta con cuore generoso.
Carte, documenti, permessi, firme con la croce, chiamate, visite, tutto in regola. E ora la nave attaccata alla banchina, enorme, alta come un grattacielo, e che ciminiere, e che albero, e che barche di salvataggio... Per dire, in caso di tempesta. Invece sapevano tutto dell’America, la “prospezione medica” all’ambulatorio dell’isola vicina allo sbarco, Ellis Island, con Nuova York a vista, e i parenti o gli amici in attesa al porto d’arrivo, solo a pensarci c’era da commuoversi. Ancora qualche minuto, poi tutti a salire la scala, documenti alla mano, e a sistemarsi sul ponte di terza, con i sacchi dei viveri e le borracce dell’acqua a portata di mano. La guida li abbracciava ad uno ad uno, vedere la nave puntare all’orizzonte sarebbe stata una liberazione per tutti. Poi di nuovo sulla via del ritorno, a percorrere i paesi dell’interno, a raccogliere nomi e soldi di chi decideva di imbarcarsi per terre lontane dove si poteva lavorare, guadagnare anche bene, non morire di fame, non vivere di stenti. Del Nord o del Sud, che importava, sempre la Merica era. L’Eldorado dei lazzari. La Terra Promessa...

 

Echi dalla solitudine
dei nuraghi

L’impossibilità per molti, quasi tutti in Sardegna, di essere ciò che per davvero vogliono essere, di fare ciò che ritengono meglio fare, di scegliere tra due strade e seguire quella che giudicano migliore, è una delle cose che rendono così desolato questo paesaggio umano.
Il “destino” della gente è reso spesso ancora più penoso da un carico di aspirazioni sbagliate o frustrate, sostengono gli abitanti di Orgosolo, isola nell’isola, di grande orgoglio e di fieri temperamenti. Si intuiscono nuove soluzioni ai problemi quotidiani, si apprezzano certi modi di vita dei “continentali”, che sono per molti remoti quanto i marziani, ma non è possibile uscire dal cerchio soffocante delle piccole abitudini, di sostenere l’ironia dei benpensanti, di vincere la paura della “critica”. La parola snobismo qui evidentemente non esiste, ma se ne ha bene il concetto e molti preferirebbero essere considerati ladri piuttosto che snob, e forse sono ladri per non essere snob.
Nel villaggio sardo la “critica” è la potenza segreta che governa, è quella che in un giorno può distruggere la vita di una donna, ridicolizzare un uomo in modo irrimediabile, far fallire un’idea, demolire una corrente politica… Per paura della “critica” si tende tutti a marciare sul binario tracciato da secoli e, per non aver distrutta la propria pace da penosi conflitti interiori, si ritiene augurabile non avere altra aspirazione che quella di essere fedele copia dei propri antenati.
Anche qui arriva, ma non molto accelerato, il processo, il soffio dei tempi nuovi; il macchinismo fa la sua prima apparizione e, sia pure con molta fatica, mutano anche i rapporti economici... Ma la “critica” permane come un saldo roccione e il suo sgretolarsi è impercettibile. Tutti i disagi di una società di transizione come questa sono dalla “critica” acuiti. Per essa ci si sforza di essere ciò che non si è più e maggiormente si soffre di non essere ciò che si vorrebbe.

 

La civiltà negata della polis
metapontina

«Distese di monti nudi e brulli, senza qualsiasi produzione, senza quasi un fil d’erba, e avvallamenti altrettanto improduttivi… Al desolato silenzio dei monti e delle valli, succede il mortifero piano, dove i fiumi sconfinati minacciano le colture...». Queste parole furono pronunciate da Giuseppe Zanardelli, primo presidente del Consiglio ad aver visitato la Lucania, nel 1902. E la loro eco qui sembra prolungarsi all’infinito, scolpirsi nelle pietre e sugli ulivi, poi rintanarsi fra i calanchi che tagliano trasversalmente la montagna, cupi e incomunicanti, aggiungendo l’orrido al desolato.
È la Lucania più vera, questa, sopravvissuta ad una storia che, tranne gli splendori della Magna Grecia, non ha conosciuto che miseria economica e sociale. E infarti geologici. Perché la geologia, che in tutto il Sud gioca un ruolo importante, è stata alla base del “circuito di depressione” che ha caratterizzato la Lucania di sempre, tagliandone l’antropologia umana. E ne ha giustificato la concezione pessimistica della storia. Le valli, le “grandi vallate” che si snodano dall’interno al mare, sono dorsali calve con paesi come necropoli e plaghe con campi senza reddito. Il male oscuro di questa terra è nell’essersi fermata nella storia. O meglio, nell’essere stata costretta a fermarsi.
Parlando di Lucania, il discorso si fa difficile. Decine di paesi, squallidi cimiteri di uomini, senza scuole, senza ospedali, senza servizi sanitari d’emergenza, senza uffici pubblici, stanno arrampicati su vette solitarie, lontani dai centri vitali della regione. Furono costruiti, questi covi di miseria, al tempo delle invasioni barbaresche, quando la costa e la pianura erano infide, quando la malaria si annidò nel corpo, ma soprattutto nell’anima dei lucani, e vi restò per intere generazioni, quando, fin dal 1865, si disboscarono le terre alte per dar la caccia ai briganti. Lontani dalle campagne a buon reddito, dalle vie di comunicazione, dalle strade ferrate, isolate in un grigio mondo di fantasmi, questi villaggi racchiudono in tragici lager migliaia di uomini, destinati al sottosviluppo, all’analfabetismo, all’emigrazione. Quelli che vi restano, lo fanno non solo perché ve li tengono legati la tradizione, il culto dei morti e delle memorie collettive, ma soprattutto perché non hanno alternative. Qualcuno ha indicato una soluzione: fuori di casa, fuori dai paesi, l’Italia è grande, l’Europa è più grande ancora, il mondo è incommensurabile. Se mandiamo via duecentomila uomini, cominciamo a guardarci intorno, e vediamo un po’ quel che si può fare. Sì, magari avremo duecentomila nuovi negri bianchi, bassa forza da acquistare sul mercato del lavoro. Ma vogliamo mettere? La Basilicata, che non occupa i primi posti nella graduatoria demografica della Penisola, avrà risolto la più gran parte dei suoi problemi.

 

La civiltà del lavoro
di 27 milioni di cafoni

Gian Antonio Stella dà i numeri delle nostre correnti migratorie: dal 1876, quando cominciarono a contare quelli che andavano via, (prima di quell’anno nessuno contava nessuno), fino al 1973, quando il numero di immigrati in Italia superò per la prima volta quello dei nostri emigranti, hanno lasciato il nostro Paese in 27 milioni: tanti, quanti erano gli italiani nell’anno dell’unificazione della Penisola. Tra le migliaia di belle storie, quelle di chi scoprì le sorgenti del Mississippi, di chi scrisse il primo dizionario inglese-sioux, di coloro i quali costruirono la Transiberiana, di chi realizzò una comunità a Tianjin, nel cuore della Cina, o fondò una gigantesca impresa inventandosi le arachidi sgusciate e salate, diventando poi con cilindro e bastoncino il leggendario “Mister Peanut”…
C’erano gli “zii d’America” che facevano fortuna, e milioni di onesti lavoratori che mettevano su niente più che il necessario; gli uomini d’eccellenza che si sarebbero fatto onore nella politica, nella letteratura, nell’arte, nella scienza, e quelli andati alla deriva di Cosa Nostra… Ha avuto una storia complessa, la nostra migrazione, che ha riguardato veneti, friulani, piemontesi, ma soprattutto meridionali; e che ha dato al mondo menti di prim’ordine: a Parigi statisti di gran levatura, come Léon Gambetta, fondatore della Francia moderna, romanzieri e polemisti come Zola, pittori come Cézanne, nel cui cognome francesizzato c’è il timbro del paese dal quale erano emigrati i suoi genitori, Cesana, in Piemonte; e agli Stati Uniti uomini come Luigi Palma di Cesnola, militare che arrivò a comandare cinque reggimenti di cavalleria durante la guerra civile americana, per diventare poi per un quarto di secolo il leggendario direttore del Metropolitan Museum di New York, o come Fiorello La Guardia, il sindaco di New York figlio di un pugliese. Senza dimenticare gli scienziati, da Meucci inventore del telefono ad Enrico Fermi padre dell’energia atomica.
Rischiavano tutto, i nostri migranti. Anche la vita. E non solo nelle miniere di carbone di Marcinelle o nei cantieri edili francesi, tedeschi e svizzeri, che sono storia dei nostri tempi recenti. Anche con gli spaventosi naufragi, all’epoca spesso provocati da errori, da sciatteria, da superficialità, come nei casi dell’Utopia, del Principessa Mafalda, del Sirio; oppure con i viaggi della morte sulle carrette del mare, come il Carlo R.
Violenza, analfabetismo, miseria. E linciaggi, nella tragica storia dei vinti. Ad Aigues-Mortes, in Francia. A Palestro, un paese fondato in Algeria da famiglie trentine (più alcuni spagnoli, svizzeri e francesi), spazzato via da una sanguinosa rivolta dei cabili. A Kalgoorlie, nel deserto, a 600 chilometri da Perth, dove gli australiani decisero di “festeggiare” l’Australia Day del 1934 scatenando tre giorni di incendi, di devastazioni, di assalti ai nostri emigrati. A Tandil, in Argentina, dove il nostro ambasciatore consigliava a Roma – inascoltato – di tenere il conto degli italiani uccisi per razzismo. Ma soprattutto negli Stati Uniti dove, dal massacro di New Orleans a quello di Tallulah, siamo stati i più linciati dopo i negri.

   
   
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