Giugno 2010

Il corsivo

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South Side Story

Aldo Bello

 
 
 

 

 

 

Ada Maria Pisa

Antica maledizione cinese: possa tu vivere in tempi interessanti! Inquietano, costringono a discernere. Alla vista dei mantovani Virgilio e Sordello che s’abbracciano, Dante scatena un’invettiva all’Italia, lacerata da fazioni. Mai solidale a lungo. Interessanti i tempi del Risorgimento. Tra i protagonisti, Cavour (1810-1861), primo statista dell’Italia appena nata. Roma capitale del Regno nel 1870. Lo sono pure quelli dei governi Giolitti... Terribili i tempi della Grande Guerra. Violenza, lutti e sangue nel regime fascista... Tempi interessanti, nello spirito della Resistenza, quelli della stesura e varo della Costituzione repubblicana e gli anni 1948-65, specie dei governi De Gasperi, terzo e ultimo statista italiano... Si è in mezzo al guado, inseguendo emergenze mentre il resto del mondo evolve in stridenti contraddizioni... Forse per questo non è dato di prevedere se dell’Italia unita saranno i primi 150 anni ad una svolta critica verso nuove frontiere o gli unici, con coda di pochi lustri.

Luigi Ferrara Mirenzi

Il tema storico agli esami di maturità riapre la questione di quando l’Italia si sia davvero unita. Alcuni sostengono che questo si verificò solo nel 1919, quando Trento e Trieste furono riprese all’Austria. Tralasciando Trento e Trieste, nel 1861 all’Italia mancava ancora qualcosa di importante: il Veneto entrò a far parte del Regno d’Italia solo nel 1866, quando venne annesso con un plebiscito che molti ritengono una truffa.

Casimira Colosi

Prima della guerra del ’15, una volta Ella ebbe a dirmi: «Volete far parte dello Stato italiano; ma col tempo vi accorgerete chi sono gli italiani». Parole amare che mi restarono impresse e che, purtroppo, erano espressione di una chiara visione della realtà. Chi più, chi meno, tutti ce ne siamo accorti. E col tempo l’angoscia è cresciuta. Ora domando: non vi ha speranza, non vi sarà superamento? Io sono vissuto tutta la vita sentendomi sempre più estraneo alla mia gente, e ora, avvicinandosi la vecchiaia, sono quasi disperato. E mi chiedo, dopo pur aver tanto amato e creduto e dato con fermo cuore il mio unico figliolo, se ho ancora una patria e dove sia.

Lettera di Biagio Marin a Giuseppe Prezzolini - 8 marzo 1953

Un Regno, quello sabaudo, che non spiccava certo per lungimiranza politica, potenza economica e militare, retto da un sovrano rozzo quanto furbo, per nulla sensibile alla “poesia” del costituzionalismo, ma pronto a sfruttarne eventuali vantaggi espansionistici. Non di rado Vittorio Emanuele mostrò insofferenza verso quel ministro che lo superava in tutto. Come Gladstone con la regina Vittoria, anche per Cavour la strada del successo doveva passare proprio attraverso la resistenza alle angherie del sovrano... L’arma vincente di Cavour fu la sua genuina capacità di cogliere lo spirito del tempo, quello della forza della modernità liberale, trasformandolo in azione politica in grado di armonizzare tutti gli eccessi degli ideali e dei protagonisti intorno a lui.

Fulvio Cammarano

Il punto di partenza potrebbero essere i due discorsi di Cavour alla Camera e al Senato nel marzo e nell’aprile del 1861. Forte dei grandi successi ottenuti nei mesi precedenti, Cavour non esitò a porre il problema di Roma e a interpellare direttamente Pio IX: «Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza. Rinunciate ad esso e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche... Noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato».

Sergio Romano

Cavour conosceva e apprezzava il ruolo della religione nelle società politiche, ma aveva letto Tocqueville ed era convinto che soltanto una netta separazione dello Stato dalla Chiesa, come negli Stati Uniti, avrebbe permesso al sentimento religioso di esprimersi con la massima libertà e spontaneità. Occorreva quindi spogliare la Chiesa di tutti gli anacronistici privilegi accumulati nel corso dei secoli e al tempo stesso spogliare lo Stato di tutti i diritti d’ingerenza negli affari ecclesiastici che i re e gli imperatori avevano conquistato per se stessi soprattutto negli ultimi decenni dell’Ancien Régime e nell’era napoleonica. Questo fu il sogno fallito di Cavour.

Roberto Pertici

Il 9 maggio 1814 Vittorio Emanuele I – un tizio mingherlino, dalla faccia triangolare, «un po’ di babbeo, ma altrettanto di galantuomo», come scrisse poi Massimo D’Azeglio – apparve in cima alla passerella della nave che lo stava sbarcando a Genova. Uniforme turchina con i risvolti rossi, lungo panciotto, calzoni bianchi, stivaloni, cappello alla prussiana, cipria, codino. Un uomo che non veniva da Cagliari, ma direttamente dal ‘700. Passò i primi giorni a scaraventare dalla finestra di Palazzo Madama sedie, tavoli, calamai, penne, libri, tutta roba colpevole di non essere esistita nel 1798... Richiamò in servizio i funzionari di sedici anni prima... Un vero reazionario... In quel momento Camillo era un bambino di sei anni... ed era già, secondo le parole della madre, «buontempone, forte, chiassoso e sempre occupato a divertirsi». «Le gros Camille» era una testa dura che non riusciva a imparare a leggere e a scrivere, era ostile allo studio... «però vivace, allegro, ghiottone», un «comico», un «ignorant» che «fa i suoi cinque o sei pasti al giorno, comanda ai cani, si fa dar conto della quantità dei carri di vino, vezzeggia, litiga, carezza, stuzzica». E rimanda il ritorno a scuola sempre al lunedì successivo.

Giorgio Dell’Arti

La politica ha bisogno di un disegno, quello di Cavour era, tra l’altro, un grande disegno. Diversamente non ha neppure giustificazione di essere com’è. C’è, in Cavour, una lucidità intellettuale straordinaria e un’incredibile capacità di prevedere il futuro. Un esempio. Subito, nel ’48, capisce che il socialismo, che lui chiama anche comunismo, è il grande pericolo a sinistra. Perché tocca problemi, quello dei salariati, in particolare, dell’industria, quello della distribuzione del reddito, che saranno fondamentali nel futuro. Non dimentichiamoci che Cavour comincia la sua formazione con un lavoro sulla “legge dei poveri” in Inghilterra. Perché comprende come sia importante l’equilibrio sociale per assicurare l’equilibrio politico. Ma conclude, poi, la sua riflessione sul comunismo con un’osservazione che mi ha fulminato per la sua preveggenza: il proletariato, dice, non sarà l’ultima forma dello sviluppo dell’economia moderna... Siamo di fronte a un’intera classe politica, quella di allora, che si forma come tale, cioè avendo come punto di riferimento i problemi dello Stato, della politica internazionale. Non è più così, oggi, quasi per nessuno. I problemi dello Stato, in tutto il mondo, sono diventati patrimonio delle burocrazie. E noi soffriamo più degli altri, proprio perché, nel nostro Paese, le burocrazie sono molto fragili e screditate.

Piero Craveri

Regno di Sardegna, Regno delle Due Sicilie cioè il Sud. Stato Pontificio cioè il Centro-Italia, Granducato di Toscana, Lombardo-Veneto con Venezia, sotto gli austriaci. Ducato di Parma e Piacenza, Ducato di Modena... Erano quasi tutti dei protettorati austriaci... Metternich nell’800 mandava truppe, in caso di rivolte, a rimettere le cose a posto. E teneva guarnigioni un po’ dappertutto, anche per scaricare sugli alleati il costo del mantenimento dei soldati. In Piemonte il contingente austriaco stava ad Alessandria... Vittorio Emanuele I pagava tutto, egli odiava gli austriaci... Carlo Felice invece si fece aiutare da loro per reprimere i ribelli del ’21. E mandò Carlo Alberto in esilio a Firenze..., perché aveva sposato la figlia del Granduca di Toscana, Ferdinando III d’Asburgo, un austriaco... Il Granduca aveva ospitato figlia e genero a Palazzo Pitti. Una notte alla nutrice china sulla culla scivolò di mano la candela, andò tutto a fuoco e la stessa bambinaia restò carbonizzata. Il piccolino, invece, niente. Esiste il verbale di un caporale, tale Galluzzo, che nei libri viene definito un guazzabuglio. Crispi, dicendo di averlo sentito da Massimo D’Azeglio (che parlava del “figlio del beccaio”), raccontava che anche il bambino in realtà era bruciato e che i familiari erano andati di corsa a prendere il neonato di un Tanaca macellaio (il beccaio, appunto), che abitava proprio di fronte a Palazzo Pitti... Il piccolo Tanaca fu messo in culla al posto del bambino morto, e così fu garantita la dinastia... Storia vera? Non inverosimile. Intanto, è strano che la nutrice sia morta bruciata e il bambino sia rimasto illeso. Poi, Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II s’assomigliavano davvero poco. Carlo Alberto era alto più di due metri, suo figlio arrivava a stento al metro e sessanta, come Cavour e come Garibaldi. Di faccia, poi, erano diversissimi.

Giorgio Dell’Arti

Napoleone III aveva l’idea di costruire una grande zona d’influenza nella pianura padana per bloccare ogni velleità austriaca. Di qui l’appoggio dato alla costruzione di una media potenza, il Regno Sabaudo, che doveva comprendere la Lombardia, il Veneto e arrivare sino agli Appennini, escludendo la Toscana, lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie... Più che a un’Italia unita, Napoleone pensava a una federazione di Stati in cui il Papa avrebbe avuto la funzione di arbitro e la Francia la supremazia politica. Quest’idea naufragò per l’abile iniziativa di Cavour... Si è sempre detto che la Francia firmò l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859), successivo alla vittoria di Solferino, perché temeva che la Prussia entrasse in guerra a fianco dell’Austria... In realtà ciò non era vero, e Napoleone lo sapeva bene. Villafranca fu tesa a fermare le ambizioni di Cavour. Dopo la Seconda guerra d’indipendenza, Napoleone III continuò in tutti i modi a osteggiare il progetto di un’Italia unita. Per esempio, dopo lo sbarco dei Mille a Marsala propose all’Inghilterra di unire le flotte per impedire ai garibaldini di arrivare in Calabria. La sua idea era di mantenere i Borbone nel Sud peninsulare e offrire a un’altra casa regnante la Sicilia. Ulteriore segno di ostilità, la rottura delle relazioni diplomatiche dopo la violazione dei confini pontifici da parte dell’esercito sabaudo... L’atto finale di questa politica anti-italiana si svolse alla vigilia della Terza guerra d’indipendenza, nel 1866. Napoleone da un lato spingeva l’Italia ad entrare in guerra a fianco della Prussia contro l’Austria, e nello stesso tempo firmava con Vienna un accordo segreto in cui si diceva che in caso di sconfitta dei prussiani, se in Italia si fossero verificate sollevazioni popolari per riportare sul trono i vecchi principi che regnavano prima del 1859, la Francia non avrebbe opposto resistenza.

Eugenio Di Rienzo

Non credo che i cattolici debbano mettere nel cassetto le ragioni critiche che li hanno animati verso non tanto l’unificazione politica (quella morale e culturale era in atto da molti secoli) quanto verso le modalità, le motivazioni e il modello di Stato prevalsi nel movimento risorgimentale. Ad esempio, proprio il suo giornale (Avvenire, n.d.r.) ha pubblicato la documentazione storica circa il cospicuo finanziamento (tre milioni di franchi-oro del tempo, equivalenti mi pare a circa 15 milioni di euro attuali) da parte della massoneria anglosassone per la spedizione di Garibaldi dalla Sicilia. Lo scopo del finanziamento era quello di distruggere non solo lo Stato Pontificio, ma anche la sede universale del cattolicesimo. Mentre Pio IX aveva dimostrato di non essere contro l’unificazione nazionale, purché non fosse indirizzata in senso anti-cattolico. La mia domanda è questa: sarà possibile discutere serenamente, documenti alla mano, almeno in sede storiografica, su questi fatti o ciò sarà riprovato come “anti-italiano” dalle vestali del laicismo annidate nelle istituzioni, nella stampa e nell’editoria egemoni? Ancora: sarà possibile sottoporre ad attenta critica le parole di Mameli che, oggettivamente, sono una premessa del fascismo? Il Dio che creò “schiava di Roma” la vittoria è il Dio dei cristiani o non forse il Dio pagano di Mussolini (il “Gott mit uns”)? Si potrà rilevare che persino nella Costituzione del 22 dicembre 1947 questo dio pagano si è insinuato, suggerendo come “sacra” (cioè fondata su Dio) la difesa della Patria, mentre la proposta di Giorgio La Pira di rendere “sacri” (fondati su Dio) i “diritti inviolabili ed i doveri inderogabili” dell’art. 2 venne derisa indecorosamente da Benedetto Croce e dalla componente laicista dell’Assemblea Costituente, tanto che non se ne fece nulla?

Attilio Sangiani

Che l’imprinting romantico abbia contrassegnato il clima del nostro Risorgimento, emerge non soltanto dai postulati etici della dottrina mazziniana, dall’affinità di concetti come dovere e azione elevati a imperativi supremi, con gli ideali di fede e dedizione assoluta a una determinata missione morale e civile sino al sacrificio di sé, interiorizzati ed esaltati dal Romanticismo. È quanto risulta anche dai temi e dall’intonazione di tante opere letterarie e teatrali, ma anche figurative, che contribuirono nella prima metà dell’Ottocento a plasmare la sensibilità e l’immaginario collettivo degli italiani. Dato che esse erano tracce tangibili dell’impulso che il Romanticismo diede alla riscoperta di certi tratti distintivi originari (la lingua, le espressioni artistiche, i costumi) e alla loro riappropriazione come altrettanti elementi fondamentali delle singole individualità nazionali. Basti porre mente alla risonanza che ebbero romanzi e poemi, tragedie e melodrammi, rievocativi di particolari episodi della nostra storia medievale e rinascimentale, costruiti sullo stesso canovaccio dei modelli romantici stranieri e opportunamente adattati per renderli congeniali, in chiave epica o edificante, a esigenze e obiettivi di ispirazione patriottica. È pur vero che si trattava talora di una produzione di carattere marcatamente apologetico, ma proprio per questo di notevole impatto. Fatto sta che l’idealismo romantico, ancorché declinato con accenti diversi, è stato il fulcro o il collante di un insieme di assunti e di precetti, di sistemi concettuali e di allegorie, di rituali e di simbologie che, proiettandosi dall’universo individuale sul terreno politico o sul versante culturale, concorsero a fare della nostra “rivoluzione originale” una vicenda più complessa e poliedrica di quanto non lascerebbero supporre le sue matrici elitarie.

Valerio Castronovo

Si è scritto che le voci di dissenso sulla volontà del Piemonte, in particolare di Cavour e delle regioni meridionali, di unificare l’Italia non avevano alcun fondamento e tradivano la memoria degli italiani migliori che per l’Italia unita andarono in esilio, nelle carceri o sacrificarono la vita. Si sono ricordati gli anni favolosi del decennio di preparazione (1849-1859) a Torino con le migliori intelligenze dei patrioti di tutta Italia... Tuttavia, qualche voce “piemontese” di dissenso non è venuta meno e quindi sembra opportuno ricordare cosa pensassero, quali fossero i loro sentimenti, i piemontesi illustri dopo circa vent’anni dall’Unità. Si tratta di Vittorio Bersezio, Edmondo De Amicis, Michele Lessona, Giuseppe Giacosa, Giovanni Faldella, Vittorio Turletti e tanti altri. Essi presero l’iniziativa di descrivere Torino in tutti i suoi aspetti (dalle Rimembranze, monumenti e iscrizioni, ai Caffè, ai Circoli, agli Istituti Scientifici, ai Canti, ai Giardini e Viali, all’Arte, alle Scuole militari ecc.) per le edizioni Roux del 1880. Ebbene, in questi scritti, che pure avevano ben altre finalità, prorompe ogni tanto il loro slancio sul Risorgimento, sull’Unità d’Italia, sugli anni favolosi del decennio, facendo trasparire il loro orgoglio di essere “italiani” e di essere stati, come “piemontesi”, determinanti per l’Unità della Nazione. Ad esempio, Vittorio Bersezio, deputato del Parlamento Subalpino e scrittore (autore fra l’altro del noto Le miserie ‘d Monsù Travet) esclama: «E ora l’amor patrio di Torino non è piemontese soltanto, è italiano. Cominciarono in questo secolo gli spiriti più eletti a vagheggiare da questo estremo lembo la liberazione e ricostituzione della gran Patria comune... Chi si è trovato presente alla gioia onde si salutarono le vittorie di coloro che combatterono per la libertà d’Italia, quegli può dire se l’amor patrio di Torino sia profondamente radicato nel cuore del popolo, sia davvero parte essenziale della sua vita». Edmondo De Amicis scrive: «Piazza Castello si rianima, sotto i portici passa un soffio del ’59...». Turletti, quando accenna alla guerra di Crimea, scrive che «si capisce che quella strada per l’Oriente forse è la più breve per arrivare a Milano, a Venezia, a Roma». E Faldella (deputato, senatore e corrispondente da Roma de La Gazzetta Piemontese), rievocando il pensiero dei grandi piemontesi (Carlo Botta, Cesare Balbo, Vittorio Alfieri, Silvio Pellico, Massimo D’Azeglio, Vincenzo Gioberti, Camillo Cavour, Tommaso Vallauri, Carlo Marenco, Angelo Ruffini, Luigi Cibrario...) scrive: «Insomma queste potenze intellettuali scaturirono ad un tratto dalla terra rocciosa, vergine del Piemonte, per concertarsi con le altre forze della Nazione, unirle e correggerle, al fine di ottenere il miracolo non mai sperato della libertà e dell’Unità completa dell’Italia». Basteranno queste poche citazioni a convincere i dissenzienti che qui a Torino e in Piemonte si volle tutti – ma proprio tutti – l’Italia unita?

Franzo Grande Stevens

La formula dello Stato unitario e accentrato che alla fine prevalse era coerente con gli interessi espansionistici dei Savoia e forse di alcuni imprenditori e finanzieri, era gradita all’ideologismo neogiacobino di garibaldini e mazziniani, ma non congrua con la storia e nemmeno con le strutture e le istituzioni dei vari Stati italiani precedenti.
Il carattere elitario del movimento risorgimentale ebbe come effetto un ritardo nella nazionalizzazione delle masse, nonostante i due strumenti della scuola e della leva obbligatoria. Per un’inclusione delle masse nel processo unitario bisognò attendere l’esperienza delle trincee e il bagno di sangue della Prima guerra mondiale – La Grande Guerra come Quarta guerra d’Indipendenza era un’interpretazione dello storico Gioacchino Volpe... Molto meglio sarebbe stata dunque la via federalista indicata da Gioberti e soprattutto da Cattaneo. Il pluralismo avrebbe evitato il formarsi e l’incancrenirsi della “questione meridionale” così come della “questione cattolica”.

Franco Cardini

Cattaneo fu certamente federalista, ed ebbe a questo proposito molte straordinarie intuizioni. Ma il suo programma nacque nell’ambito di uno Stato austriaco che avrebbe dovuto rinnovarsi e lasciare ampi margini di autonomia alle numerose nazionalità di cui era composto. L’Austria, tuttavia, non era e non fu mai, neppure negli anni seguenti, riformabile. Deluso dall’esperienza austriaca, Cattaneo sperò che il suo sogno riformista potesse applicarsi all’Italia unificata dai Savoia contro i suoi desideri. Quando Garibaldi lo chiamò a Napoli, dopo la conquista della città, cercò di convincere il generale che il primo passo da compiere fosse la formazione di Parlamenti speciali per la Sicilia e il Napoletano, a cui sarebbe spettato il compito di negoziare con Torino un’unione federalista. Ma Garibaldi comprese meglio di lui che l’Italia sarebbe sopravvissuta, nelle condizioni dell’Europa di allora, soltanto se governata da un’autorità centrale e da una dinastia che aveva, tra le famiglie regnanti nella Penisola, il merito di avere difeso con le armi la propria indipendenza. Fu questo dissidio sul futuro istituzionale del Paese che persuase Cattaneo a non presentare la propria candidatura alle elezioni del 1861 e più tardi, dopo avere accettato l’elezione del 1867, a rifiutarsi di mettere piede in Parlamento per non giurare fedeltà alla monarchia. Per queste ragioni, Cattaneo non può essere definito, strettamente parlando, un “risorgimentale”. Ma fu certamente uno dei maggiori creatori dell’Italia moderna.

Sergio Romano

«Risorgimento? Ma che significa risorgimento?», si chiedeva il re di Napoli Francesco II, accusando quei pennaruli di intellettuali che auspicavano l’unificazione nazionale prestando ascolto alla propaganda dei suoi «infidi parenti di Torino», (lui era figlio di una Savoia e cugino primo di Vittorio Emanuele II). «Come si può», insisteva ingenuamente, «far risorgere una cosa che non è mai sorta? Perché l’Italia, signori miei, non è mai sorta... mentre il mio regno esiste da secoli». In realtà, agli inizi del fatidico 1859, neppure a Torino si auspicava l’unificazione della Penisola e la parola risorgimento provocava addirittura l’orticaria a Camillo Benso conte di Cavour. Perché Cavour, che in seguito la vulgata risorgimentale trasformerà nel “fine tessitore” dell’Unità nazionale, neppure ci pensava al Risorgimento. Anzi, lo riteneva una «tragica corbelleria» alimentata da quel mitomane di Giuseppe Mazzini che mandava allo sbaraglio dei giovani illusi col compito di «sollevare il popolo», mentre finivano invece inforconati dai riottosi contadini. Al conte infatti, che in vita sua non si era mai spinto oltre l’Arno, interessava soltanto dilatare il Regno di Sardegna lungo la linea del Po fino all’Adriatico. Il resto dello Stivale non lo concepiva. Pochi mesi prima, infatti, a Plombières, dove si era segretamente incontrato con Napoleone III, aveva progettato con lui un piano ambizioso e bellicoso...: guerra all’Austria per cacciare gli austriaci dall’Italia; creazione di una federazione composta da tre Stati (Regno del Nord, Regno del Centro, Regno del Sud) e liquidazione dello Stato della Chiesa offrendo al Papa, come compenso, la presidenza virtuale della stessa federazione... Il “fine tessitore”, per accattivarsi le simpatie dell’imperatore dei francesi, aveva abilmente tessuto una duplice trama diplomatica. Una ufficiale, destinata a entrare nella storia, l’altra, da lui stesso definita «malandrina», destinata a essere celata nel segreto degli archivi.
Della prima fanno parte anche quei 15 mila bersaglieri mandati nel 1855 a combattere e a morire nella lontana Crimea in una guerra fra giganti (gli imperi britannico, francese e ottomano contro l’impero russo), il cui intervento non richiesto del minuscolo Regno di Sardegna a fianco degli alleati anglo-francesi fu scambiato per un inconsulto gesto di megalomania. Si trattò, invece, di un cinico escamotage di Cavour per guadagnarsi la gratitudine degli alleati e per sedere fra i “grandi” d’Europa al congresso della pace a Parigi. Ma questa è storia nota. Del tutto ignorata è invece la strategia “malandrina” concepita da Cavour che, per realizzarla, aveva bisogno di una dama, bella, intelligente e spregiudicata capace di «charmer politiquement l’Empereur, coquetter avec lui, le seduir s’il le fallait». L’incarico di trovare questa dama disponibile Cavour lo aveva affidato al suo fedele segretario Costantino Nigra, borbottando imbarazzato per ingentilire quel compito un po’ ruffianesco: «Caro Nigra, se noialtri facessimo per nostro interesse personale quello che stiamo facendo per la patria saremmo delle belle birbe. Anzi, i peggiori sporcaccioni del mondo».
La dama prescelta fu la famosa contessa Virginia di Castiglione la quale, anche se gli storici risorgimentali la ignorano, adempì alla sua missione con grande successo saldando definitivamente l’alleanza della Francia con il Piemonte. Per questo gesto patriottico la spregiudicata contessa si meriterà la gratitudine di Cavour, ma anche il titolo coniato da Urbano Rattazzi di “Vulva d’oro del Risorgimento”. Da parte sua, la bella Virginia custodì gelosamente il negligé indossato in quel convegno imperiale (è conservato nel museo cavouriano di Santena) e lo esibiva agli amici suggerendo maliziosamente che meritava di sventolare al posto del tricolore.
Nell’estate del 1859 giunse a Napoli in missione segreta il conte Ruggero di Salmour, un diplomatico piemontese che Cavour aveva incaricato di offrire a Francesco II una proposta molto allettante... Se Napoli avesse rotto l’alleanza con l’Austria e affiancato i piemontesi, avrebbe ingrandito il suo Regno includendovi le Marche e l’Umbria. Il primo a conoscere il contenuto del “pacchetto” fu Carlo Filangieri, che lo approvò con entusiasmo... Purtroppo Francesco II gelò il suo primo ministro: «Chell’è robba d’o Papa... non se tocca!». Finita la guerra, Cavour vide sfumare il suo sogno di un Regno del Nord dalle Alpi Marittime alla Venezia Giulia, all’Istria e alla Dalmazia. Vittorio Emanuele II si accontentò di ricevere in dono la ricca Lombardia, pur dovendo cedere Nizza e la Savoia.
La spedizione dei Mille, osteggiata dalla Francia, ma supportata dalla massoneria britannica intenzionata a creare una “Malta più grande”, fu organizzata da Garibaldi con l’appoggio del re. Anche Cavour ne era a conoscenza, ma in un primo tempo non si era preoccupato: «Vadano pure a scornarsi in Sicilia. Faranno la fine di Pisacane». Ma quando capì che i garibaldini facevano sul serio, affrontò il sovrano: «Bisogna fermare Garibaldi prima che ci metta nei guai. Se nessuno osa, andrò io stesso ad arrestarlo!». Invece Garibaldi partì da Quarto con la sua armata Brancaleone: 150 avvocati, una decina di medici, 50 ingegneri, 50 chimici, 100 commercianti, giornalisti, ufficiali disertori e così via. I siciliani erano solo 38, gli altri erano tutti settentrionali, in maggioranza bergamaschi (450) e genovesi (250). Non c’era un contadino, e neppure un operaio. L’impresa ebbe successo, con grande disappunto di Cavour, che confidava sconsolato a Nigra: «Purtroppo le arance sono già sul nostro tavolo e i maccheroni sono quasi cotti. Ci toccherà mangiarli»... E l’Italia? La piemontesizzazione... fu dura e spietata. I nuovi italiani conobbero la coscrizione obbligatoria, la tassa sul macinato e tanti altri balzelli escogitati dal Regno sabaudo per rifarsi delle spese sostenute. Tutto ciò darà vita al cosiddetto “brigantaggio”, (ma non erano tutti briganti, molti erano partigiani borbonici), per liquidare il quale si registrarono più vittime di quelle avute per l’indipendenza... Luigi Carlo Farini, appena arrivato a Napoli come proconsole, non aveva esitato a scrivere a Cavour: «Altro che Italia, signor conte! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro con questi cafoni, sono un fior di virtù civili!». Era con tali sentimenti che i conquistatori del Nord si preparavano all’integrazione con i fratelli del Sud.

Arrigo Petacco

[Garibaldi] s’imbarcò alla chetichella e, delle personalità piemontesi, il solo Persano venne a dirgli addio. La grettezza di Vittorio Emanuele, il livore di Cavour e la meschinità di Farini gli avevano reso, in fondo, un enorme servigio. A confronto di tali ometti, egli sembrava, senza essere, un gigante.

Indro Montanelli

Ma il “miracolo nazionale” risorgimentale, a cominciare dalle straordinarie vicende del 1859 e 1860, venne concepito e realizzato con la piena regia di Cavour, che volutamente non parlò mai esplicitamente di unità d’Italia perché sarebbe stato controproducente ai suoi disegni dopo le esperienze, concluse tragicamente, del 1848-49. Nel gennaio 1859, il discorso della corona pronunciato da Vittorio Emanuele II nel Parlamento di Torino culminò nel «non essere insensibile al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi»: si trattava del discorso programmatico e costituzionale, inneggiante all’Italia, scritto da Luigi Carlo Farini per incarico e con le correzioni di Cavour. Parallelamente all’inizio e allo svolgersi della Seconda guerra d’indipendenza Cavour autorizzò, in momenti decisivi, diverse insurrezioni pacifiche e liberali che si svolsero in Toscana (il 27 aprile, in coincidenza con l’inizio della guerra) e in giugno, dopo la decisiva battaglia di Magenta, nei ducati di Parma e Modena e nelle legazioni pontificie delle Romagne, con le partenze dei rispettivi duchi e cardinali legati. L’armistizio di Villafranca del luglio 1859, deciso da Napoleone III dopo le forti pressioni dei cattolici francesi (non insensibili alle proteste papali per le insurrezioni nelle Romagne), creò gravi difficoltà a Cavour che, pur dimettendosi da presidente del Consiglio, continuò coerentemente nella sua regia e sollecitò Bettino Ricasoli per la Toscana, Marco Minghetti e Farini per le Romagne e l’Emilia a costituire governi provvisori e fare eleggere assemblee rappresentative che rifiutassero l’ennesima restaurazione austriacante e sollecitassero l’unione al Piemonte costituzionale.
Per difendere i governi provvisori venne pure costituita una Lega anche militare tosco-emiliano-romagnola con un esercito guidato da Manfredo Fanti e Giuseppe Garibaldi. Seguirono mesi di tensioni fra Torino e Napoleone III che Cavour, ritornato al governo, fece progressivamente maturare e culminare, a marzo del 1860, con l’accordo franco-piemontese per la cessione di Nizza e Savoia e lo svolgimento in Toscana, Emilia e Romagna dei plebisciti per l’unificazione. Anche la spedizione dei Mille fu segretamente autorizzata da Cavour e sostenuta e finanziata anche con i fondi «dei fucili dell’Emilia» gestiti da Farini, dittatore dell’Emilia e governatore delle Romagne (braccio destro di Cavour), come fu ratificato il 2 gennaio 1861 dal Consiglio dei ministri presieduto da Cavour.

Antonio Patuelli

Su Garibaldi, barbudo della prima ora, generale e condottiero, ma anche romanziere, diplomatico e viaggiatore, i riflettori si sono riaccesi nel bicentenario della nascita: Nizza, 4 luglio 1807. Con qualche sorpresa... Si scopre che, in un’Italia dove l’eroe torna 5.500 volte nella toponomastica di città e paesi, e dove i piccoli e grandi musei che custodiscono almeno una lettera, un brandello di camicia rossa, un tocco di bandiera non si contano, il potenziale culturale garibaldino è ampiamente inutilizzato... L’eroe è percepito come un’icona moderna, uno che già 150 anni fa sapeva comunicare a livello internazionale, passando abilmente da una camicia rossa a un poncho, da un combattimento a spade sguainate a un dotto carteggio con l’amico Victor Hugo. Senza mai dimenticare il fotografo o il ritrattista di fiducia... Ai giovani ricorda quell’Ernesto Che Guevara che come lui aveva la barba, era bello e cittadino del mondo... ma, a differenza di Guevara, non è stato ancora sdoganato, non è andato al di là delle sue origini ideologiche e politiche... Al Garibaldi massone si dedicano per ora soprattutto i francesi, che non hanno mai digerito lo smacco della sua italianità.

Vera Schiavazzi

Il tono è un distillato di cortesia tutta piemontese, un florilegio di signorie illustrissime, compiacimenti, indi e poscia. La sostanza è un diniego a muso duro al comune di Palermo che chiedeva un risarcimento record – oltre 900 mila euro di oggi – per avere provveduto all’alloggio e alle spese dei Mille di Garibaldi. Un “no” condito dal sottile sospetto che il municipio siciliano, oltre che pasticcione e ignorante delle leggi, tentasse di fare su quei conti una sontuosa cresta. Carteggio spassoso... quello appena scoperto tra i faldoni dell’Archivio storico comunale palermitano... Un contenzioso che getta nuova luce, fuori dall’epica e dagli squilli di tromba, sulla spedizione da cui nacque l’Italia unita. E sui mille uomini protagonisti di quella pagina di storia. Il Comune siciliano batte cassa già il 21 maggio 1861, accludendo alla richiesta di rimborso di 50 mila 646 ducati (la moneta del Regno borbonico) tre diversi quaderni, chiamati “stati”, con l’elenco dettagliato delle spese sostenute... Il primo è dedicato al costo degli alloggi per gli ufficiali, che venivano ospitati a pagamento in dimore nobiliari, per un costo attuale di 404 mila euro; il secondo e il terzo (conti da oltre 193 mila e 303 mila euro) dedicati all’ospitalità nelle locande per sottufficiali e soldati, ma anche alle più diverse necessità... L’occhiuto funzionario sabaudo smonta la richiesta punto per punto... Risultato: «Assoluta impossibilità di adivenire ad una regolare liquidazione»... Si ignora come andò a finire. Di certo saranno seguite affilatissime schermaglie tra la cortesia piemontese e quella siciliana, «le due più puntigliose d’Italia», per dirla con Tomasi di Lampedusa.

Laura Anello

Nell’agosto 1862 Garibaldi torna in Sicilia e durante un bagno di folla a Marsala ode il grido: – O Roma o morte! –. Decide di arruolare dei volontari, si impadronisce di due piroscafi e prende il mare. L’Ammiraglio Albini, che incrocia nei paraggi, telegrafa al ministro della Marina, che gli risponde con una frase che è un piccolo capolavoro di italianità: «Agite a seconda dell’occasione, ma tenete sempre presente il bene del Paese». Albini gira la testa da un’altra parte, i garibaldini sbarcano in Calabria, ma, accolti dalle fucilate dell’esercito, si rifugiano in Aspromonte, dove per fame saccheggiano un campo di patate. Sorpreso dai militari italiani, Garibaldi avanza da solo per parlamentare, ma è colpito da due pallottole, alla coscia e al malleolo. Appoggiato al tronco di un pino (che esiste ancora), è arrestato (ma con un deferente saluto militare) dal colonnello Pallavicini, dopo che per fuoco italiano sono caduti dodici garibaldini.
Due anni dopo, nel novembre 1864, la Gazzetta di Torino dà notizia di una Convenzione franco-italiana: i transalpini lasceranno Roma a patto che non venga occupata, mentre la capitale dovrà trasferirsi a Firenze. Scoppiano tumulti a Torino. Monsù Travet (Signor Travicello), emblema del burocrate ministeriale, teme di perdere l’impiego. I carabinieri sparano a Piazza Castello: dodici morti. In piazza San Carlo la carneficina è più assurda: guardie e carabinieri si sparano a vicenda, entrambi convinti di rispondere al fuoco dei dimostranti: decine di morti, moltissimi feriti, per un trauma mai superato.
Altri due anni, luglio 1866. La Terza guerra d’Indipendenza parte male e continua peggio. A Custoza (dalle parti di Verona) gli italiani perdono una guerra che gli austriaci non si erano neppure accorti di aver vinto. La Marmora si ritira rovinosamente, mentre l’altro generale, Cialdini, che lo odia, resta accampato e non muove un dito. Persano, più abile alle manovre politiche che a quelle navali, muove a malincuore da Ancona e porta la flotta all’arrembaggio di Lissa. La mattina seguente compare l’armata austriaca, inferiore di numero, peggio equipaggiata, piena di marinai veneti. La flotta italiana perde due navi (fra cui l’ammiraglia “Re d’Italia”, ma Persano si era rifugiato per tempo su un altro battello) e 620 uomini, mentre gli austriaci hanno solo 38 vittime. «Uomini di ferro su navi di legno hanno battuto uomini di legno su navi di ferro», sentenzia l’ammiraglio Tegetthoff, mentre i suoi marinai inneggiano a San Marco. Ma l’Austria perde la guerra (non per merito nostro), e per colmo d’ironia il Veneto passa all’Italia. Commenta Napoleone III: «Questi italiani! Ancora una sconfitta e mi chiederanno Parigi». Unico capro espiatorio, Persano, processato e degradato. Solo Garibaldi salva la faccia: trionfa a Bezzecca ed è a un passo da Trento, quando, fermato da La Marmora, interrompe le ostilità con la risposta più sintetica e sofferta della nostra storia: «Obbedisco».

L. Baldo

Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempre molti paesi in operazioni “antiterrorismo” come i marines in Iraq... Ignoravo che in nome dell’unità nazionale i fratelli d’Italia ebbero pure diritto al saccheggio delle città meridionali come i lanzichenecchi a Roma. E che praticarono la tortura, come i marines ad Abu Ghraib, i francesi in Algeria, Pinochet in Cile... Ovunque si fermino, i Mille prendono possesso delle migliori residenze: i proprietari, a volte, non troveranno più manco le posate. Quando Garibaldi si sistema nella reggia borbonica, i suoi la spogliano di qualsiasi cosa si possa vendere. Finiranno in fondo al Tirreno, con la nave sulla quale li trasportava Ippolito Nievo, 12 bauli di documenti sulla gestione dei quattrini razziati per l’impresa... Nel sacco del Sud, il tesoro sottratto al Regno di Napoli ebbe un costo: 443 milioni di lire-oro (dei 664 di tutta l’Italia messa insieme).

Pino Aprile

Si è sentito di tutto, in questi anni. Di tutto. Il torinese Mario Borghezio ha tuonato che Garibaldi «è solo una montatura... Era solo un esaltato innalzato dalla retorica nazionalista». Il catanese Raffaele Lombardo che «è tempo che l’intera nazione prenda coscienza del male che ci ha fatto Garibaldi: l’unità ci ha portato sottosviluppo, immigrazione, e un genocidio chiamato brigantaggio, con gli insorti impiccati, bruciati vivi e denigrati, come banditi». Il bergamasco Roberto “Pota” Calderoli che certe ricorrenze risorgimentali sono «un lutto»: «L’azione di Garibaldi e dei Savoia ha fatto il male della Padania e del Mezzogiorno, che stavano benissimo come stavano». E mentre il sindaco siciliano di Capo d’Orlando spaccava a martellate la targa di Piazza Garibaldi («un feroce assassino al servizio della massoneria e dei servizi inglesi»), il bossiano Francesco Bricolo sparava: «È un traditore, un mercenario, un massone, un nemico della Chiesa, un negriero, un truffatore, un ladro di bestiame e un criminale di guerra».

Sergio Rizzo - Gianantonio Stella

Il 1° gennaio 1869 entra in vigore la tassa sul macinato, imposta dal ministro delle Finanze Cambray-Digny: due lire per ogni quintale di grano, una lira per il granturco e la segale con cui si impasta il pane della miseria. La chiamano la ”tassa sulla fame”, la più impopolare d’ogni tempo, primato che detiene tuttora. I mugnai, investiti come esattori, in gran parte rifiutano di applicare l’odioso balzello e chiudono i mulini. È rivolta ovunque. Ed è reazione sanguinosa. I bersaglieri di Cadorna sedano i tumulti: 257 le vittime in tutta Italia.

L. Baldo

Mazzini morì il 10 marzo 1872 senza esserci riconciliato con quello Stato italiano che, grazie o forse soprattutto a lui, era nato circa undici anni prima... Solo dieci anni dopo, a Genova, gli fu dedicato il primo monumento... e solo nel 1901 si approvò la decisione di introdurre nelle scuole elementari il suo libro Dei doveri dell’uomo... Influenzò Bottai, Grandi, Balbo..., quindi Alfredo Rocco e soprattutto Giovanni Gentile..., ma anche gli antifascisti di Giustizia e Libertà, e Carlo Rosselli, il Partito d’Azione, Pietro Nenni, Palmiro Togliatti... La sua attività fu caratterizzata da una serie quasi incredibile di fallimenti: l’insurrezione abortita nei primi mesi del 1833, la sollevazione di Napoli dell’agosto di quello stesso anno, la spedizione in Savoia del 1834 e quella dei Fratelli Bandiera in Calabria del 1844, e l’insurrezione a Milano del 1853, insieme con quella della Lunigiana dell’anno successivo, mentre nel 1857 fu la volta della tragica missione di Pisacane a Sapri, oltre alle rivolte fallite a Genova, in nome – scrisse Cattaneo – di una «dottrina del martirio» fondata sull’ostinazione «di sacrificare li uomini coraggiosi a progetti intempestivi e assurdi»... Altri fiaschi seguirono a successive cospirazioni, fino a quella di Pisa, dove venne giustiziato il caporale Piero Bersanti, che ancora oggi è ricordato come l’ultimo martire della causa repubblicano-mazziniana.

Giovanni Belardelli

Breccia di Porta Pia, Roma capitale d’Italia. Ma la data decisiva è il 1° settembre 1870. A Sedan Napoleone III (detto “il Piccolo” da Victor Hugo) è sconfitto dai prussiani, abdica e se ne va in esilio. Cessa la sua protezione sugli Stati Pontifici. A Firenze, capitale provvisoria, si coglie la grande occasione: si può prendere Roma. Si organizza con la massima fretta un corpo di spedizione con numerosi reggimenti di fanteria, cavalleria, bersaglieri, treni di artiglieria. Le truppe papaline contano zuavi, svizzeri, italiani, mercenari di varia provenienza... Il confine è passato pacificamente, ma le città sono sbarrate e fortificate. Pio IX ci tiene a mostrare che il suo antichissimo Regno è stato preso con la forza. Sarà così Porta Pia a pagare in questo scontro simbolico, mentre sulle colline della Nomentana osservano lo spettacolo curiosi, nobili, giornalisti. Fuoco, fiamme, rombo di cannoni. Muoiono in 68: 49 italiani e 19 pontifici. Chiuso nei palazzi vaticani, il Papa chiede protezione ai suoi nemici: gli italiani mandano un battaglione in piazza San Pietro. Poi baci, abbracci, canti e tanto vino... Esuberanza, soprattutto. Edmondo De Amicis, inviato da un giornale, registra la filosofia rassegnata di un popolano: «Noi stiamo con chi comanda».
2 luglio 1871. Vittorio Emanuele fa il suo ingresso trionfale a Roma. Ha il viso lungo, si sente in colpa verso il Papa che ha già scomunicato tutto lo scomunicabile e si atteggia a prigioniero politico. I poeti di corte hanno un bel daffare nell’effondere epicità all’avvenimento, e giungeranno a trasformare il «Finalment ij suma» (Finalmente ci siamo), nell’aulico «Ci siamo e ci resteremo» che un sovrano «di sangue barbaro» e allergico alla retorica non sarebbe mai stato in grado di formulare... Il governo Lanza ha invano trasferito a Roma leggi e privilegi delle guarentigie. Il Papa rifiuta «i trenta denari» e proclama che «nessuna conciliazione sarà mai possibile fra Cristo e Belial, luce e tenebra, verità e menzogna». Non importa che la sinistra anticlericale abbia criticato la legge. Per Pio IX «fra destra e sinistra esiste la stessa differenza che passa fra colera e terremoto».
Mentre il Re varca di malavoglia la soglia del Quirinale, (ma appena può scappa dalla Rosina, che alla chetichella ha sistemato in un villino fuori mano, sulla Nomentana), il Papa, pur di riavere i suoi territori, non esita a rivolgersi al luterano Bismarck. A sorpresa, il Cancelliere prussiano gli propone di trasferirsi a Berlino, spiegando agli amici esterrefatti che sarebbe il solo modo di ripristinare l’unità religiosa in Germania: «Infatti, è mia ferma convinzione che il giorno in cui i cattolici tedeschi conoscessero il Pontefice da vicino, si convertirebbero in massa al protestantesimo».

Fruttero e Gramellini

Ma siamo proprio sicuri che l’Italia si sia guastata nel crescere? Alla disperata ricerca di soldi, il ministro delle Finanze lancia la privatizzazione della Regìa (Monopolio) dei tabacchi, cui si oppone Quintino Sella. L’appalto è assegnato a un pool di banche straniere, dietro le quali si cela il finanziere livornese Bastogi, già accusato d’aver corrotto politici e giornalisti per l’acquisto delle Ferrovie Meridionali. Dai banchi di sinistra si leva la voce dell’on. Cristiano Lobbia, un ingegnere di Asiago, uno dei Mille. Accusa 60 parlamentari della maggioranza di conflitto d’interesse. Si scatenano le voci più clamorose: persino il Re avrebbe intascato sei milioni. Lobbia riapre il contenzioso poco dopo, sventolando alla Camera una busta che conterrebbe le prove della corruzione dell’on. Civinini, un altro ex garibaldino. Si nomina una commissione d’inchiesta, ma Lobbia è aggredito per via da uno sconosciuto, che gli assesta una bastonata in testa e lo ferisce al petto con un pugnale. In Italia si invocano “mani pulite”. Garibaldi parla di “tempi borgiani”. La destra sostiene che Lobbia ha inventato l’agguato per non affrontare le domande della commissione che avrebbero messo a nudo il suo bluff. Perfette bombe a orologeria e colpi di scena all’italiana: il testimone, presunto attentatore di Lobbia, un palermitano, è trovato affogato in Arno. La magistratura denuncia e condanna Lobbia per simulazione. Sarà assolto per insufficienza di prove molti anni dopo. E la commissione d’inchiesta? Svanita nel nulla. L’unico a trarre vantaggio dallo scandalo è un cappellaio di Firenze, che sfrutta la popolarità della bombetta ammaccata per mettere in vendita «i cappelli alla Lobbia».

Roberto Cangini

In una via periferica di Bologna arriva una sgangherata carrozza, e un prete male in arnese, biondiccio, molto alto, corpulento, fa per salirvi, ma rimane incastrato tra predellino e sportello, suscitando l’ilarità dei presenti. Qualcuno nota che sotto la tonaca fanno capolino i calzoni. È Michele Bakunin, il rivoluzionario russo che sta per fuggire. Vive a Locarno, ozioso, malinconico, squattrinato, carico di debiti, pronto a capeggiare i moti in tutte le città d’Europa. Quando è al tramonto, arriva Carlo Cafiero, (altro iscritto all’Internazionale, altro nemico giurato di Marx), che gli mette a disposizione la sua cospicua fortuna di possidente pugliese. Insieme comprano una villa in collina, coltivano, aprono la porta a tutti quelli che da mezza Europa si presentano a chiedere aiuto. Fino a che la situazione si fa insostenibile: alcuni informano Bakunin che a Bologna sta per scoppiare la rivolta, l’anarchico corre in città ma nulla funziona, come racconta Riccardo Bacchelli nel suo Il diavolo a Ponte Lungo. Bakunin torna a nascondersi, poi, in abito talare, appunto, fugge in Svizzera. Morirà povero in canna, in casa di amici.

Gennaro Maraldi

Il 18 marzo 1876 la Destra storica che fu di Cavour perde il potere. Il suo ultimo governo, presieduto da Minghetti, cade alla Camera (242 voti contro 181) su un ordine del giorno che oggi sarebbe “di sinistra”: la statalizzazione delle ferrovie. La Destra ha esaurito la propria missione: Unità (con le armi e con le leggi), conti dello Stato in regola, col sospirato pareggio di bilancio... Il capo dell’opposizione, Depretis, forma il nuovo gabinetto. Ma la rivoluzione parlamentare, come venne chiamata, rivoluzionò ben poco. Al governo giunsero i notabili della Sinistra garibaldina, legati anch’essi alla borghesia conservatrice del Nord e alle clientele del Sud. Il loro programma, imperniato sulla moralità (!), l’istruzione elementare obbligatoria, l’abolizione della tassa sul macinato, il diritto di voto esteso ai maschi che sapessero leggere e scrivere, lo realizzarono solo in minima parte, anche se governarono per un ventennio. Rispetto alla Destra, ebbero meno efficienza amministrativa, una politica estera avventurosa, una propensione al populismo e per qualcuno (come Crispi) alle tentazioni autoritarie. Scrisse vent’anni dopo Gaetano Salvemini: «Andati al potere, i sinistri mangiarono più che poterono. I destri avevano mangiato anch’essi, e appaiono onesti perché non dovettero sbalzare nessuno dal posto occupato, ma i sinistri – va loro resa questa lode – mangiarono molto di più».

Renato Mulas

Si chiama Wilhelm Oberdank, è figlio illegittimo di una slovena di Gorizia e di un soldato veneto dell’esercito austriaco. Diserta a Sarajevo perché non vuole sparare contro i bosniaci che lottano per l’indipendenza e raggiunge Roma, italianizzando il nome in Guglielmo Oberdan. Deciso irredentista, decide di compiere un gesto clamoroso per «risvegliare l’animo dei giovani dal loro vergognoso torpore»: si lancerà come una bomba umana contro Francesco Giuseppe, atteso a Trieste per i 500 anni dell’annessione della città all’Impero asburgico. Ma alla vigilia dell’attentato un traditore lo consegna ai gendarmi di Monfalcone. Victor Hugo scrive all’imperatore, implorando la grazia. Gli fa eco Carducci: «È un martire, che andò a Trieste non per uccidere ma per essere ucciso». Il giovane kamikaze viene giustiziato. Ruggisce Carducci: «Cecco Beppe è l’imperatore degli impiccati!». Si soffocano le manifestazioni di piazza, ma con un certo imbarazzo: si vocifera, infatti, di un patto segreto tra l’Italia, l’Austria e la Germania; ma il ministro degli Esteri, che lo ha firmato sette mesi prima, smentisce sdegnosamente. Si saprà tutto dopo la Prima guerra mondiale: nel maggio 1882 la Sinistra al potere aveva ribaltato la tradizionale alleanza con Parigi e aveva legato l’Italia alla Triplice Alleanza degli Imperi Centrali, sebbene Bismarck disprezzasse l’esercito italiano. Oberdan – un brigante, per Vienna e Berlino – si era girato dalla parte sbagliata, ma tedeschi e austriaci avrebbero fatto i conti con il valore dei nostri soldati nei giorni della disperazione seguiti a Caporetto e scanditi tra il Piave e Vittorio Veneto.

Romano Lamarca

«Giungeva il carro funebre, carico di corone, dopo aver percorso Roma sotto una pioggia di fiori, tra il silenzio di un’immensa moltitudine addolorata, preceduto da una legione di generali e da una folla di ministri e di principi, seguito da un corteo di mutilati, da una selva di bandiere, dagli inviati di 300 città, da tutto ciò che rappresenta la potenza e la gloria d’un popolo: e giungeva dinanzi al tempio augusto dove l’aspettava la tomba». Paragonata ad altre cronache dei funerali di Vittorio Emanuele II, morto di broncopolmonite a soli 58 anni, quella di De Amicis in Cuore brilla per asciuttezza. Aedi improvvisati sciolgono inni al «veltro dantesco» e «al più valoroso dei Maccabei». Però la commozione è sincera, come il silenzio della folla che accompagna la bara verso il Pantheon... Unici a fare stecca sul coro, i giornali austriaci propongono di incidere sulla tomba il seguente epitaffio: «Qui giace un Re cui tutto tornò vantaggioso, anche le disfatte». Di preti in corteo se ne vedevano solo due: il cappellano di corte e un suo collega che davanti al Pantheon gli grida: venduto!
Vittorio Emanuele è il terzo campione del Risorgimento a congedarsi dai contemporanei per entrare nella storia. Il primo era stato Cavour, stroncato dalla malaria nell’agosto 1861, ad Italia appena fatta e ad appena 51 anni. Torino aveva chiuso per lutto, ma il resto del Paese non se n’era quasi accorto: lo considerava, non del tutto a torto, uno straniero. Dopo il miglior cervello, la miglior coscienza: Giuseppe Mazzini, spentosi a Pisa il 10 marzo 1872. «È l’Italia che ho sognato? È dunque una parodia?» aveva scritto quel grafomane in una delle ultime lettere. Di sicuro era e rimane una nazione melodrammatica, che ha sempre considerato con fastidio le personalità rigorose. Infatti, ai suoi funerali non c’era nessuno. Non i potenti, che lo volevano in galera. E nemmeno il popolo, che non aveva gli strumenti per capirlo, a cominciare dall’alfabeto. L’ultimo padre della Patria a lasciarla orfana sarà il più popolare: Garibaldi, morto a Caprera nel giugno 1882, quattro anni e mezzo dopo il suo Re. Obbediti da tanti in vita, entrambi vengono disobbediti al momento della morte. Vittorio voleva essere sepolto a Superga come gli avi, invece finisce al Pantheon. E invano il mangiapreti Garibaldi lascerà disposizioni per la propria cremazione. Lo imbalsameranno «per non offendere i sentimenti religiosi del popolo». Si scomoderanno i paragoni con Cesare e la retorica sommergerà il dolore. Ma dolore ve ne sarà, e autentico. Perché malgrado i suoi difetti, o proprio in virtù di essi, Garibaldi è l’unico protagonista del Risorgimento ad avergli saputo dare una dimensione epica.

Fruttero e Gramellini

La Chiesa non adottò una posizione ufficiale sul brigantaggio. Ma accolse Francesco II a Roma, permise che vi creasse una specie di governo in esilio e tollerò che Palazzo Farnese, dove il Re di Napoli si era installato con ciò che restava della sua corte, diventasse lo stato maggiore della rivolta. Di lì passavano i legittimisti italiani e stranieri che decisero di andare a combattere contro i “piemontesi”. Di lì partivano le esortazioni e le raccomandazioni. Lì si raccoglievano i denari necessari alla lotta... Il governo di Torino adottò misure drastiche e brutali, ma non aveva altra scelta... Il fenomeno [del brigantaggio, n.d.r.] venne descritto nel 1975 da uno dei migliori storici del dopoguerra, Giorgio Rumi, in un articolo intitolato “L’opinione pubblica milanese e il brigantaggio”. Studioso cattolico... Rumi lesse attentamente anche la stampa della sinistra meneghina. Per i mazziniani e i garibaldini il fenomeno del brigantaggio era il risultato di due politiche, quella di Torino e quella di Roma, che avevano obiettivi opposti ma erano altrettanto responsabili di ciò che stava accadendo nell’Italia meridionale. Torino aveva sottovalutato «una realtà storica complessa, (le) secolari strutture sociali, (i) dati di fatto ambientali e geografici». Aveva agito con aridi criteri politico-amministrativi che avevano deluso le popolazioni meridionali. E a Roma, nel frattempo, Francesco II armava con l’aiuto del Papa le mani degli assassini. Secondo la sinistra milanese occorreva superare questo stallo restituendo a Garibaldi la spada che gli era stata tolta, affidandogli il compito di pacificare il Sud e di completare l’impresa unitaria fino a Roma e a Venezia.

Sergio Romano

Per molti meridionali ancora oggi il cosiddetto brigantaggio conserva i caratteri dell’epopea. Simboli, il Sergente Romano, ad esempio, che con alcune centinaia di soldati ex borbonici non fu accolto nell’esercito “liberatore”, perciò si diede alla macchia. O Carmine Crocco, un contadino lucano la cui famiglia era stata vessata dai “galantuomini” locali, (padre in carcere, innocente; madre incinta massacrata di botte; sorella sfregiata per essersi opposta a uno stupro). Forte di 700 uomini, il primo fu idolatrato in Puglia e Molise. Forte di 3.000 uomini, l’altro tenne in scacco i piemontesi in Irpinia, in Basilicata e in Calabria, e ci vollero tre anni e un tradimento per batterlo sulle rive del fiume Ofanto. Lo catturò Pallavicini, divenuto generale dopo la vicenda dell’Aspromonte. E mentre la sua condanna a morte veniva mutata in carcere a vita, D’Azeglio si chiedeva: «Ma (i meridionali) ci vogliono o no? Io so che di qua dal Tronto non ci servono 60 battaglioni, mentre di là sì. E pare che non bastino».

L. Baldo

Si converte il poeta e vate Giosuè Carducci, che fu repubblicano, ma è conquistato dalla regina Margherita, incontrata a Bologna. Sono almeno duecento i poeti e gli scrittori che hanno dedicato versi e prose all’”Aquilotto”, che ha sposato, senza amarlo, Umberto I, soldato con interessi da soldato che, in visita a Napoli, è colpito al braccio dal coltello di otto centimetri del cuoco lucano Giovanni Passanante, un anarchico poi condannato ai lavori forzati, oppresso da una catena di 18 chili, (madri e fratelli internati in manicomio), torturato, impazzito, cantato da un giovane romagnolo («Con la berretta del cuoco faremo una bandiera») che per questo finirà in carcere: si chiama Giovanni Pascoli. Si reclamano misure restrittive: limitata libertà di stampa e di insegnamento nelle scuole. Replica De Sanctis: «Tutte le reazioni sono venute con questo linguaggio: che è necessaria la vera libertà, che bisogna ricostituire l’ordine morale». Parole nobili e inutili. Da parte sua, l’anarchico non avrà pace neanche da morto. La sua testa, decapitata, sarà studiata dal Lombroso, che individuerà in una fossetta dietro l’osso occipitale nientemeno che la «tendenza all’anarchia». Solo nel 2007 il suo corpo troverà riposo nel cimitero lucano di Salvia, che, per «sfuggire il disonore» di avergli dato i natali, cambierà il nome in Savoia.

Piero Rochat

L’inchiesta del 1889... aveva accertato nella Banca Romana un vuoto di cassa coperto con emissione abusiva di biglietti; la relazione però era stata tenuta segreta dal governo. Lo scandalo scoppiò il 23 dicembre 1892... C’era una circolazione clandestina di 40 milioni in parte con biglietti duplicati, quindi falsi; 20 milioni di mancanza nella cassa; contabilità e bilanci falsi. Il governatore della banca, Bernardo Tanlongo, fu arrestato... Giolitti dovette dimettersi, ma gli successe Crispi, uno dei profittatori... Al processo Tanlongo fu assolto, e non si riuscì mai a capire perché... A pochi mesi di distanza l’uno dall’altro furono posti in liquidazione il Credito Mobiliare e la Società Generale... La Banca Nazionale dovette farsi carico delle perdite, per trasferirle successivamente alla Banca d’Italia.

Napoleone Colajanni

Nel gennaio 1890, dopo la reazione alla carneficina di italiani a Dogali, il governo di Roma decretava solennemente la costituzione della Colonia Eritrea... Nel dicembre 1895 gli italiani sono sconfitti all’Amba Alagi... Il primo marzo 1896 si ha il disastro di Adua... Lo scacco etiopico determinò anche la politica in Somalia, dove l’Italia aveva messo piede fin dall’inizio degli anni Novanta: solo nel 1905 il governo di Roma ebbe via libera all’amministrazione della Colonia... Segue la guerra italo-turca, che porta alla conquista (provvisoria; sarà resa meno precaria da Graziani nel 1931, mentre l’Abissinia-Etiopia sarà conquistata nel 1936) della Libia, di Rodi e del Dodecanneso.
Umberto I, il Re militarista che aveva sostenuto la politica coloniale di Crispi (e di Giolitti) viene ucciso a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci. Gli succede Vittorio Emanuele III. Si dispiega la politica di Giolitti... I suoi avversari erano spesso intellettuali di valore, come Salvemini, Einaudi, Albertini, De Viti De Marco. Giolitti non ottenne mai il consenso di questi uomini di cultura, che lo avversarono con crescente acredine. Gli intellettuali di orientamento politico conservatore lo avversarono “da destra” per la sua politica democratica che non amavano; quelli di orientamento politico democratico lo avversavano “da sinistra” perché lo giudicavano cinico, corruttore, insensibile ai problemi del Mezzogiorno... Il suo disinteresse era tanto più grave in quanto, in seguito alla industrializzazione che avvantaggiava il Nord, il divario di reddito col Sud si allargava e la “questione meridionale” diventava più grave.

Giampiero Carocci

Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando per la ripulitura della terra. Ci voleva, alfine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne... È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioneria. I fratelli son sempre buoni ad ammazzare i fratelli; i civili son pronti a tornar selvaggi; gli uomini non rinnegano le madri belve. I cimiteri, finalmente, si socchiudono: le trincee non hanno forse la forma di grandi fosse comuni? Com’è bella, da monte a monte, la voce sonora e decisa dell’artiglieria... Anche dopo la guerra più spaventosa della storia saremo sempre abbastanza per martoriare e martoriarci... E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli...

Giovanni Papini

80 o 100 mila morti a Messina. Oltre ai 20 mila di Reggio Calabria. 138 le scosse, la prima, sussultoria, del 10° grado, le altre, ondulatorie, da nord-ovest a sud-est e poi in senso contrario. Un maremoto con onde alte dieci metri. Furono ripescati cadaveri perfino sulle coste della Grecia e della Turchia. La catastrofe non solo aveva frantumato città e paesi e assassinato uno spaventoso numero di esseri umani, ma aveva cancellato i sogni e le speranze di tutti. E spezzato il cuore a coloro ai quali aveva risparmiato la vita e si aggiravano senza forza e senza volontà in mezzo ai luoghi toccati dall’Apocalisse. Trenta orribili secondi, che erano stati la prova generale della fine del mondo, avevano tolto ai superstiti anche la voglia di continuare a vivere.

Sandro Attanasio

Verso sera, circolarono delle voci sul destino di Messina. Nessuno può dire da quale fonte provenissero. Il pensiero che una città di 160 mila abitanti fosse andata distrutta fu considerato assurdo. Gli uomini sorrisero e non vollero crederci: «La solita fervida immaginazione meridionale...».

Alexander Nelson Hood, Duca di Bronte

A sua M. il Re. Le scrivo questo per un avvertimento... Se per disgrazia l’Italia andrà in guerra e che io povera madre vedova sia privata del mio uno sostegno e di mio Fratello che è quello che mantiene la mia povera mamma le assicuro che la vita di S.M. il Re e i membri della sua Famiglia sarà una ben dura sorte li atende – perché la maledizione di tutte le madri Itagliane cadrà sul loro capo come fulmine dal cielo, credo che la guerra non verrà perché prima della guerra verrà la Rivoluzione che qua in Italia ne abbiamo molto bisogno che così si potrà sradicare quella maledetta Casa Savoia che più di sventure per Italia non porta, e con loro tutti i ministri che più di Ladroni non sono... Anno ragione a venirti dire che sotto casa Savoia si sta peggio che in casa del boia. Venissero i Tedeschi qua così starà un po’ più bene che sotto Vittorio.

Una donna - 3 aprile 1915

Maestà, inviamo a V.M. questa lettera per dirvi che è tempo che finite questo macello inutile. Avete ben da dire voi, che è glorioso morire per la Patria. E a noi sembra invece che siccome voi, e i vostri porchi ministri che avete voluto la guerra che in 1° linea potevate andarci voi e loro. Ma invece voi e i vostri mascalzoni ministri, restate indietro e ci mandate avanti noi poveri diavoli, con moglie e figli a casa, che ormai questa orrida guerra da Voi voluta soffrono i poverini la fame! Vigliacchi, spudorati Ubriaconi, Impestati, carnefici di carne umana, finitela che è tempo li volete uccidere tutti?... Non vedete quanta strage di giovani e di padri di famiglia?... Noi per la patria abbiamo sofferto abbastanza, e infine la nostra patria è la nostra casa la nostra famiglia, le nostre mogli i nostri bambini...

Un soldato - 17 agosto 1917

Spesso, parlare dell’Unità d’Italia diviene un’arringa d’accusa al processo che l’ha realizzata. Parola di Claudio Magris: «Se nel 1961, ricorrenza del Centenario, prevaleva un senso forte del Paese e della Patria che poteva facilmente scadere nella retorica, ora prevale un’antiretorica nazionale altrettanto scontata ed enfatica».

Magris riconosce che molte critiche al processo di unità sono giustificate, e denuncia il primato di una causa, quella dell’irrisolta questione meridionale («lacerazione fondamentale del nostro Paese e della nostra storia»), che comunque non è una novità. Il romanzo di Carlo Alianello, “L’Alfiere”, che racconta l’impresa dei Mille dal punto di vista dei borbonici vinti, è del 1943; così come la maledizione del trasformismo italiano, sotto tiro diretto nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa uscito nel 1958, era già presente nel capolavoro che lo aveva ispirato e che era ancora più grande, “I Viceré” di Federico De Roberto, pubblicato nel 1894. Le prime inchieste dei grandi meridionalisti, che misero a nudo le piaghe del Sud e la sua separatezza, annoverano nomi eccelsi della cultura politica ed economica meridionale, italiana ed europea, ispirati alle indagini ufficiali condotte da Sonnino (1875) e da Franchetti (1876). Un philum ininterrotto ha riguardato il Sud continentale e insulare, senza che, unici nel Vecchio Continente, si sia venuti a capo di nulla.
Riprendere questi temi è utile – sostiene Magris – purché lo si faccia senza superbia intellettuale e senza acredine, «con quella critica al proprio Paese che deve essere patriotticamente dura, ma appunto patriottica». Al modo dell’ira di Dante per la «serva Italia, di dolore ostello» generata dall’amore del poeta per il nostro e suo Paese. Niente scorretto uso politico della storia, dunque, e niente supponenti dileggi da parte di chi, presumendosi civilmente superiore, in realtà rivela preoccupanti deficit d’intelligenza, utili semmai per rimuovere e mistificare le contraddizioni reali che ci riguardano e che sono alla base di tante denigrazioni odierne.

Quello del rapporto Nord-Sud è certamente il più vistoso, ma non l’unico nodo irrisolto della nostra vicenda storica. Numerosi problemi politici, economici, sociali, religiosi si intrecciano, nel bene e nel male, lungo questi 150 anni di Unità. Ma al fondo di essi, c’è un imperativo etico che non consente trasgressioni o aggiramenti: l’Italia ha bisogno di verità. Chi lamenta guasti creati dal revisionismo, chi si mette le mani nei capelli per la rilettura di tante vicende storiche, politiche ed economiche del Paese, chi vorrebbe definitivamente consolidate le agiografie che ci sono state ammannite fino a qualche anno fa soltanto, deve mettersi l’anima in pace: l’Italia ha un grandissimo bisogno che finalmente si squarci il velo di silenzi, di reticenze, di bugie strumentali, che per troppo tempo è stato steso sulla realtà, su che cosa è stata davvero l’Italia, su come continua a funzionare la nostra società, a dispetto di quello che racconta il senso comune italico, prigioniero dell’“ideologicamente corretto”, cui partecipano le forze politiche sia progressiste sia conservatrici; quel senso comune che abbiamo costruito noi tutti quando abbiamo accettato che il discorso pubblico si riempisse di luoghi comuni sempre più menzogneri, di princìpi dati per scontati ma sempre più inverosimili. Tutto questo, e altro ancora, all’insegna di una sovrana noncuranza per come stavano e stanno di fatto le cose, per il loro autentico svolgimento e significato.
Si indigna Galli Della Loggia nell’elencare i mali cronici, i cancri che minano dalle fondamenta l’Italia e gli italiani. A lungo, ad esempio, ci siamo raccontati che nella scuola e nella pubblica amministrazione la disciplina e la gerarchia non siano poi così necessarie; che si possa tranquillamente tollerare che un centinaio di individui blocchino un’autostrada o una stazione ferroviaria per qualunque ragione ad essi appaia come una buona ragione. Abbiamo accettato, voltando la testa dall’altra parte, che la magistratura italiana si autogovernasse con criteri di lottizzazione politica spietata, o che i reati economici godessero in pratica dell’impunità; che è normale che le decisioni dell’autorità centrale in materia di pubblica utilità (dai trasporti allo stoccaggio dei rifiuti o delle scorie nucleari) siano vanificate o si prolunghino all’infinito per l’opposizione di un qualunque microscopico Comune. Ci siamo raccontati che erano ottime delle privatizzazioni che invece sono state quasi sempre dei veri e propri regali a interessi privati; che le Authority servano a qualcosa, mentre per lo più sono ridotte a emanare grida manzoniane che lasciano il tempo che trovano. Ci siamo obbligati a credere che i soldati italiani (9.000, mentre scriviamo) debbano per forza assolvere missioni cosiddette di pace, anche se sono schierati in alcuni tra i luoghi più pericolosi e bellicosi della terra. Ancora oggi siamo pronti a scomunicare chi osi dire che l’esistenza delle Regioni si è risolta in un esborso immane di risorse a fronte di risultati vilissimi. Così come fingiamo che sia normale un livello di criminalità organizzata come quella che infesta le regioni del Sud, con metastasi diffuse altrove, e che il fenomeno possa andare avanti all’infinito. E così via, così via e ancora così via, in un vortice di conformismo pubblico che ormai è diventato una cappa micidiale.
Il fatto è che per rimettersi in moto l’Italia deve chiedersi a che punto è la sua lunghissima notte, e rispondersi con crudele franchezza. Il nostro Paese ha bisogno, prima ancora di qualunque programma, di una catartica operazione-verità. Se non la farà la politica, allora è molto probabile che l’“impolitica” monti come un’ondata inarrestabile e disgregatrice.

Non è che non si sia tentato di farla conoscere, in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni, la verità. Il dibattito sull’unificazione nazionale (punto di partenza di tutta la nostra storia moderna e contemporanea) come «conquista regia» (Dorso), «mancata rivoluzione agraria» (Gramsci), «Risorgimento senza eroi» (Gobetti), fu vanificato nella prima parte del Novecento (perché «storiografia degli agronomi o dei giornalisti») da Croce, da Omodeo, da Chabod, da Rosario Romeo, irriducibili difensori dello Stato unitario e del Risorgimento quale era stato storicamente possibile. E il tipo di nazione che quello Stato sottendeva si fondava (basta leggere “Cuore”, di Edmondo De Amicis) sul trinomio sangue-suolo-martirio: tre valori che noi stessi passiamo in second’ordine quando facciamo appello al Risorgimento e al dovere civico di commemorarlo e onorarlo, al loro posto preferendo altri e meno popolarizzati valori risorgimentali, quali la libertà, la Costituzione, la rappresentanza. Sono questi che dovremmo conoscere bene per liberarci da quegli altri, e per trovare le radici storiche dell’oggi. Oggi, appunto, non allora.
Metodologicamente, non fa una grinza, purché si dica che il discorso non riguarda l’epopea di quel tempo, ma il nostro presunto voler essere di oggi: un’Italia multietnica, multiculturale, non nazionale, globalizzata nei suoi miti fondativi e frammentata nelle sue cupidigie regionali. In nome (cioè col pretesto) di una storia eternamente incompiuta.
Del resto, il fenomeno della lettura fortemente negativa del Risorgimento non è proprio nuovo, visto che fin dal 1860 il ricordo degli avvenimenti che avevano portato alla nascita dello Stato nazionale fu caratterizzato da polemiche, conflitti, rotture. C’era un’Italia monarchica e ufficiale che considerava Casa Savoia protagonista principale e quasi esclusiva del Risorgimento, tanto da lasciare in ombra persino Cavour; c’era un’altra parte del Paese che criticava un’unificazione coincisa con la “conquista piemontese” del resto d’Italia e identificava il vero Risorgimento, l’unico degno d’esser celebrato, con l’azione di Garibaldi e dei democratici; c’era una parte della popolazione che, su posizioni cattoliche intransigenti, condannava in blocco il Risorgimento perché aveva sottratto al Papa i suoi territori, rendendo il Pontefice sostanzialmente prigioniero del nuovo Stato italiano; c’era infine il revanscismo borbonico, che condannava “l’invasione” e la guerra non dichiarata, il plebiscito fasullo, le manovre dell’Inghilterra e della Libera Muratoria, le stragi anti-insorgenze, le rapine fiscali, la coscrizione obbligatoria e quant’altro.
Per la verità, già dagli anni Ottanta dell’Ottocento si era affermata (si pensi sempre al De Amicis, e al tipo di narrativa che culminerà con “Il piccolo alpino”, di Salvator Gotta) una visione “conciliatorista” che mirava a smussare i contrasti tra le varie componenti della lotta per l’Indipendenza, presentando la nascita dello Stato italiano come il prodotto dell’azione di Cavour ma anche di Garibaldi, di Vittorio Emanuele ma anche di Mazzini. Ma non per questo cessarono i conflitti sulla memoria, come del resto rivelarono le manifestazioni, le violenze e persino gli scontri delle folle con la polizia – ad esempio – nel 1909, cioè nel Cinquantenario della Seconda guerra di Indipendenza. Contese che proseguirono, con nuove forme, durante la Grande Guerra e il ventennio fascista. Per subire, dopo il 1945, una mutazione decisiva. Nonostante si sostenga spesso che, grazie alla Resistenza, il sentimento di appartenenza nazionale rinacque, e con esso si rivitalizzò anche l’eredità del Risorgimento, quel che accadde allora fu esattamente il contrario. Grazie all’appropriazione-distorsione che il fascismo aveva fatto di quell’eredità (separando l’idea di Patria da quella di libertà), ma anche grazie all’affermazione nel Secondo dopoguerra di partiti-chiesa (la Dc e il Pci), fortemente ideologizzati e sostanzialmente estranei alla tradizione risorgimentale, la Repubblica nasceva da una cesura rispetto a quella tradizione. «L’Italia come grande Stato nazionale ereditato dal Risorgimento è stata distrutta», osservava Ugo La Malfa nel 1943. Né forse dovremmo sottovalutare il fatto che, con la sconfitta della monarchia nel referendum del 1946, scompariva uno dei soggetti-cardine di cui fino ad allora la memoria del Risorgimento si era alimentata.

Le dispute su quella memoria sarebbero durate ancora per qualche anno, soprattutto in occasione di “Italia ‘61”, cioè delle celebrazioni per il Centenario dell’Unità, quando gli argomenti del principale partito al governo, la Dc, alterando non poco la verità storica, presentarono il Risorgimento come incontro fra l’Italia cattolica e il movimento nazionale. Lo denunciò fra gli altri, sul “Mondo”, Mario Pannunzio, rappresentante di un’Italia liberaldemocratica – questa, sì, vera erede del Risorgimento – che si trovava ad essere ormai una minoranza. Ma fu l’ultima volta che ci si divise seriamente (e duramente) sull’eredità risorgimentale: la “grande modernizzazione” dell’epoca del cosiddetto miracolo economico, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, stava cambiando radicalmente anche il panorama mentale del Paese, imponendo un lessico e dei valori tutti improntati al progresso, alla modernità, al futuro. Da allora, l’eredità del Risorgimento, più che essere oggetto di memorie in conflitto, tenderà a farsi sempre più sfocata, debole, incerta. Già nel 1961 lo storico Rosario Romeo, paragonando le celebrazioni del Centenario con quelle del Cinquantenario, osservava che nel 1911 la tradizione risorgimentale era apparsa ancora «operante come viva realtà ideale e morale», mentre nel 1961, «sotto la cornice grandiosa delle manifestazioni ufficiali», si percepiva «un certo senso di distacco non solo delle masse ma anche delle classi colte e dirigenti».
Dai giorni in cui Romeo scriveva queste parole è trascorso mezzo secolo. Che oggi le “masse” e le “classi colte e dirigenti” possano guardare con interesse e partecipazione alla tradizione del Risorgimento è cosa alquanto improbabile. Rispetto alla lunga stagione del “Risorgimento conteso”, la peculiarità dell’Italia attuale è che sono ricomparse delle memorie antirisorgimentali veicolate dall’antiunitarismo della Lega, una ripresa su larga scala delle antiche recriminazioni sul “saccheggio del Sud”, e infine non poche pulsioni antirisorgimentali del mondo cattolico vicino a Comunione e Liberazione. E a queste inclinazioni non sembra contrapporsi qualcuno ancora interessato a considerare la nascita dello Stato nazionale come qualcosa proprio da non buttar via: non nel mondo politico o nella società italiana, ma neppure nella scuola, dove la “novecentizzazione” della Storia introdotta poco fa ha reso quasi impossibile una conoscenza adeguata del Risorgimento.
Dal 1961, dunque, è cambiato il colore del cielo e della terra. All’epoca a Torino, per il Centenario, si organizzarono la Mostra Storica dell’Unità Italiana, la Mostra delle regioni italiane, L’Esposizione Internazionale del Lavoro, «per illustrare sul piano mondiale il vertiginoso progresso economico e sociale e l’evoluzione del lavoro umano nell’ambiente nel quale esso si svolge». E per l’Esposizione venne edificato addirittura un quartiere, “Italia ‘61”, a sud della città, in una zona bonificata sulle rive del Po. L’evento richiamò più di quattro milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo. Le attrazioni principali furono la monorotaia Alweg, il Cinerama, sistema di proiezione cinematografica a 360° della Walt Disney (con le bellezze del paesaggio, delle città, dei monumenti, delle antiche glorie e delle moderne industrie della Penisola: mille metri di pellicola commentati da Indro Montanelli); la funivia che passava sopra il Po, collegando il Parco del Valentino con il Parco Europa, (subito dopo obsoleta, per gli alti costi e perché non si sapeva dove riattivarla); sessanta ovovie colorate (oggi vintage); e poi gli edifici costruiti per l’occasione, come il Palazzo del Lavoro e il Palazzo a Vela (assurto a simbolo dell’Italia unita e proiettata nel futuro, e poi abbattuto senza misericordia).
Un’euforia che si fatica a trovare oggi. Si sa che le celebrazioni dovranno ruotare essenzialmente attorno alle tre capitali (Torino, Firenze, Roma), e in questo scenario sono stati approvati alcuni progetti. Poi è venuto fuori lo slogan «meno cemento, più idee». Sono emerse idee su idee, molte e confuse. I vecchi programmi saltano di giorno in giorno. Autorevoli membri del Comitato di garanzia, a cominciare da Carlo Azeglio Ciampi, si sono dimessi. I leghisti strillano contro la retorica italiana e gli sprechi che comporta. Il leghista Zaia non si stanca di predicare che il Veneto si svena per mantenere il Sud.

Stando così le cose, quali verità potevano esser dette? Quale Storia si poteva scrivere? Le versioni canoniche dei vincitori e le stesse agiografie risorgimentali forse hanno contribuito a tener legate le varie e centrifughe Italie nel corso del secolo e mezzo trascorso dal 1861. Ma è un fatto che, malgrado i tempi lunghissimi che ci separano da quell’anno, i conflitti siano rimasti, giunti fino a noi per sanguigni percorsi carsici. Ciò perché c’è un’Italia che davvero dev’esser nata come miracolosa violenza al corso “naturale e preordinato” della storia europea, e dunque per irripetibile partenogenesi determinata dalle memorie della civiltà, della cultura, della lingua, dell’arte, della musica, e in ultima analisi da tutto ciò che informa e plasma lo Spirito, non progetta o realizza un Principato.

Questo è il peccato originale. Che poi si è risolto in una crepa che solca il palpabile confine tra Penisola europea e Penisola mediterranea, intese non come sorgenti di reciproco arricchimento ma come territori che si fronteggiano per la vita o per la morte, col Sud che, pur avendo illuminato il mondo, dall’insipienza della politica e della politica economica anche in quest’alba del Terzo Millennio è incredibilmente costretto all’autodifesa, con i suoi sterili lamenti e con le energie mortificate, con le intelligenze condizionate e con la materia grigia svilita, con l’antropologia umana per tanta parte ancora lazzarona e ristretta nell’assistenzialismo e col brigantaggio vero, (quello in doppiopetto, che rastrella in un complice Sud per investire in un consapevole Nord), mai eradicato. Et pour cause...
Un salutare bagno di verità, ad ogni costo: è quel che può aiutarci a venir fuori da una dimensione umana dimezzata dal fatalismo, dall’ideologia della rendita assistenziale e dai callidi mestieri di sopravvivere. Verità sul passato nostro, di tutti quanti, senza più scuse o attenuanti; verità sulle intenzioni nostre, di tutti quanti, senza più ambiguità o zone d’ombra.

Noi sappiamo da dove veniamo, conosciamo la vicenda del Sud dopo l’unificazione, abbiamo letto delle speranze tradite, dei cuori alla macchia, della legge delle baionette, delle mille nostre morti e resurrezioni, delle mille nostre rivolte effimere e rese senza condizioni. Tutto questo lo sanno anche gli altri italiani, i subalpini contigui all’Europa, protetti da sistemi politico-economici nemici dell’immobilismo, garantiti nelle loro progettualità, comprese quelle organiche al perseguimento accanito di uno sviluppo duale, strategicamente sbilanciato, e dunque poco propensi alla solidarietà.
Noi sappiamo davvero da dove veniamo, e sappiamo quanto siamo riusciti a fare – malgrado tutto – in questo secolo e mezzo di Unità, che unità realmente non è stata, e di sviluppo, che è stato progressivo solo per l’altra Italia. Vogliamo capire, perciò, dove si vuole andare a parare. Se cioè certe forze politiche nazionali e territoriali intendano tirare la corda fino alla Disunità, magari tatticamente facendola reclamare dal Sud per ragioni di una sua pura e disperata sopravvivenza, e prendendo al volo l’occasione di mandare alla deriva l’Italia mediterranea ritenuta un peso morto, irrecuperabile, condizionante, ribaltando l’accusa di “sfascismo”. Abbiamo il diritto di capire se l’Italia voglia giocare le carte per entrare tutta intera nel futuro, oppure se intenda mettere in atto un’altra partita. Al di là delle manifestazioni esteriori, questo è il modo più propositivo di celebrare la ricorrenza dei 150 anni.

Si racconta che neo-borbonici e neo-guelfi dicano “male di Garibaldi” per piegare la realtà del passato alle logiche del presente, che sarebbe come voler coniugare le meraviglie della Storia con le paccottiglie della polemica. Così fosse, la pochezza del discorso culturale sarebbe tutta contenuta nel pensiero volatile – forse, e meglio, nella latitanza di pensiero – del garzoncello scherzoso Renzo Bossi, “trota” per paterna definizione, in attesa di una qualche miracolosa metamorfosi in delfino. Invece, la scommessa è un’occasione per pagare un pedaggio minimo alla retorica, ma soprattutto un tributo massimo alla ragion critica.
È stato scritto che i limiti storici della spedizione dei Mille sono ugualmente indiscutibili dei suoi meriti. Dopo il 1860, lo slancio democratico delle camicie rosse di Garibaldi si infranse subito contro la realpolitik sabauda, che trasformò gli “eroi di Marsala” in “sovversivi” schedati dalla polizia. Ma il movimento garibaldino implose anche dall’interno, e la mutazione di alcuni da rivoluzionari in moderati (uno per tutti, Crispi) diede primo alimento al fenomeno, diventato poi proverbiale, del “trasformismo” politico. Soprattutto, dopo la rapida (frettolosa?) epopea semestrale dei Mille, il Sud fu “pacificato” con la nota repressione militare, rifilata dagli storici di servizio come lotta al brigantaggio, mentre fu vera, terribile, spietata guerra civile.
L’Unità fu battezzata col sangue non solo della manciata di garibaldini partiti dallo scoglio di Quarto, ma anche dalle molte migliaia di ex soldati borbonici, di renitenti alla leva, di semplici contadini delle campagne meridionali che caddero dal 1861 al 1867 sotto i colpi del regio esercito: trauma originario della nascita dello Stato italiano, che i dolciastri slogan odierni sulla “memoria condivisa” non riescono a cancellare; trauma che va ricordato con altrettanta enfasi di quella con cui si richiamano alla memoria tutte le cose buone che i garibaldini traghettarono verso la Sicilia e verso il Sud: un sistema politico costituzionale; una scuola laica, obbligatoria e gratuita; un’idea e una pratica del libero mercato; un programma di infrastrutture moderne. Fu un vulnus, quello della “lotta al brigantaggio”, che si sarebbe solo in parte rimarginato cinquanta e più anni dopo, ma al prezzo di un’altra carneficina: il sacrificio di una massa enorme di contadini e di artigiani meridionali nelle trincee delle Dolomiti e del Carso, cioè nell’inferno della Prima guerra mondiale. Fu una ferita che ha contribuito – i tempi della Storia sono lunghi, e a volte sorprendentemente lunghissimi – a spiegare le difficoltà strutturali incontrate dallo Stato nel controllo del territorio meridionale, in Sicilia, in Calabria, in Campania. E fu una ferita cui la storia del Novecento avrebbe tanto più faticato a porre rimedio, paradossalmente, in quanto il tragico lavacro di una nuova guerra civile (quella del 1943-45) investì l’Italia del Centro-Nord, ma risparmiò il Sud, sottraendo alle regioni meridionali, insieme con l’epos della Resistenza (che comunque nacque a Napoli, con le Quattro Giornate) anche l’ethos della rinascita della Patria.
Così, (ma i ”padani” stentano a capirlo) non c’è proprio bisogno di essere leghisti, né di sentirsi filo-borbonici o nostalgici degli Stati e Legazioni pontificie, per chiedere all’anniversario della spedizione dei Mille e al 150° dell’Unità di valere da memento critico piuttosto che da momento retorico. Commemorare tutto questo oggi può e deve servire da promemoria dell’incompiuto almeno altrettanto che da celebrazione del realizzato. Per ricordare come nell’Italia dell’ultimo secolo e mezzo il processo di costruzione dello Stato sia stato intralciato da una concezione privatistica della cosa pubblica che ancora riconosciamo ai vertici delle nostre istituzioni, e che è totalmente estranea sia alla generosità degli ideali garibaldini sia alla qualità del modello cavouriano. E per ricordarci come, nel secolo e mezzo trascorso, il processo di costruzione della Nazione abbia risentito di spinte e controspinte variamente virtuose o viziose, comunque irriducibili alla logica anglosassone del «right or wrong, my country».
È l’esito di una Storia che, dalla “civiltà” dei Comuni, si proietta nel richiamo dei mille campanili, delle tante capitali, delle alterne seduzioni dell’internazionalismo, nella stessa dinamica dell’integrazione europea.
Infine, commemorare nel nome della ragion critica può e deve servire a ricordarci il grande perdente (con Mazzini) dell’Italia dell’epoca: Carlo Cattaneo. Sarebbe assurdo, oggi, consegnare tale e quale il pensiero del maggiore intellettuale italiano di metà Ottocento alle armi improprie e ai bagagli malmostosi della Lega. Il federalismo è una cosa seria: tanto più seria, in quanto – rifletteva Cattaneo – appare connaturato a certi caratteri originari della storia italiana. Ecco: gli anniversari servano anche, e finalmente, a discutere di questo. Là dove si trova, lo Spirito di Cattaneo merita infinitamente di più e di meglio che l’eredità politico-culturale del separatismo.

   
   
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