Giugno 2010

il sud che non decolla

Indietro

Quarto capitalismo
inchiodato ad Eboli

Flavio Albini - Ennio De Mitri

 
 
 

 

 

 

 

 

Tempi persi.
È come se dieci anni di lenti e faticosi tentativi di recuperare la distanza dal resto d’Italia siano stati cancellati.

 

 

Nello Wrona

Si dice che il “quarto capitalismo” oggi sia la spina dorsale del Paese. E sarà certamente così. Ma è certo che al Sud latita. E quando c’è, è un po’ strano.
Se teniamo conto dell’ultimo Rapporto redatto da Mediobanca e da Confindustria, notiamo che è presa in esame la parte “bassa” di questo tipo di capitalismo: le medie imprese, che in tutta Italia nell’ultima rilevazione (2006) erano 4.345. Imprese di buona qualità. Ma come sono distribuite sul territorio? Qui è il nocciolo della questione: la grandissima maggioranza, cioè l’80 per cento, è dislocata in quel territorio che viene definito come Nec+Lombardia (Nec significa Nord-Est+Centro). In altre parole, tutto quello che sta dalle Marche in su (Tri-Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e, appunto, Marche), con l’esclusione del Piemonte e della Liguria. In queste due ultime regioni c’è complessivamente il 10 per cento delle medie aziende italiane. Un altro 2 per cento si trova nel Lazio. Il rimanente 8 per cento sta nel Mezzogiorno. In sostanza, nel Sud ci sono 364 medie imprese (che scendono a 347 se si considerano i gruppi, cioè quelle che sono riunite insieme sotto un unico proprietario).
E già qui si coglie una profonda differenza fra Nec+Lombardia e il Mezzogiorno: in pratica, ogni dieci aziende presenti nella prima area, ne abbiamo una sola nel Sud. E se questa è la parte più dinamica del mondo produttivo italiano, la discrasia una a dieci è davvero grande. E si deve anche aggiungere che queste medie imprese meridionali sono di fatto concentrate in tre sole regioni: Campania, Abruzzo e Puglia.

E qui, se si vuole entrare un po’ nel merito, si evidenzia un fenomeno abbastanza positivo: fra il 1998 e il 2007 (dieci anni) l’export delle grandi imprese italiane è aumentato di quasi il 68 per cento e quello delle medie imprese di quasi il 65 per cento. Ebbene, nel Sud nello stesso arco di tempo si ha invece una vera e propria esplosione: le medie imprese meridionali hanno aumentato l’export del 127 per cento; e ancora di più stanno facendo le grandi imprese. Quasi il doppio di quel che ha fatto il Nord del Paese.
La spiegazione sembra abbastanza semplice: le medie imprese del Sud sono partite dopo, e stanno cercando di recuperare rapidamente terreno. Una volta soddisfatto il mercato locale (o quello nazionale), diventa naturale andare alla ricerca di quello estero. E per aziende “giovani” questo avviene con un maggiore intensità e più forza.
In realtà, a conti fatti, per quanto riguarda l’export le imprese del Sud sono ancora abbastanza indietro. Nel loro complesso, infatti, esportano soltanto il 22,5 per cento del loro fatturato. Nel Nord-Est, ad esempio, siamo invece al 36,3 per cento.
Con veri e propri abissi di differenza per quel che riguarda alcuni settori: come nella meccanica, dove il Nord-Est esporta il 46,8 per cento della produzione, mentre nel Sud si arriva appena al 22 per cento. Invece nel comparto dei beni per la persona e la casa il Sud esporta ormai il 30,1 per cento di quello che produce, mentre il Nord-Est è solo poco più sopra (40 per cento).

Per capire meglio come stanno realmente le cose, si devono analizzare altri dati, quelli sul “tasso di imprenditorialità”. In sostanza, occorre andare a vedere quante imprese ci sono nelle varie regioni italiane ogni mille abitanti. E qui scatta la sorpresa più grande. Se in Lombardia abbiamo 85 imprese ogni mille abitanti, e nel Nord-Est addirittura 97, nel Mezzogiorno siamo comunque a 83, e in Abruzzo si arriva addirittura a 100, dato superiore sia al Nord-Est che alla Lombardia. Insomma, differenze annullate: nel Sud c’è la stessa capacità imprenditoriale del Nord, e, in qualche caso, è persino superiore. Ecco un luogo comune italiano (il Nord più intraprendente del Mezzogiorno) che viene azzerato, e a volte ribaltato.
Si può fare una lettura dei dati più sofisticata, sempre per vederci chiaro. Allora ci si accorge che il numero di imprese manifatturiere ogni mille abitanti nel Nord è pari a 11, e in Lombardia a 12, mentre nel Sud è pari a 6, esattamente la metà.
L’analisi è molto semplice: nelle regioni meridionali c’è una fioritura di imprese certamente rilevante, ma si tratta in gran parte di terziario, di servizi. E, forse, con una seconda differenza rispetto al Nord: mentre nelle aree Nec+Lombardia il terziario ormai presenta caratteristiche di modernità (consulenze, assistenza legale, pubblicità diffusa, ecc.), nel Sud il terziario è ancora sostanzialmente di tipo tradizionale. Il problema di fondo, allora, resta questo: al Sud ci sono molte imprese, ma queste si differenziano da quelle “nordiste” sotto il profilo della qualità.
Un altro dettaglio interessante riguarda la situazione finanziaria del mondo imprenditoriale del Sud, che è piuttosto fragile. Se si calcolano i debiti finanziari in rapporto al capitale circolante netto, si vede che, mediamente, nel Nord-Est abbiamo un rapporto del 54,3 per cento, mentre nel Sud siamo al 74,9 per cento. In termini meno tecnici, ciò significa che nel Nord-Est la metà del denaro che occorre per far funzionare l’azienda è fornito dal sistema bancario; nel Sud questa percentuale sale al 75 per cento: tre quarti del denaro destinato al funzionamento delle aziende è fornito dalle banche, grazie alle quali è possibile mantenere posti di lavoro, impieghi, produzioni, commerci interni, export.

Va segnalato infine un ultimo aspetto. È stato calcolato, per le diverse aree regionali, dove le imprese hanno aperto le nuove unità locali (vale a dire i nuovi stabilimenti o uffici): se dentro la stessa area oppure fuori. Ed è stata notata una costante.
Le medie imprese, di norma, preferiscono stare in casa propria. Questo fatto diventa maniacale, ossessivo, per quel che riguarda le aziende del Nord-Ovest, che dal 2000 al 2005 hanno aperto nella propria area sostanzialmente tutte le nuove unità locali.
Ed è invece abbastanza normale nel Nord-Est, dove l’85 per cento delle nuove unità è stato aperto nello stesso Nord-Est, (il resto nel Nord-Ovest e nel Centro, con esclusione del Sud). Ciò verosimilmente perché un medio imprenditore preferisce muoversi sul territorio che conosce meglio e dove sa di poter trovare quello che gli serve, dall’assistenza ai fornitori qualificati ed esperti, oltre che altamente professionali e puntuali.

Questa regola, per quanto ovvia, non sembra valere per il Sud. Fra il 2000 e il 2005 solo l’1,1 per cento delle nuove unità locali aperte da medie imprese del Mezzogiorno è stato localizzato nelle stesse aree meridionali. L’imprenditore del Sud, appena può, va altrove, con le sue macchine e i suoi torni. Dove? Nell’ordine: nel Centro-Italia (56 per cento delle nuove unità locali “sudiste”), nel Nord-Est (27 per cento) e persino nel Nord-Ovest (15,7 per cento). Molto probabilmente questo accade perché quando un’azienda meridionale diventa grande, cresce, vende ed esporta bene, va a cercarsi un territorio dove sia più facile e più agevole produrre e fare affari.
L’analisi di questi dati è importante nella fase di superamento, sia pure lento e faticoso, della crisi che, colpendo ovunque, penalizza in modo particolare le aree deboli dei singoli Paesi. Le cifre correttamente interpretate, infatti, sono alla base delle azioni pubbliche e delle iniziative private che coinvolgono tali aree. Per quel che riguarda il Sud, o meglio, le zone d’ombra e le zone nere del Sud, la lettura delle altre rilevazioni rivelano che è in aumento la disoccupazione, specialmente quella giovanile e femminile; che cala la produttività; che anche il Prodotto interno lordo si è ridotto nel biennio 2008-2009 di circa mezzo punto in più rispetto al resto del Paese.
Ciò significa che la crisi economica ha accentuato la forbice tra le due parti dell’Italia: è come se dieci anni di lenti e faticosi tentativi di recuperare la distanza dal resto d’Italia siano stati cancellati, sostengono gli uffici studi di Confindustria e dell’Istituto per la promozione industriale, che parlano di vera e propria emergenza Sud, aggiungendo ai fattori di minore efficienza dei servizi pubblici la scarsità di infrastrutture e l’insufficienza di innovazione.
Certo, ci sono dati incoraggianti: quasi un quinto delle aziende meridionali ha reagito positivamente alla crisi, diversificando i mercati, migliorando i prodotti e introducendo, nel 50 per cento dei casi, innovazioni nelle strategie aziendali. Non solo: per quel che riguarda i giovani, va sottolineato che il numero degli studenti del Sud che si laurea ogni anno è più che raddoppiato, passando negli ultimi sette anni da 54 mila a oltre 118 mila. Altrettanto importante è il raddoppio dei laureati nelle discipline scientifiche, insieme con l’incidenza, in alcune regioni meridionali, per esempio la Campania, della spesa in ricerca e sviluppo rispetto al Pil: un’incidenza ormai allineata ai valori del Centro-Nord.

Tragici, come sempre, alcuni numeri assoluti. Nel 2009 ci sono stati nel Sud 194 mila occupati in meno. Meno lavoro, e anche meno produttività: il divario su quest’ultimo punto è pari a -16 per cento rispetto al Centro-Nord. Il Mezzogiorno riesce a contenere la distanza con il resto del Paese in termini di Pil pro capite (pari a poco meno di 42 punti percentuali) solo grazie al calo della natalità e alla ripresa dell’emigrazione, fenomeno che notoriamente impoverisce il Mezzogiorno soprattutto di forze giovani.
Gli indicatori di disagio economico mostrano che la povertà è significativamente più diffusa in tutte le regioni meridionali, raggiungendo i valori massimi in Sicilia e in Basilicata (28,8 per cento delle famiglie), rispetto a un dato medio del Centro-Nord di circa sei volte inferiore (5,4 per cento).
Colpisce, infine, il deterioramento del contesto civile, effetto di politiche pubbliche inefficaci. La maggior parte degli indicatori, dal funzionamento della giustizia alla qualità della Pubblica amministrazione, dal peso dell’illegalità ai ritardi nell’istruzione, sono inferiori alla media nazionale. Ad esempio: una causa di lavoro nel Sud dura 1.031 giorni, contro i 369 dell’Italia nord-occidentale. Il peso della criminalità impone al Sud un carico pro capite di reati di estorsione doppio rispetto al Centro-Nord: oltre 16 ogni 100 mila abitanti, contro 8.
Naturale che, di fronte a questi numeri, il Sud sia alla ricerca di una svolta, cioè di una forma di sviluppo complessiva e costante. È per questo che si sono mobilitati i sindaci del Mezzogiorno, dopo la diffusione di un manifesto con cui chiedono maggiori investimenti in infrastrutture e politiche nazionali a sostegno delle regioni meridionali. I comuni del Sud rivendicano il 38 per cento delle risorse nazionali, vale a dire la quota che spetterebbe al Mezzogiorno in proporzione alla popolazione, ma che oggi è inferiore, e insistono su un maggiore impulso alla lotta contro i cartelli del crimine, alla realizzazione di programmi di sviluppo credibili, alla dotazione di infrastrutture (come ad esempio autostrade, ferrovie, energia) che rappresentino un valido viatico all’occupazione. Se i comuni del Sud si impegnano a utilizzare in maniera più efficiente la spesa pubblica locale, uno sforzo analogo è chiesto alle regioni per i settori della sanità, del sociale e della gestione dei rifiuti.

Un capitolo a parte è quello del federalismo fiscale. Dicono i sindaci del Sud: –Non ne siamo preoccupati, purché sia impostato su princìpi di solidarietà e non di disparità fra Nord e Sud. È necessario guardare al gap infrastrutturale, per intervenire con particolare attenzione sui territori a minore capacità fiscale. Vigileremo affinché non ci siano deviazioni, facendo leva sulla conoscenza che abbiamo del Mezzogiorno e della macchina organizzativa. Con un avviso ai naviganti: saremo attenti soprattutto a verificare che siano mantenuti i patti anche sulle risorse, cioè che i fondi ordinari non vengano mai considerati sostitutivi di quelli straordinari –.

Altro nodo gordiano, il Patto di Stabilità, che i comuni hanno chiesto al governo di rivedere: – Così com’è non va bene, c’è bisogno quindi di una riflessione, senza cambiare la sostanza dal punto di vista delle risorse: la direzione non deve essere quella di aiutare i comuni a spendere di più, ma di indirizzarli a spendere meglio i soldi che hanno –.
Tra le regioni che hanno un Prodotto interno lordo al di sotto del 75 per cento della media Ue, cioè il tasso che dà diritto ad aiuti europei più consistenti (Fondi strutturali obiettivo convergenza), in Italia figurano la Calabria (65,8 per cento), la Campania (65,9 per cento), la Sicilia (66,0 per cento), e la Puglia (66,8 per cento). Al limite, (col 75,1 per cento), è la Basilicata.
In ambito Ue, la regione con il Pil pro capite più basso è la bulgara Severozapaden, con un 26 per cento. Lo rileva Eurostat, l’Ufficio europeo di statistica, che ha reso noto l’ultimo aggiornamento dei dati (2007) relativi al Pil per abitante espresso in standard di potere d’acquisto di 271 regioni europee.
In Italia, Lombardia e Provincia di Bolzano si confermano i territori più ricchi, ma al top in Ue restano Londra e il Lussemburgo. La regione più povera nel nostro Paese è la Calabria, seguita dalla Campania e dalla Sicilia, ma in questo caso la radiografia di Eurostat indica situazioni decisamente peggiori in molte regioni della Bulgaria, della Romania e della Polonia.
Considerando pari a 100 la media Ue-27, i dati indicano per Londra un Pil per abitante pari al 334 per cento, mentre la Lombardia, che pure è la più ricca in Italia, si ferma al 134,8 per cento, pochissimo sopra il 134,5 per cento di Bolzano. Terzo posto per l’Emilia-Romagna (128,0 per cento).
Nessuna regione italiana è tra le venti considerate al top: dopo la capitale britannica e il Lussemburgo, ci sono Bruxelles Capitale (221,0 per cento), Amburgo (192,0 per cento), Praga (172,0 per cento) e la regione francese dell’Île de France (169,0 per cento), che comprende Parigi.

 

 

 

Un salutare bagno di verità, ad ogni costo:
è quel che può aiutarci a venir fuori da una dimensione umana
dimezzata dal fatalismo, dall’ideologia della rendita
assistenziale e dai callidi mestieri di sopravvivere.
Verità sul passato nostro,
di tutti quanti, senza più scuse o attenuanti...

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2010