Giugno 2010

RADIOGRAFIA DEL SETTORE PRIMARIO

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Kilometro zero

Monica Marano
Franco Spasiano
Marcello D'Orazio

Coll.:
Elena Marangiu
Antonio Sarti
Eugenio Venditti
 
 

 

 

 

Nello Wrona

Cominciamo guardandoci intorno, e guardando negli occhi coloro i quali se la prendevano con chi non riusciva a risolvere i problemi dell’Italia e del Sud, e per questo si tiravano in ballo confronti che – alla lunga – hanno mostrato la corda. Per dire: ora tutti si rimangiano le lodi a Zapatero, che è stato messo a nudo dal suo bluff spagnolo che, fino a un anno fa soltanto, aveva invaghito l’intellighenzia italiota. E nessuno di costoro fa più ironia per l’Irlanda, che per un decennio è stata portata come esempio di sviluppo trionfale, mentre noi languivamo. La Grecia, poi, truccava i conti, e lo abbiamo scoperto, vergognandoci un po’. Il Portogallo non poteva fare, e non ha fatto, miracoli. E l’Inghilterra, tanto per cambiare, dall’alto della sua boria continua ad esercitarsi in freddure non proprio eleganti sui Paesi dell’Europa, Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna, (definiti Pigs per via delle loro iniziali, ma da tradurre senza esitazione in “maiali”), dimenticando che è stata proprio Londra la prima a far saltare una banca e a dare uno spintone decisivo alla valanga del crack finanziario globale.
La confusione è stata grande. I danni lo sono stati ancora di più. E il Mezzogiorno italiano ha pagato un prezzo alto, e continuerà a pagare ancora di più.
Sorprende dolorosamente che nessuno apra bocca su questo tema, che nessuno ci presenti i dati reali della situazione, che nessuno ci racconti come stanno le cose. In gran parte, la gravità della crisi meridionale è stata occultata ed edulcorata da un sistema di ammortizzatori sociali che allo stato delle cose appare allo stremo. E il peso della disoccupazione, con il conseguente calo dei consumi, è un’incognita cui nessuno è sicuro di riuscire a far fronte: nelle regioni del Sud, sul fronte del lavoro, sono in arrivo un’estate e un autunno terribili. Con la minaccia di chiusura dei pochissimi grandi stabilimenti industriali sopravvissuti, l’economia meridionale rischia di andare letteralmente in frantumi.
Va subito chiarito che serviranno a poco, per fronteggiare la crisi, le promesse fatte circolare in questi ultimi mesi. La gran bandiera della moralizzazione e della buona amministrazione viene puntualmente inalberata ad ogni scontro politico. E c’è da sperare che, questa volta, qualcuno la consideri e rispetti sul serio. Ma ciò di cui oggi c’è assoluto bisogno è un nuovo modello di sviluppo, comune a tutte le regioni a sud della linea Gustav. Detta così, sembra una meta astratta e abbastanza impraticabile. Ma senza una simile visione, senza un simile progetto, la temperatura sociale andrà in tilt in ogni angolo del Sud. E allora non ci saranno più innocenti.

Dunque, siamo alla venticinquesima ora, e qualche risposta decisiva dobbiamo darcela tutti. La prima riguarda la lotta ai cartelli del crimine organizzato, al loro sottosuolo criminogeno, alle complicità economiche e politiche che li hanno protetti, ai giganteschi arricchimenti illegali, ai danni incalcolabili creati impunemente e senza soluzione di continuità allo Stato, cioè a tutti noi, fino a prova contraria cittadini di questo fragile Stato. Nella stessa direzione deve andare una riforma degli incentivi quasi sempre “a pioggia”, (sono state censite ben 1.307 misure di agevolazione finanziaria, 1.216 delle quali facenti capo alle Regioni), che hanno avuto conseguenze negative per le stesse imprese, visto che non sono stati in grado di promuovere l’innovazione, ma piuttosto hanno provocato assuefazione e dipendenza dall’aiuto pubblico, hanno spinto all’assistenzialismo e al clientelismo, favorendo quella pervasività della politica nella società meridionale che costituisce un ostacolo potente alla crescita di attività solide, in grado di stare autonomamente sul mercato.
Occorre poi la riqualificazione del contesto ambientale in cui operano le imprese, e in cui sarebbe opportuno concentrare le risorse: costi e tempi delle procedure amministrative, infrastrutture e servizi, formazione, giustizia credibile.
È stato rilevato che in un’economia globalizzata, anche il Sud – che è parte rilevante di un Paese avanzato – non può svilupparsi e competere senza far crescere innovazione ed economia della conoscenza: il che richiede non incentivazioni individuali, ma promozione di reti di collaborazione efficaci tra le imprese, e tra queste e le università, purché siano sostenute da valide infrastrutture e da efficienti servizi.
Ora, da un po’ di tempo si segnala che in varie parti del Sud è cresciuta, sia pure a fatica, un’imprenditorialità innovativa, giovane, istruita, e con una presenza femminile non trascurabile. Ciò è stato possibile spesso grazie ad esperienze di collaborazione capaci di superare l’isolamento, che ha sempre ostacolato lo sviluppo del Mezzogiorno. È tra questi soggetti che si manifesta con più forza la voglia del cambiamento.

E infatti. Prendendo ad esempio il settore dell’agricoltura, che è quello tradizionalmente più disastrato nelle regioni meridionali, alcuni esempi sono davvero emblematici. Si sono chiamati Gta (Gruppo trasversale di agricoltori): sono 5.600 aziende medio-grandi, fuori delle organizzazioni tradizionali, che riuniscono agricoltori e allevatori diversi, per lo più giovani. Hanno un comune punto di aggregazione: quello di “sognare l’impossibile”, e cioè ottenere dalla politica attenzione nei confronti di un settore, come quello agricolo, strategico per l’economia e l’occupazione, ma in realtà messo da parte dalla politica economica.
Nel settore primario la crisi degli ultimi due anni è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso con i suoi prezzi in caduta e la redditività delle aziende a picco. Un disastro che rischia di essere messo in ombra da quello più in evidenza dell’industria, ma che potrebbe avere conseguenze ben più pericolose, perché tocca i nervi più sensibili come l’approvvigionamento e l’autonomia alimentare del Paese. E che è ben noto alle forze politiche italiane.
In un Rapporto di Confagricoltura al ministero delle Politiche Agricole a fine 2009 si traccia un bilancio allarmante: tra il 2000 e il 2009, a fronte di un calo dello 0,8 per cento dei prezzi all’origine dei prodotti agricoli, gli agricoltori hanno dovuto sopportare un aumento del 26,8 per cento dei prezzi dei mezzi di produzione. Il reddito reale per addetto in agricoltura tra il 2005 e il 2007 nei ventisette Paesi europei è cresciuto del 7,7 per cento, mentre in Italia è sceso del 12,1 per cento. Nel solo 2008 nell’Europa a 15 è sceso dello 0,2 per cento, ma in Italia del 18,9 per cento.
La competitività dei prodotti italiani, di fronte a una concorrenza sempre più agguerrita, ha rivelato segni di cedimento anche in settori una volta forti come quelli dell’ortofrutta e del vino. L’ultimo Rapporto di Nomisma sull’agricoltura rileva che l’export alimentare sta perdendo quota: nel 2008 è tornato allo stesso livello del 2000. Quasi tutti i settori ne sono stati coinvolti: vino, cereali, olio. Tra i principali competitori europei – dice Nomisma – l’Italia non solo presenta il valore aggiunto per addetto più basso (19.600 euro, contro i 26.000 della Spagna e i circa 55.000 dei Paesi Bassi), ma denota anche una perdita di competitività: mentre le imprese agricole degli altri Paesi europei hanno ottenuto performance reddituali in crescita, le italiane sono rimaste al palo.
Le ragioni di questa crisi affondano le radici in terreni lontani nel tempo e in una polverizzazione produttiva molto accentuata, spesso con aziende a gestione accessoria più che propriamente imprenditoriale. A questo si aggiunge un settore che è stato storicamente considerato come un comparto da sovvenzionare per tutelare l’occupazione, più che un campo strategico dell’economia, come avviene negli altri Paesi europei che lo difendono a livello nazionale e continentale.
In un universo che, nell’insieme della filiera agroalimentare, “produce” l’8,4 per cento del Pil (ma si sale al 15 per cento con l’indotto) e assorbe il 12 per cento dell’occupazione, nella sostanza si è teso sempre a difendere i piccoli, per ragioni politiche, e un po’ economiche.
Per fortuna, anche all’interno di un contesto molto parcellizzato esiste un settore dinamico di imprese di dimensioni più grandi che risultano essere strutturalmente competitive, più di quelle francesi e spagnole, in linea con quelle tedesche. Ed è qui, nel modo di considerare l’agricoltura, nei provvedimenti da studiare per esse, nella sua rilevanza nella politica economica nazionale, che si è aperta una prima faglia tra governo e organizzazioni rappresentative.
Negli ultimi tempi è stato tutto un promettere iniziative, compresa quella della difesa a spada tratta del made in Italy. Supporto importante, intendiamoci. Ma il made in Italy potrà sopravvivere solo se sarà sostenuto da produzioni agricole competitive e da aziende che possono avere dei ritorni della loro attività imprenditoriale. Altrimenti resteranno dei marchi fini a se stessi, e non ce ne faremo nulla, perché saranno privi di ricadute economiche e occupazionali.
È indispensabile una politica che consideri il settore primario alla pari di tutti gli altri e che progetti, oltre ai necessari interventi anti-crisi, anche infrastrutture logistiche, agevolazioni negli investimenti, contenimento dei costi previdenziali e fiscali. E che non veda spostare, quando si è trattato di cercare gli ammortizzatori sociali per la solita Fiat, 500 milioni di euro dei contratti di filiera destinati all’agricoltura, e in gran parte a quella meridionale, ai fondi per la cassa integrazione.
Riforma della burocrazia, provvedimenti per aumentare il potere di contrattazione nei confronti della grande distribuzione come la fissazione di prezzi minimi e tempi di pagamento decenti, reciprocità tra la possibilità di esportare i nostri prodotti e il trattamento che Paesi, anche europei, adottano nei confronti delle nostre produzioni, riduzione degli oneri fiscali: sono questi alcuni punti rilevanti di chi progetta “un sogno possibile” valido per i “trasversali”, ma anche per tutti coloro che dedicano ancora oggi alla terra il loro lavoro e affidano alla terra il loro futuro.

Lecce, ottobre 2009, convegno Confederazione italiana Agricoltori. I dati denunciati: concimi +45,8 per cento; gasolio +9,7 per cento; energia elettrica +12,5 per cento; sementi +2,3 per cento; antiparassitari +3,1 per cento; mangimi +2,4 per cento; oneri sociali/assicurazioni +25,2 per cento.
Queste percentuali illustrano meglio di ogni altro discorso «la drammatica emergenza dell’arcipelago agricolo», con un trend di crescita costante dei costi che «incide nella gestione aziendale in media tra il 60 e l’85 per cento». E se a tutto questo si aggiungono il drammatico crollo dei prezzi agricoli all’origine e l’incremento degli oneri previdenziali (in poco più di due anni, dal 2007 a metà 2009, sono cresciuti del 25,7 per cento), si capisce bene perché solo nel 2008 più di 25 mila aziende sono andate fuori mercato, mentre nei prossimi anni il numero delle imprese che potrebbero chiudere i battenti potrebbe decuplicarsi e raggiungere quota 250 mila.

(A corollario, un esempio riferito da Aldo Forbice: «Vi racconto una storia esemplare di disperazione. Parlo di due fratelli, giovani imprenditori, che da dieci anni dirigono un’azienda agricola a Sparanise, in provincia di Caserta, del valore di oltre 4 milioni di euro. I due, in una lettera inviata al presidente del Consiglio (all’epoca, Romano Prodi, n.d.r.) si dichiarano pronti a regalare la loro azienda in cambio di due posti di lavoro nella pubblica amministrazione. «Non ce la facciamo più, siamo sopraffatti dai soprusi e dai ricatti della camorra, indebitati con le banche perché i nostri prodotti ortofrutticoli di qualità non reggono la concorrenza di quelli stranieri. Non riusciamo a trovare manodopera a costi compatibili con i prezzi di vendita. In pratica, ci rimettiamo e siamo costretti a ricorrere sempre di più ai prestiti bancari. Nessun aiuto dalle istituzioni e dalle associazioni di categoria». Cosa rispondere? Ma il presidente della Regione, i sindaci di quella provincia, lo Stato, dove sono?»).

Per la prima volta nella nostra storia economica, per via delle massicce e continue importazioni di prodotti agricoli e zootecnici da Paesi comunitari ed extracomunitari, il mercato interno ha raggiunto la saturazione. Un mercato che sembra impazzito, mentre la domanda ricorrente è: – Chi coltiva più? –. Mentre c’è chi incrocia le braccia e smette di seminare.
«Più lavori, più ci rimetti», sostengono ovunque nella Penisola. Patate a Lecce, che una volta si esportavano persino in Germania, al capolinea di Monaco di Baviera: oggi quasi nessuno le raccoglie più, un operaio costa più di quanto può rendere nel rapporto tra quantità di raccolto e vendita di quella stessa quantità.
Anche se offerti a prezzi fallimentari (120 euro a tonnellata franco partenza per orzo e grano tenero, e 180-190 euro a tonnellata per grano duro), non si trovano più compratori per questi raccolti in vaste aree del Piemonte. Se continuerà così, dichiarerà forfait l’intera filiera dei cereali: non solo le coltivazioni («Non seminiamo più», si minaccia), ma anche l’indotto che fornisce trattori, fertilizzanti, soprattutto sementi. Stesso discorso per le uve: «I prezzi pagati al chilo non coprono nemmeno le spese di produzione». E si spianta.
Ancora. La “pertica” di Cremona è lunga 808 metri, e fino a poco tempo fa si poteva affittare con un patto tra galantuomini a 40-50 euro. Poi sono arrivati gli energetici e il prezzo della terra è raddoppiato, 70-80 euro, e tende ancora a crescere, con punte che toccano anche i 100 euro: cifre che allevatori e agricoltori puri non si possono permettere.
Il Po scorre a due passi, e potrebbe produrre una gran quantità di energia, che invece ci si procaccia “consumando la terra” che ha sempre vissuto di carne, di latte, di mais, di pomodori, e che oggi – inventata l’agro-energia – esilia le coltivazioni e vive di elettricità. Stanno vincendo le lobbies agricole locali e soprattutto le multinazionali tedesche, ma anche spagnole e francesi.

Intanto, è partita un’altra grande corsa al cosiddetto “oro verde”, cioè alla conquista di spazi vitali per i business dei grandi investitori mondiali, spazi da reperire tra i 28 milioni di ettari di superficie totali disponibili in Italia, circa 14 dei quali coltivati. Che cosa sta succedendo?
Sta succedendo che ci sono fondi sovrani a caccia di terreni agricoli per il mondo; che ci sono multinazionali dell’energia a caccia di campi di mais per produrre biogas. Cinesi, coreani (del Sud) e indiani si scatenano in Africa, nell’Estremo Oriente e in Sudamerica. Libia ed Egitto sempre in Africa, ma anche in Ucraina, mentre il Sudafrica punta gli occhi sull’Africa sub-sahariana. Ora tocca all’Italia: le multinazionali tedesche, francesi e spagnole hanno messo gli occhi sulla pianura padana – dalla Lombardia al Friuli e all’Emilia – e sulle assolate aree di Sicilia e di Puglia. Vogliono comprare la terra e il mais. Vogliono comprare il sole.
Sono affari di genere diverso, ma portano allo stesso risultato. I cinesi, i Paesi arabi, l’Egitto e la Libia cercano la terra per coltivarla e riportarsi in patria le materia prime alimentari: economie in forte sviluppo con problemi di scarsità di terreni si incrociano con economie più arretrate, zone in cui questi abbondano, ma la capacità di lavorarlo secondo i canoni più avanzati (cioè più redditizi) è a zero. Gli Stati più poveri speravano in un aumento del lavoro, e quindi hanno sottoscritto i contratti di buon grado.
Ma la realtà è diversa. Una società mista cino-kazaka aveva acquistato 7.000 ettari in Kazakhstan, poi però i cinesi si erano portati 3.000 contadini da casa: lavoro per la popolazione locale, poco o niente. Una società coreana aveva acquistato un milione e 300 mila ettari in Madagascar praticamente gratis. Dava lavoro alla gente del posto, ma pretendeva di portare in Corea l’intera produzione di mais e di olio di palma. Le proteste hanno costretto il governo a sospendere il contratto, che tra l’altro doveva durare la bellezza di un secolo.
All’Italia, invece, le multinazionali (soprattutto francesi e tedesche), come dicevamo, guardano alla produzione di energia. Il mais padano serve per fare biogas, le grandi pianure pugliesi e siciliane e le alture della Campania interna servono per installare pannelli solari e pale eoliche.
Il cambio di destinazione d’uso, per così dire, non migliora la situazione di chi quelle terre le coltiva. Peggiora la situazione degli agricoltori: e non è solo questione di mais, di carne, di formaggi, è anche questione di uve, di ortaggi, di olio, di pasta e di “oro rosso”. Se continueremo a perdere terre per impiantare sistemi eolici e pannelli solari, poi dovremo importare prodotti agricoli in misura infinitamente maggiore rispetto a quella attuale. Siamo al paradosso dei paradossi: trasformare l’alimentare in energia pulita riduce le emissioni, ma quando sarà necessario procurarsi da mangiare esse aumenteranno dall’altra parte: navi, aerei e camion saranno impegnati a rifornire la Penisola. E intanto perderemo il patrimonio dei vigneti, degli oliveti, della frutta, delle verdure… Avremo, forse, una bolletta del gas meno cara. Ma un chilo di insalata ci costerà più caro del pieno di un Suv.

I meno europei dei Paesi continentali (l’Inghilterra, le Scandinavie, privi di agricoltura identitaria) si oppongono con tutte le loro forze alla denominazione di origine obbligatoria in etichetta, con l’indicazione della provenienza geografica dei prodotti agricoli. Et pour cause. Corriamo il rischio di trovarci nel mezzo di un museo degli orrori, dove continuano a giungere creature stravaganti, bizzarre, spaventevoli più di un ircocervo o di una chimera: incroci contro natura, ingredienti incongruenti, ossimori gastronomici: un vino bianco che si fa chiamare “Barbera” negli scaffali dei market romeni, una mortadella “Bologna” di carne di tacchino nei centri commerciali americani, un formaggio cinese che in etichetta esibisce una mucca all’ombra del nostro tricolore, ma che di nome fa “Pecorino”…
Certo, da noi nessuno cadrebbe nella trappola di un formaggio “Cambozola” o di una “Palenta” sfornata in Montenegro, da non preparare con i tradizionali “osei”. Ma fuori d’Italia il giochino funziona alla grande, perché nessuno è obbligato a conoscere la nostra lingua, e figuriamoci i disciplinari di produzione. Oltre tutto, il Belpaese è sinonimo di buon mangiare. Così, basta piazzare una bandiera italiana accanto a un nome vagamente evocativo, e con una vocale finale, per ritenere che si tratti di un prodotto originale.
Allora via con la ricotta australiana, con la fontina svedese, con una mozzarella “Sorrento” prodotta negli Stati Uniti, con il Chianti californiano, con i provoloni del Winsconsin e dell’Illinois, con il “classico traditional basil pesto”, con la pasta “milaneza” del Portogallo, la “italiano pasta” d’Egitto o la “Mueller’s” che di italiano ha solo il nome di “penne rigate”.
Per non parlare della nutrita progenie dei figli illegittimi del parmigiano reggiano: parmesan (dal Canada al Giappone, ma soprattutto negli Stati Uniti, dove vengono importate 10 mila tonnellate di grana padano e parmigiano reggiano prodotte insieme con le forme consumate in Italia ed esportate in tutto il mondo dal latte di 43 mila stalle e due milioni di mucche nostrane), ma se ne producono 70 mila di “taroccato”, e dove hanno avuto la faccia di bronzo di premiare come miglior formaggio del 2009 un “sarvecchio parmesan” del Wisconsin, “parmesão” (Brasile), “regianito” (Argentina), “parmesano” (Sudamerica). L’ultimo nato lo hanno battezzato “parmezan”. Con la zeta, perché quello con la esse era già stato condannato come spergiuro dalla Corte di giustizia della Ue. L’ultima creatura è prodotta in Romania, ma lo scandalo è che lo si trova in vendita nella maggiore catena distributiva europea, in un momento in cui gli allevatori stanno affrontando la più grande crisi del latte degli ultimi vent’anni.
Per i curiosi e per gli incavolati: il parmesan, insieme con un altro centinaio abbondante di nostri prodotti taroccati, scovati dai cacciatori di imitazioni, è finito nel Museo del falso cibo italiano allestito al forum di Coldiretti a Villa d’Este, a riprova che all’estero, su quattro prodotti alimentari made in Italy in commercio, tre sono fasulli. Insomma, è sempre più difficile imbattersi in un originale, tante sono le “bufale”: spesso talmente smaccate, che verrebbe da ridere, se non fosse che i furbetti del tarocco e i loro compari (che, a differenza dei falsari di tessili, sono quasi sempre Paesi ricchi come Usa, Canada e Australia) intascano ogni anno almeno 50 miliardi di euro. Un milione ogni undici minuti: il tempo di mangiarsi una pizza (autentica).
Adesso poi, con il biglietto verde debole, chi produce finto made in Italy ci guadagna due volte: perché non deve rispettare rigidi disciplinari e quindi ha costi più bassi; e perché produce nell’area-dollaro, e non in quella dell’euro. Mentre noi italiani non possiamo rinunciare alla qualità. Anche se coloro i quali giocano sporco spesso sono emigrati italiani, al modo di quel tal Daniele Salami che ha sfruttato l’anagrafe per piazzare sul mercato il suo finto “San Daniele”.
Il falso cibo italiano, molto spesso d’infima qualità, danneggia oltre misura la reputazione di quello vero. Spesso senza nemmeno violare la legge, perché certi marchi nostri non sono registrati e protetti negli altri Paesi. A volte si arriva al paradosso: il vero “Prosciutto di Parma” in Canada non si può vendere con quel nome perché là, dal 1971, “Parma Ham” è il marchio registrato di un salume prodotto da un’impresa locale. Oltre al danno, la beffa.

Un’azione coordinata sul territorio non contro ma per, perché l’agricoltura è importante e perché va sempre salvaguardata. È una ricchezza per il Paese e un volano di sviluppo dal quale partire per uscire più velocemente dalla crisi. E, questo, è un concetto che comincia ad esser palese e a radicarsi finalmente nell’immaginario collettivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“... Il problema maggiore è costituito dal contrabbando di aglio cinese visto che ormai in Italia quasi uno spicchio su due di aglio consumato in cucina è straniero. L’allarme è dell’ufficio anti-frodi dell’Unione europea (Olaf), secondo il quale le società cinesi causano perdite al fisco pari a circa 60 milioni di euro esportando illegalmente aglio attraverso operazioni di triangolazione che simulano una falsa origine del prodotto da Paesi come Giordania, Serbia, Turchia ed Egitto. Tra i fornitori principali dell’Italia figurano nell’ordine l’Argentina, che ha raddoppiato i quantitativi, e la Cina che insieme a Egitto e Turchia rappresentano più della metà delle importazioni totali di aglio estero in Italia...”.
(Da un’interrogazione parlamentare)

 

Il settore primario, non c’è dubbio, sarà sempre di più un settore portante dell’economia, perché può soddisfare le richieste più strategiche dell’esistenza: a partire proprio dal bisogno esistenziale del cibo, poi l’ambiente, le agro-energie, l’alimentazione animale e il paesaggio. In particolare, i giovani hanno il dovere di sognare un futuro migliore, impegnandosi nella realizzazione di imprese moderne per l’agricolture del Paese.
Anche perché le cifre del ricambio generazionale sono troppo basse e stanno a indicare il mancato incoraggiamento a scegliere una professione legata alla terra. Se da un lato l’Italia ha il minor numero di persone sotto i 35 anni che lavorano nel primario, dall’altro i titolari delle imprese agricole leader e trainanti – secondo una ricerca del Censis – sono proprio quelle contraddistinte dalla giovane età e da un modo virtuoso e competitivo del fare impresa: oltre il 50 per cento dei titolari, infatti, ha meno di quarant’anni e un elevato livello culturale, che si traduce in comportamenti manageriali e approcci al mercato orientati alle più moderne strategie. E nei giovani c’è voglia di agricoltura. Come dire: il dato sulla senilizzazione del settore potrebbe essere radicalmente modificato, perché l’agricoltura potrebbe diventare attraente. Fino ad ora, infatti, l’intero sistema produttivo italiano ha pagato il prezzo eccessivo della politica e della farraginosità dei meccanismi. Burocrazia, aumento dei costi e mancanza d’innovazione in testa.
Non va dimenticato che le materie prime di cui l’industria alimentare ha bisogno derivano da un’agricoltura professionale che sta sul territorio, che rappresenta un milione e 200 mila addetti e, compreso l’indotto “a monte e a valle”, il 16% circa del nostro Pil. Inoltre, è proprio l’azienda agricola a costituire uno snodo importante tra impresa, ambiente, territorio, energia e politiche sociali. Allora noi che cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo comportarci?

Esempi emblematici, e reali. Spesa in un supermercato romano (ma va bene anche lucano o napoletano o salentino…). Banconi della frutta e della verdura. I mirtilli arrivano dal Cile, i porri dalla Germania, lo scalogno dalla Turchia, i ravanelli dai Paesi Bassi, su quattro tipi di pere uno soltanto è made in Italy, gli altri tre giungono dalla Spagna e dal Sudafrica. Oggi importiamo anche i prodotti di stagione, non soltanto le primizie. Facciamo viaggiare merce da un continente all’altro. È necessario? Conviene, col prezzo del petrolio alle stelle? I nostri agricoltori sostengono di no: anche i consumatori ci perdono, in qualità e sicurezza, e spendono di più perché nel costo di frutta e verdura va aggiunto quello del gasolio.

Ma non è solo questione di soldi. Comprando prodotti locali si possono risparmiare non solo oltre 100 euro (su 465 di spesa media al mese), ma anche 1.000 chili di CO2 pro-capite l’anno, è lo slogan convincente. Ai consumatori va bene l’idea di risparmiare, di comprare qualità, di fare una spesa sostenibile. Piacciono i prodotti “a chilometri zero”, quelli che arrivano dai campi vicini, che viaggiano meno, che inquinano meno. Le pesche sudafricane, per dire, le mangiamo dopo che hanno viaggiato per 8 mila chilometri: per ogni pacco da un chilo sono stati emessi 13,2 chili di CO2. Se questo dato fosse comparso sulla confezione, forse molti non le avrebbero comprate. Non per niente si è calcolato che oggi un pranzo completo arriva sulle tavole dopo aver percorso mediamente 1.900 chilometri.

Far viaggiare le merci da un continente all’altro è un lusso che possiamo permetterci sempre di meno. Il costo del petrolio ha messo in discussione il principio stesso della globalizzazione, per cui si consumano prodotti realizzati dove si spende meno: vicino ai luoghi di consumo. Ciò spinge le persone a puntare sui prodotti nazionali. Ma costano di più? No, se la filiera è corta. È spiegato così il successo dei “farmers market”, i mercati degli agricoltori nei quali la vendita è diretta, senza intermediari. Ora si trovano anche in alcune grandi città, e per fare una spesa genuina ed ecologica non è più necessario andare in una fattoria. È il caso di Taranto o di Monselice, di Milano o di Roma, di altre e sempre più numerose città, ove si può risparmiare il 30 per cento, con un trend che può raggiungere il 50 per cento. È una formula ormai collaudata in Inghilterra e in Francia, negli Stati Uniti i farmers market sono ormai più di quattromila, da New York a Los Angeles.
Anche in Italia, dunque, si comincia a correre. Secondo l’ultima indagine della Coldiretti, sette italiani su dieci l’anno scorso hanno comprato direttamente nelle aziende agricole, e il fatturato è stato di 2,5 miliardi di euro. Prodotti più acquistati: vino, olio, ortofrutta, latte, formaggi, carne, miele.
Le aziende con vendita diretta hanno superato le 50 mila unità. E chi crede ai prodotti locali, mangiati nella stagione giusta, e non fuori tempo (con costi altissimi), li cerca anche nei ristoranti, dove ormai si espone il cartello “Menu a km 0”. Roma, eccentrica come al solito, ne espone con la scritta “Migliozero”. Si risparmia. Si mangia bene. Non si compromette la salute. Non si inquina. Che si vuole di più dalla vita?

   
   
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