Giugno 2010

competitività e bilancia commerciale

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Un futuro
per il “Made in Italy”

M.B. - D.M.B.

 
 
 

 

 

 

 

Declino?
Il gioco al ribasso non giova alla nostra immagine internazionale, soprattutto ora che è necessario convincere gli investitori a continuare ad avere fiducia in noi.

 

 

Nello Wrona

La crisi economica planetaria del 2009 ha colpito duramente l’export italiano. Ma la stessa cosa si è verificata, con identica intensità, se non superiore, a tutti gli altri maggiori Paesi esportatori, Germania e Giappone in testa. In periodi così difficili, in cui tutti subiscono perdite pesanti, la cosa più importante per un Paese è conservare le proprie leadership in attesa di momenti migliori e, se possibile, nel caso dell’Italia, per trarre vantaggio, pur nelle traversie del momento, dalla più acuta crisi dei nostri concorrenti. Piaccia o no, questi sono i fatti nudi e crudi.
Poi c’è il ventaglio dei dibattiti, che pure servono, ma che dovrebbero mantenersi nei binari dell’oggettività. Purtroppo, nelle fasi economiche più problematiche riaffiora costantemente nel nostro Paese la sindrome del declino.
Ma occorre distinguere in modo netto tra crisi e declino, e tra imprese e Paese. Nel convegno tenuto da Confindustria a Parma, i media hanno enfatizzato molto la contrapposizione che sarebbe emersa tra il rischio di declino dell’Italia paventato dal Centro Studi confindustriale e l’immagine proposta dal presidente del Consiglio di un’Italia che resiste.
Tuttavia, le polemiche che sono seguite non hanno colto il reale nocciolo della questione, che secondo noi si può riassumere così: è necessario separare il giudizio sulle imprese che competono sui mercati internazionali dal giudizio del Paese nel suo complesso.
In estrema sintesi, si potrebbe dire che in questo momento le imprese manifatturiere sono in crisi (è evidente, vista la crisi mondiale) ma non in declino, mentre l’Italia è molto meno in crisi di tanti altri Paesi, al di là di ciò che dice il dato del suo Prodotto interno lordo, che è distorto dall’export.

Il nostro Paese deve affrontare, comunque, rischi reali di declino sul medio-lungo termine che vengono non dal lato della competitività manifatturiera bensì dalla spesa pubblica burocratica e improduttiva, da un deficit energetico che continua a pesare sulla bilancia commerciale, dai divari territoriali tra Nord e Sud che si allargano, e infine dalla persistente evasione fiscale.
Su questi fronti si gioca il futuro del sistema Italia: da qui discende l’importanza delle riforme, perché solo queste possono scongiurare il rischio di un nostro declino, non tanto rispetto ai Paesi che negli anni scorsi hanno “drogato” la crescita dei loro Pil con debiti privati (Spagna ed economie anglosassoni) oppure pubblici (Grecia), quanto rispetto alle nazioni virtuose a noi più simili (come la Germania e la Francia) e alle economie emergenti.
Tutt’altro discorso è quello della competitività dell’Italia nell’export mondiale, che in questi anni abbiamo sempre sostenuto non essere in declino. Alcuni autori hanno recentemente contestato questa tesi, affermando sostanzialmente che: 1) non è vero che l’export italiano negli anni immediatamente precedenti l’attuale crisi sia cresciuto più di quello degli altri maggiori Paesi avanzati; 2) i dati di export espressi in dollari da noi utilizzati enfatizzerebbero artificialmente la crescita italiana, per cui sarebbe meglio usare valori in euro; 3) gli oltre mille primi, secondi e terzi posti nell’export mondiale detenuti dall’Italia (su un totale di circa 5.500 prodotti) in realtà non conterebbero granché, perché si tratta di nicchie da considerare con ragione molto critica, se non proprio con un certo disprezzo; 4) esportare beni, comunque, vuol dire poco, perché oggi a livello internazionale l’esportazione di servizi cresce di più; 5) l’export di per sé ha scarso significato se non si considerano anche le importazioni, e quindi sarebbe più opportuno guardare alla dinamica della bilancia commerciale complessiva (export meno import).

Premesso che non è il caso di suggerire di impiegare l’export come misura di benessere sostitutiva del Prodotto interno lordo, sui primi quattro punti si può rispondere sinteticamente. Sui punti 1 e 2: sia che si utilizzino come fonti l’Onu, l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) oppure l’Eurostat, è incontestabile che anche in euro tra il 2005 e il 2008 l’export dell’Italia e della Germania sia cresciuto percentualmente di più degli export degli Stati Uniti, del Regno Unito, del Giappone e della Francia. Sul punto 3: si può far notare che gli oltre mille primati del made in Italy nell’export mondiale valevano nel 2007 ben 235 miliardi di dollari; questo grande risultato è un merito dei nostri imprenditori manifatturieri, che meriterebbe ben altro rispetto. D’altra parte, anche l’ultimo Trade Performance Index dell’Unctad/Wto dice che nel 2006 i due Paesi più competitivi al mondo nei 14 principali macrosettori del commercio internazionale sono stati la Germania (sette primi posti e due secondi posti) e l’Italia (tre primi posti, quattro secondi posti e un sesto posto). Punto 4: i dati della Wto indicano che l’export mondiale di merci resta tuttora quattro volte più importante in valore di quello dei servizi. Quindi, l’Italia fa bene a tenersi ben stretto il suo export manifatturiero, senza dimenticare che anche nel turismo (che fa parte dei servizi) deteniamo il quarto posto al mondo per entrate nette.

Sul quinto e ultimo punto, più meritevole di approfondimento, possono essere citati gli ultimi dati Eurostat sulla bilancia commerciale dei cinque maggiori Paesi dell’Ue: nel periodo 2005-2008 Italia e Germania sono gli unici due Paesi che hanno migliorato la loro bilancia commerciale con l’estero, escludendo l’energia, mentre la Francia è andata in deficit e la Spagna e il Regno Unito hanno visto peggiorare i loro già alti passivi. Se consideriamo anche il 2009, Spagna e Regno Unito hanno ridotto le loro importazioni durante la crisi, ma sono rimaste in forte passivo, mentre la Francia ha peggiorato il proprio deficit. Il surplus tedesco è crollato nel 2009 di 71,5 miliardi di euro, cioè a un livello notevolmente inferiore rispetto a quello del 2005, mentre il surplus italiano nel 2009 è diminuito di soli 8,5 miliardi di euro rispetto al 2008, collocandosi praticamente allo stesso livello, assai buono, del 2007.
Ben vengano i dibattiti, dunque. Ma siano fondati sulla realtà della situazione, sui fatti, sulle cifre; e conducano realmente – senza essere accademicamente assertivi – a dialoghi dai quali emergano prospettive concrete per il futuro.
Il gioco al ribasso, infatti, non giova al nostro Paese e alla sua immagine internazionale, soprattutto in questi tempi, in cui è necessario convincere gli investitori a continuare ad avere fiducia in noi. Il che significa far capire, soprattutto ad alcuni Paesi “avanzati”, i cui Pil per un breve periodo della storia recente (da metà anni Novanta al 2007) sono cresciuti più di quello dell’Italia, che il loro progresso economico si era realizzato sul piedistallo delle due bolle consecutive della new economy, prima, e della speculazione immobiliare-finanziaria poi, con la conseguenza di vedersi presentato il conto in termini di sfascio della contabilità statale, di forte indebitamento, di crollo della ricchezza delle famiglie, di aumento drammatico della disoccupazione.
Per dirla tutta, è ormai necessario riscrivere completamente la storia dell’economia del nostro Paese. Perché ci sono anche non poche ragioni metodologiche per non fare della crescita apparentemente contratta del Pil italiano degli ultimi anni un feticcio da idolatrare (e su cui fondare “tesi decliniste” malferme).

La nostra economia, infatti, negli ultimi quindici anni è profondamente cambiata: produce milioni di calzature povere in meno ma centinaia di migliaia di calzature di lusso in più; milioni di prodotti meccanici semplici in meno ma alcune decine di migliaia di macchine industriali ipertecnologiche in più; meno T-shirt di basso prezzo ma molti yacht lussuosi in più. Eppure abbiamo continuato e continuiamo a misurare la crescita del valore aggiunto manifatturiero dell’Italia esclusivamente in volume, la cui dinamica poco brillante è immancabilmente attribuita a bassa competitività e produttività. Mentre i fatturati e i valori aggiunti a prezzi correnti delle imprese italiane in questi anni letteralmente volavano, almeno fino allo scoppio dell’attuale crisi, distaccando i nostri più stretti concorrenti diretti, che sono poi i tedeschi e i francesi, e non i Paesi delle bolle. Va poi tenuto conto che il valore aggiunto dei servizi (soprattutto del turismo e dell’offerta culturale) ormai risiede sempre più in aspetti come la qualità e l’efficienza, piuttosto che nella quantità.
Alla luce di tutto questo, vanno sottolineati due aspetti. Il primo è che tra il 1999 e il 2007 il valore complessivo della produzione manifatturiera italiana è cresciuto di più (+42 per cento) di quello delle industrie manifatturiere tedesca (+36 per cento) e francese (+9 per cento). Il secondo è rappresentato dalla tenuta dell’Italia nella competizione commerciale internazionale. Nel 2009 l’export manifatturiero in dollari correnti di quattro Paesi – Germania, Stati Uniti, Francia e Italia – è tornato a livelli inferiori a quelli del 2006, ma superiori a quelli del 2005. L’export del Regno Unito e del Giappone è addirittura tornato a livelli inferiori a quelli del 2004. In questo scenario, per quanto anche il nostro export manifatturiero abbia sofferto tantissimo, è accertato che meglio di noi, nel mondo, hanno fatto soltanto i tedeschi. E scusate se è poco.
È rilevante, tutto questo. Scrive Alan Friedman che il futuro del made in Italy è particolarmente in Asia. «Il presidente dell’Indonesia, un Paese che quest’anno è cresciuto “soltanto” del 4 per cento – racconta – sostiene che la crescita economica della Cina, dell’India, dell’Indonesia significa che l’Asia sarà una sorta di pilastro, di guida nell’uscita dalla crisi, La crescita economica dei prossimi decenni, dunque, è in Asia».
Ovunque, dal Mar del Giappone al Golfo Persico, il messaggio che si può ascoltare è sempre lo stesso: Cina, India, Asia Centrale, Sud-Est asiatico, Emirati sono i Paesi che hanno accumulato i capitali che oggi mancano all’America. La Cina ha una cassaforte di duemila miliardi di dollari. Abu Dhabi, Qatar e Kuwait hanno ciascuno mille miliardi. L’Indonesia è un Paese di 230 milioni di consumatori, con una società musulmana ma molto laica, con ricchezze come oro, petrolio e gas naturale. La Cina, con un miliardo e 300 milioni di persone, e l’India, con oltre un miliardo, non sono Paesi da temere, ma mercati di consumatori nuovi per il made in Italy, compreso quello prodotto (e che può trovare le opportunità per avanzare) nel Mezzogiorno.
In questi Paesi la ricchezza si vede e si tocca, come si vedono e si toccano la fiducia e l’ottimismo. Si immaginano le cose con un orizzonte lungo. Un po’ ovunque, a proposito delle monete europea e americana, sostengono: «Noi abbiamo fiducia nel lungo termine nell’euro, crediamo che gli europei prima o poi si metteranno insieme e per il loro bene comune. Naturalmente, sta sorgendo un nuovo ordine mondiale dell’economia».
Analoghi discorsi in Turchia, che non è quel Paese islamico temuto da una certa paranoia tedesca o francese, bensì un mercato laico e in grande sviluppo. Dice un partner storico dell’Italia, Rahmi Koc: «Noi con l’Italia abbiamo un grande rapporto, ma gli europei che ci trattano da cittadini di seconda categoria sbagliano. Noi siamo una realtà economica in crescita e un mercato di 70 milioni di consumatori».
Non solo. Questo è un moderno Paese-ponte per meglio entrare nelle tre grandi aree strategiche che più cresceranno: gli Stati turcofoni, che ci conducono lungo la Via della Seta della grande Asia, Stati produttori di energia e canali di commercio; l’opulento mondo del Golfo, con l’Arabia Saudita naturalmente partner privilegiato per quest’area; infine, la sponda meridionale del Mediterraneo, tutto il Mashrek, cioè la fascia orientale, con perno l’Egitto, e tutto il Maghreb, che ruota attorno al Marocco.
Al centro, la Libia, con le sue ricchezze energetiche. È qui che bisogna operare, perché nel momento in cui la crisi colpisce i mercati tradizionali dell’Occidente sono aree dove c’è il maggiore sviluppo economico.

   
   
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