Giugno 2010

crisi finanziaria. il laboratorio grecia

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Il ruggito
delle tigri di carta

Claudio Alemanno

 
 
 

 

 

 

 

Bad rating.
C’è una lunga linea d’ombra che copre le agenzie, affiorano dubbi consistenti sui giudizi espressi, talvolta viene il sospetto che siano motivati da ragioni politiche più che tecniche.

 

 

Atene: Una filiale dell’Attica Bank incendiata durante gli scontri tra polizia e manifestanti contro il piano di austerità del governo Papandreou.

Tilemahos Efthiamidis

In un tempo privo di memoria tenere un faro acceso sui conati della crisi permette di mantenere desta l’attenzione sui fatti involutivi delle economie del debito, sulle incertezze attorno alle azioni di contrasto, sulle responsabilità della frammentazione e dispersione nei processi decisionali.
Il concerto e la mobilitazione degli Stati avvengono sempre in condizioni da ultima spiaggia. Non riescono a calmierare la ricerca aggressiva del profitto né a diluire il timore reverenziale sempre portato verso l’establishment finanziario. Restano in piedi tutti i meccanismi controversi, continuano a circolare i derivati e i prodotti ad alto rischio. In più, crescono i dubbi sulla tenuta del debito sovrano, sulla solvibilità della finanza statale.
A volte sembra di intravedere segnali di rassegnazione, quasi di autodelegittimazione. Con le istituzioni politiche che creano rumori di fondo, promettendo nuove regole, con le istituzioni finanziarie per nulla turbate che continuano a svolgere la consueta attività speculativa. Circola nel sistema un cocktail esplosivo (disoccupazione ed elevati livelli di debito pubblico) che giustifica nuovi percorsi codificati e nuove istituzioni di controllo.
Invece una cultura statale ancien régime continua a privilegiare l’esercizio di tic imperiali da parte di leadership deboli e forti. Questo clima di sostanziale incomunicabilità tra politici e organi istituzionali produce un relativismo giuridico che determina nel sistema uno sfilacciamento del significato percettivo delle norme. Alla parcellizzazione normativa sono legati molti vulnus di effettività giuridica e un oggettivo indebolimento dei sistemi di controllo. Ci sono precisi interessi del settore bancario-assicurativo e delle multinazionali (le transnational corporations), che per calcolo economico preferiscono restare mobili e quindi evitano di farsi irretire in contesti normativi e controlli ad ampio raggio. Con l’avvertenza che i format macrocapitalistici hanno perfezionato reti finanziarie globali sempre più sofisticate e condizionanti.
Il mal di pancia del dopo-crisi pone dilemmi valoriali al capitalismo familiare e a quello di mano pubblica, ma anche questioni non secondarie in ordine ai flussi di finanziamento della spesa statale. Il caso Grecia è emblematico per capire come la speculazione internazionale può mettere in ginocchio un Paese. Facendo circolare nel sistema finanziario i credit default swap (Cds), si scommette sul fallimento di un determinato Paese o sulla probabilità che accada. Si crea un circuito speculativo attorno al Paese entrato nel mirino, che spesso vede come attori le stesse agenzie di rating che effettuano le verifiche di bilancio.
La crisi della finanza globale in diverse occasioni ha reso poco credibili le loro valutazioni. Si pensi al caso Aig, il colosso assicurativo americano. Valutato sempre con la mitica “tripla A” (la massima garanzia di solvibilità per il debito), all’improvviso, il 16 settembre 2008, Moody’s e Standard & Poor’s declassano il titolo, mettendo nei guai Aig e a seguire l’intero sistema finanziario. Sul recente declassamento dei titoli di Grecia, Portogallo e Spagna il direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi) ha dichiarato: «Non si dovrebbe credere troppo a ciò che dicono le agenzie di rating, benché possano essere utili».

Con questa questione si dovranno fare i conti. La fiducia incrinata mette in discussione l’autorevolezza e l’intangibilità del voto pronunciato dalle agenzie. Le più rappresentative sono Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch, un oligopolio potentissimo creato con le licenze centellinate dagli enti regolatori americani. Se si va a spulciare nei loro bilanci si vedrà che le maggiori entrate vengono dalle commissioni pagate dai fondi d’investimento e dalle banche che operano nel settore della finanza strutturata. I Governi non rientrano nella clientela primaria. Comunque, non è facile capire perché agenzie private debbano certificare con un voto la solvibilità dei bilanci pubblici statali. In particolare, non è facile capire perché i bilanci di Stati Uniti e Gran Bretagna continuino ad avere la “tripla A”, con un deficit e un debito pubblico in continuo aumento. Il giudizio delle agenzie serve alle banche che detengono in portafoglio i titoli governativi dotati di maggiore credibilità, ma si possono trovare altri criteri di valutazione più asettici.
C’è una lunga linea d’ombra che copre le agenzie, affiorano dubbi consistenti sui giudizi espressi, talvolta viene il sospetto che siano motivati da ragioni “politiche” più che “tecniche”. Se qualcuno volesse fare fantaeconomia avrebbe buon gioco a pensare che con il caso Grecia si sia voluto portare un pesante attacco all’euro e all’Unione monetaria europea.
In ogni caso, il mercato registra alcune anomalie che vanno evidenziate. L’assicurazione contro il rischio insolvenza dei bilanci pubblici risulta più onerosa dell’assicurazione sui corporate bond, sulle obbligazioni emesse dalle multinazionali. Una situazione paradossale, che indica le accresciute difficoltà degli Stati nell’approvvigionamento sui mercati.

In Europa il nodo principale resta l’euro, meglio l’assenza di economie integrate che diano smalto e rappresentatività alla valuta. Contro il pericolo di una gestione allegra dei bilanci nell’Eurozona sono stati adottati strumenti che alla luce delle vicende greche si sono dimostrati inadeguati. Il Patto di stabilità non ha dato né rigore né controllo sistemico. E la clausola di “non salvataggio” del Trattato di Maastricht non è riuscita a imporre il ricorso esclusivo di uno Stato in crisi alle risorse del mercato.
C’è dunque un vulnus normativo e istituzionale da colmare. Per l’immediato si è giunti, dopo un defatigante ping pong, a definire un piano di aiuti da 110 miliardi di euro alla Grecia. Prevede interventi degli Stati membri dell’Unione monetaria europea (Uem) e del Fondo monetario internazionale (Fmi). Ciascuno Stato contribuisce in base al peso che ha nella Banca centrale europea.
Una toppa decisa con ritardo, che nulla toglie alla confusione regnante nelle istituzioni europee, anche dopo il varo del fondo anticrisi deciso di urgenza dai ministri economici dell’Unione nella notte dello scorso 9 maggio per tamponare la caduta libera dell’euro.
Sulla necessità di maggior controllo sul sistema continuano a circolare varie idee. Scemato l’interesse per la costituzione di un Fondo monetario europeo (Fme), sono nate altre proposte. Dalla richiesta di un nuovo Patto di stabilità avanzata dal presidente della Bce e dal presidente del Financial Stability Board, al varo di un Fondo europeo di sviluppo (Fes) per le emissioni di eurobond, alla costituzione di un’Agenzia dell’Uem per la supervisione delle attività bancarie e finanziarie autorizzata a dare il rating sui titoli del debito pubblico, sottraendo questo servizio alle agenzie private.
Tanta carne a cuocere, che può condurre alla rinegoziazione degli equilibri interni (ad esempio, in sede Bce) e all’eventualità (remota) di una revisione dei Trattati istitutivi. Resta l’alto differenziale di crescita tra l’Europa del Nord e l’Europa del Sud, resta la necessità di un governo centrale per le economie dell’Unione, per attuare interventi in funzione stabilizzatrice e prevenire il fallimento di uno Stato membro oppure contenerne i costi quando è inevitabile.
A noi questa sorta di governo utopico fa venire in mente una seconda Guerra dei cent’anni, non essendo ancora maturo un livello minimo di solidarietà che lo renda possibile e credibile. Forse il classismo delle élites riflette il carattere classista delle società europee. Certamente l’arroganza statale prevale sulle esigenze di mutuo soccorso, il nazionalismo continua a dominare la scena, anche quando entrano in area rischio altri titoli: Portogallo, Spagna, Irlanda.
L’Europa non può permettersi un impianto istituzionale d’avanguardia naïve. Con l’euro si è messo in moto un percorso unitario che per essere credibile deve sollecitare importanti lavori per il suo completamento. Un albero si giudica dai frutti, non dalle radici. Manca in Europa una sovranità fiscale che abbia un’autorevolezza pari alla sovranità monetaria. Mancano politiche economiche integrate e un’unione politica che si faccia sentire con voce unica sulla scena internazionale. Cose note, mai tradotte in comportamenti conseguenti.

Ma se l’Europa si lecca le ferite, l’America non può fare sogni di gloria. Il presidente Obama dovrà lottare a lungo contro la resistenza delle lobby finanziarie, soprattutto dovrà far evaporare il dubbio che un aumento di regolamentazione possa sacrificare l’efficienza dei mercati. Superato lo scoglio della riforma sanitaria, dovrà impegnarsi su questo fronte. Ha annunciato tre provvedimenti importanti sulle banche. Uno pone limiti al gigantismo e cerca di sottrarre la Politica al ricatto del too big to fail, alla deprecabile egemonia delle banche troppo grandi per fallire. Ogni singolo istituto non potrà avere in portafoglio più del 10% dei depositi assicurati dall’Agenzia federale FDIC. Segue un altro provvedimento anti-crisi, l’introduzione di un’imposta sulle banche in ragione delle loro dimensioni (il prelievo dovrebbe essere dello 0,15% sul totale di bilancio).
Un terzo provvedimento appare più dirompente. Si vieta alle banche commerciali che amministrano depositi dei risparmiatori l’esercizio di attività di trading con capitale proprio (su materie prime, valute, azioni, derivati), talvolta condotte a trattativa privata, fuori dalla Borsa e dai mercati regolamentati. In pratica, si privano le banche della maggiore fonte di reddito. Il provvedimento ha motivazioni sacrosante, tende a fare pulizia sul mercato, dando un po’ di trasparenza ai percorsi dell’intermediazione.

Se è legittimo il rischio del risparmiatore sui titoli acquistati direttamente, non lo è quando il rischio è inglobato nella gestione impieghi della sua banca. Se si considera che nel mondo sono una quindicina le banche che “fanno mercato” ci si rende conto di quale rendita di posizione godano e di quale potere detenga questo cartello.
Non si devono sottovalutare i riflessi che le questioni indicate hanno sui mercati e sui rapporti Europa-Stati Uniti. La politica non può garantire solo la linea di galleggiamento, non può restare in surplace tra Scilla e Cariddi. I mercati sono meccanismi di socializzazione e di controllo sociale sensibili alle sollecitazioni di stabilizzazione. Bolle finanziarie e Stati a rischio insolvenza sono mine vaganti che possono condurre il sistema al collasso.
Tra Europa e Stati Uniti bisogna iniziare un gioco a fidarsi. Un insigne studioso di relazioni internazionali, Charles Kupchan, della Georgetown University, è riuscito a spiegare agli americani, senza pregiudizi anglofili, la nascita dell’Unione europea e le ragioni che hanno condotto all’euro.
Un’operazione analoga andrebbe fatta in senso inverso, per spiegare agli europei le ragioni degli americani, la loro visione del liberismo economico, la loro rabbia per le degenerazioni del capitalismo finanziario. Dovendo scommettere su destini incrociati, non si possono adottare politiche monetarie conflittuali, c’è bisogno di franchezza e determinazione nel costruire sinergie attraverso un quadro normativo e un’architettura istituzionale pensati per arginare la speculazione dei grandi monopoli. La rappresentanza politica va coniugata con le esigenze di governance, uscendo dagli stereotipi che contrappongono la volpe europea al lupo americano. Bisogna affinare tutti gli strumenti che conducono ad una maggiore coesione strategica.
Le regole statali non possono contrastare il calcolato disordine globale voluto dai grandi monopoli. Tempestività e fermezza nell’azione di contrasto sono gli ingredienti che risparmiatori e contribuenti (di qua e di là dell’Atlantico) chiedono alle élites della politica internazionale. Stanchi di essere segnati da tragiche vicende vissute in silenzio, dentro una farsa dai tempi infiniti.
Mantenere principati intangibili all’interno di un sistema di mercato governato dalla concorrenza è pericoloso. Per l’economia reale, per la democrazia, per gli equilibri di un modello sociale che fonda la sua stabilità sulla mimetizzazione del “popolare” nel “borghese”.
Nell’attuale congiuntura di consolidamento della crescita sembra prioritaria la necessità di trovare strategie di contenimento per deficit e debito pubblico, senza compromettere la pace sociale. Facile a dirsi. Ma qualcosa va fatta per evitare il potere sanzionatorio del mercato e le pesanti turbative che infestano i percorsi della “normalizzazione”.

Nota bibliografica

Non solo il mercato, anche la scienza economica cambia pelle. Non privilegia più le teorie sulla razionalità dei mercati che tanti danni hanno prodotto. Si scoprono i mercati imperfetti, le stravaganze degli operatori. Si studiano i percorsi che determinano le scelte, si approfondisce l’economia comportamentale (Robert Schiller).

Segnaliamo alcuni testi significativi di recente pubblicazione:
- Roman Fryman, Michael Goldberg, Imperfect Knowledge Economics.
- Steven D. Levitt, Stephen J. Dubner, Superfreakonomics, Harper Collins, New York.
- Richard H. Thaler, Cass R. Saunstein, (consulenti del presidente Obama), Nudge, (“La spinta gentile”), Edizione italiana curata da Feltrinelli.

   
   
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