Giugno 2010

L’Europa utile

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La seconda via
della Strategia di Lisbona

Mario Pinzauti

 
 
 

 

 

 

 

Sull’insuccesso della strategia di Lisbona ha avuto un peso enorme non solo la grande crisi, ma anche l’inadeguatezza degli strumenti usati a livello di Unione europea.

 

 

Dario Carrozzini

Lo ammettiamo pure noi, che siamo rimasti tra coloro (non tanti, purtroppo) che si ostinano a tenere l’Europa nel cuore. I tempi neri, i tempi bui sono riusciti a entrare in territori e situazioni che speravamo fossero inespugnabili. L’epidemia della crisi ha varcato prima le frontiere esterne dell’Europa dei 27, poi ha stabilito solide teste di ponte perfino in Eurolandia, colpendo con particolare durezza il gruppo dei cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), cui, in un prossimo futuro, se non interverranno adeguati interventi di soccorso da parte del nostro governo, potrebbe aggiungersi anche l’Italia.
Sul piano economico – di conseguenza anche su quello politico – l’Unione, come gran parte del resto del mondo, è entrata in un periodo di difficoltà senza precedenti. Tale, secondo alcuni tra i critici più implacabili, da mettere in pericolo la sopravvivenza stessa del processo d’integrazione europea che fu promosso l’8 maggio 1950, sessant’anni fa, dal ministro degli esteri francese Robert Schuman con l’appello alla Germania per la messa in comune della produzione del carbone e dell’acciaio e decollò, si può dire, sette anni dopo, con il Trattato di Roma del 25 marzo 1957, atto di nascita di una comunità che, attraverso una serie di ampliamenti, è arrivata oggi a essere composta da 27 Paesi, con una popolazione di poco meno di mezzo miliardo di cittadini.
Anche soltanto considerare questo pericolo come una pura ipotesi fa letteralmente rabbrividire. Il processo d’integrazione europea ha assicurato una pace ormai lunga più di mezzo secolo in un vastissimo territorio – quello occupato dai 27 Paesi dell’Unione – che per millenni è stato teatro di continue guerre. E con la pace è arrivato, per le popolazioni di questi territori, un periodo di costante miglioramento delle condizioni di vita. Miglioramento che – grazie agli aiuti ai Paesi del Terzo mondo, in cui l’Unione è prima in campo internazionale – ha avuto conseguenze apprezzabili sulle condizioni di vita delle popolazioni di altri continenti.
Tutto questo – e molto altro! – verrebbe improvvisamente a mancare se il processo d’integrazione facesse bancarotta. Sarebbe una catastrofe epocale. Per l’Europa. E per gran parte del resto del mondo.

Meno male che questo pericolo non esiste neppure allo stato di pura ipotesi; e che, smentendo il pessimismo e il catastrofismo dei peggiori eurocritici, è anzi possibile, pur in questi momenti di gravi difficoltà, intravedere una via d’uscita che permetta una ripresa del processo d’integrazione, anche se in tempi non velocissimi. Ci consentono di dirlo non soltanto la nostra passione europea ma anche, e più, una serie di interventi che le istituzioni europee si preparano a mettere in campo in collaborazione con i governi nazionali dell’Unione.
Questi interventi sono stati preceduti da ricerche che esperti delle istituzioni europee, in particolare quelli che operano per la Commissione, hanno realizzato per stabilire le cause degli insuccessi di alcuni programmi-chiave della politica europea, ad esempio quelli previsti dalla Strategia cosiddetta di Lisbona, con cui nel 2000 ci si era posti l’entusiasmante obiettivo di portare l’economia europea ad essere la più competitiva del mondo entro il 2010.
Questo obiettivo, com’è noto, non è stato raggiunto. Il primo, e il più importante, dei risultati cui si era puntato, una sensibile riduzione del numero dei disoccupati, è stato particolarmente deludente. Nel decennio 2000-2010 il numero dei senza lavoro anziché diminuire è notevolmente aumentato, con incrementi di notevole drammaticità per i giovani (tra i quali i disoccupati sono arrivati al 20 per cento, con percentuali addirittura più alte in alcuni Paesi, come l’Italia, dove si è toccata la vetta del 28,5 per cento).

Tutto questo è avvenuto – hanno rilevato gli esperti nel corso delle loro ricerche – non soltanto per la catastrofe del sistema dei mutui immobiliari negli Stati Uniti, per il crollo dei giganti delle banche, delle assicurazioni, dell’industria automobilistica, per i contraccolpi subiti dal commercio internazionale, per l’instabilità delle Borse, in altre parole per l’insieme di quei fattori negativi che hanno determinato la grande crisi. Sull’insuccesso della Strategia di Lisbona ha avuto un peso enorme anche l’inadeguatezza degli strumenti usati.
Arrivati a questa constatazione, per gli esperti è risultato chiaro che, in attesa di una soluzione della crisi, la marcia verso i traguardi di Lisbona si poteva comunque riprendere con ottime speranze di successo. A una condizione. Quella di migliorare e ove necessario sostituire i metodi e gli strumenti usati nei primi dieci anni della Strategia approvata nel 2000 nella capitale portoghese.
Questa la diagnosi degli esperti. Le istituzioni europee l’hanno subito fatta propria senza riserve. Come senza riserve hanno accolte e fatto proprie le indicazioni relative ai rimedi da attuare. È nata così Lisbona 2, la nuova Strategia dell’Europa comunitaria, con un traguardo spostato al 2020.
È una Strategia che a differenza di quella che l’ha preceduta, e che è partita con il sostegno di grandi sogni (peraltro resi credibili dal buono stato di salute attraversato in quel periodo dall’economia europea), sta prendendo a muoversi con cautela, senza clamori ma anche con un realistico ottimismo che nasce dalla consapevolezza di essere arrivati a capire quello che si deve concretamente fare per risolvere i problemi.
A partire dal maggiore: la disoccupazione che, hanno già detto gli esperti e ora si dice nelle istituzioni, è possibile sensibilmente alleggerire perfino in periodi di grave crisi economica, come l’attuale.
In che modo? Con le ricette che gli esperti hanno elaborato. E che le istituzioni europee, d’intesa con i governi nazionali, si preparano a rendere il più presto operative. Sono ricette di una semplicità estrema, quasi elementare, tanto che qualcuno non sufficientemente informato dei fatti potrebbe essere indotto a chiedersi come mai le si scopra solo ora e solo grazie al contributo di cervelli tanto illustri. La verità è che di esse si parla da anni e che sono addirittura già entrate a far parte di programmi comunitari, quelli che promuovono «l’educazione lunga tutto il corso della vita»: senza però che finora se ne capisse a fondo l’importanza e l’urgenza ai fini di organizzare una battaglia risolutiva contro la disoccupazione; e senza, dunque, che ci si impegnasse per utilizzarle al massimo e al meglio.

Finché con la crisi, in particolare con l’impennata dei dati sul numero dei senza lavoro nell’Unione europea, gli elementi di valutazione prima trascurati o non sufficientemente valutati sono balzati in primo piano. E hanno portato gli esperti a riscoprire, si può dire, la scoperta: l’utilità, anzi l’esigenza, di rendere prevalente in tutti i settori produttivi d’Europa la specializzazione professionale.
Da questa constatazione, e dagli approfondimenti e riflessioni fatti su di essa, è maturata una precisa e ferma richiesta alle istituzioni europee. Per battere o almeno ridimensionare la disoccupazione, hanno detto gli esperti, occorre dotarsi di una più diffusa preparazione professionale. E la si deve usare. E al più presto, se possibile subito. Come a chiare lettere già chiede il titolo del rapporto che gli esperti hanno redatto sui risultati della loro ricerca e consegnato lo scorso febbraio alla Commissione europea: Action now!, azione adesso, subito perché – come si documenta nel testo del rapporto – di tempo se n’è perso anche troppo, facendo salire il problema (la disoccupazione) a livelli che potevano essere evitati e di cui subito, senza ulteriori indugi, si deve e si può arrestare la crescita per poi gradualmente arrivare a una diminuzione sempre più sensibile.
Oggi, causa la mancanza nel passato di un’azione adeguata, un lavoratore europeo su tre non ha alcuna specializzazione o l’ha a livelli che sono insufficienti per le esigenze del mercato occupazionale. E per questo, rispetto a chi è in possesso di un livello anche soltanto medio di specializzazione, ha il quaranta per cento di possibilità in meno di trovare un lavoro.
Già questi primi dati del rapporto ci mettono davanti all’incidenza che il grado di preparazione professionale ha su alcune delle più ricorrenti cause di disoccupazione. Altri ci fanno anche capire meglio la natura e l’importanza di tale incidenza. Tra i più specializzati, l’84% ha la possibilità di assicurarsi rapidamente un lavoro. Per i medio-specializzati tale possibilità scende al 70 per cento. Per i privi di specializzazione precipita al 49 per cento. È come dire che un non specializzato su due è condannato in partenza alla disoccupazione. Mentre tra i più specializzati solo uno su cinque rimane senza lavoro.

Da questi pochi ma eloquentissimi numeri si ricava che non sono soltanto le crisi dei mercati, la chiusura di un certo numero di aziende, il ridimensionamento di altre a gettare sul lastrico centinaia di migliaia, se non milioni di lavoratori. Conta molto, a volte principalmente, anche la bassa qualità delle prestazioni che molti lavoratori sono in grado di offrire alle aziende in cui sono o vorrebbero essere occupati. E certamente non avviene a caso.
Il contributo di questi lavoratori, qualora venga accettato, abbassa fatalmente la qualità del prodotto di tali aziende, lo rende poco competitivo, in definitiva crea gravi difficoltà se non addirittura problemi di sopravvivenza per le stesse imprese. Come dire che con la loro scarsa o inesistente preparazione professionale i lavoratori non specializzati, qualora vengano assunti, danneggiano non solo se stessi ma anche i colleghi e i loro datori di lavoro.
In altri termini, il problema della formazione professionale nella società europea – come del resto nelle società di altre parti del mondo – riguarda e coinvolge tutti, non unicamente chi è alla ricerca di un’occupazione. Al punto che può diventare un fattore di primissima importanza per il generale progresso o regresso dell’economia di un Paese. Nel rapporto degli esperti della Commissione si prevede una crescita fino al 10 per cento del PIL in alcuni anni in tutti i Paesi in cui si arrivi a rendere prevalente un’ottima o almeno buona preparazione professionale della grande maggioranza dei lavoratori.
E senza aspettare troppo, già prima che si realizzi questo traguardo si possono ottenere sensibili benefici nelle aziende che in proprio stanno organizzando – e in alcuni casi hanno già organizzato – corsi di aggiornamento professionale per i loro dipendenti, prevenendo, con proprie iniziative, gli interventi che su questa stessa materia dovrebbero essere realizzati dalle istituzioni europee, dai governi, da sindacati, altre associazioni. Queste imprese, sempre secondo gli studi degli esperti, hanno almeno il doppio di possibilità in più di evitare fallimenti o come minimo gravi difficoltà rispetto a quelle dove, in attesa che la mano pubblica intervenga, niente si fa per migliorare la preparazione dei propri dipendenti.
Purtroppo, tanta percezione dell’importanza di un’adeguata preparazione professionale dei lavoratori ai fini della buona salute delle aziende e il conseguente dinamismo manifestato per realizzare in proprio una soluzione del problema è per ora di pochi nel mondo imprenditoriale. Raramente avviene a causa dell’incapacità di guardare oltre il proprio naso, per assenza o scarsità di doti imprenditoriali o, peggio, per grettezza.

Più spesso sono obiettive difficoltà economiche a rendere rischiosa se non impossibile l’organizzazione di corsi per aggiornare e migliorare la preparazione professionale dei propri dipendenti. Tali difficoltà si verificano soprattutto nelle piccole e medie aziende, vale a dire nella maggioranza delle imprese europee.
Il panorama delle aziende dell’Europa comunitaria è infatti dominato dalla presenza di 23 milioni di PMI, Piccole e Medie Imprese, che occupano due terzi della forza lavoro dell’Unione europea e hanno un ruolo da protagoniste nell’economia di gran parte dei Paesi membri. In Italia, per fare un esempio, il 70 per cento del valore aggiunto prodotto è frutto dell’attività di queste aziende. Molte delle quali tuttavia hanno dimensioni microscopiche, sono a gestione familiare o con un pugno di dipendenti e se rispettano le regole, a cominciare da quelle tributarie, sono costrette a spaccare il centesimo di euro in quattro per fare quadrare i conti e sopravvivere. Per cui con le proprie forze raramente sono in grado di organizzare corsi per la specializzazione dei propri dipendenti. Salvo che non ricevano adeguati sostegni.
Meno male che qualche sostegno sembra in arrivo dalle istituzioni europee, dopo che queste hanno ricevuto le raccomandazioni-richieste degli esperti della Commissione per interventi che contribuiscano a rendere sempre più diffusa nell’Unione la preparazione professionale e si stanno organizzando per attuarli con il concorso dei governi nazionali.
Già in passato le PMI hanno ottenuto consistenti aiuti europei. Ora, per loro, si prepara qualcosa di più. È un piano di micro-finanziamenti di cui beneficeranno soprattutto le PMI che, a causa delle loro dimensioni e della modestia del capitale di cui dispongono, hanno difficoltà ad ottenere crediti dalle banche.
Le istituzioni europee hanno pomposamente definito questo piano un «braccio operativo della Strategia di Lisbona 2020». È comunque certo che esso, pur nei limiti dei mezzi disponibili, 500 milioni di euro, costituirà un incoraggiante stimolo per le molte PMI che sembrano decise a non soccombere alle difficoltà del momento e si dimostrano per questo interessate alla grande impresa che le istituzioni europee stanno promuovendo: per aumentare sempre di più il numero degli specializzati tra i lavoratori; e per rendere possibile, con questo e altri piani d’intervento di cui vi parleremo in un prossimo articolo, la resurrezione del sogno del primato mondiale dell’economia europea che la grande crisi, a causa anche di errori dell’Unione, sembrava aver inesorabilmente affossato, ma che ora, grazie alla Strategia di Lisbona 2, sta ritrovando vita e credibilità.

Le tre sfide di UE 2020

UE 2020 rappresenta la prosecuzione del ciclo della Strategia di Lisbona che si conclude nel 2010, la strategia di riforma dell’Unione Europea dell’ultimo decennio che ha aiutato l’Unione ad attraversare la tempesta della recente crisi finanziaria mondiale.
La strategia UE 2020 si fonda sulle realizzazioni conseguite fino ad oggi sotto forma di partenariato per la crescita e l’occupazione, e si differenzia dalla strategia concordata a Lisbona nel 2000 perché affronta nuove sfide: la strategia UE 2020 dovrà concentrarsi su quegli ambiti di intervento chiave che possano migliorare la collaborazione tra l’Unione e gli Stati membri e mirare più in alto grazie ad un uso migliore degli strumenti disponibili.
Il nuovo programma è il programma di tutti gli Stati membri, grandi e piccoli, vecchi e nuovi, più o meno sviluppati. L’Unione allargata è caratterizzata, infatti, da diversi livelli di sviluppo e quindi da esigenze diverse, per questo motivo la strategia UE 2020 può essere modulata in funzione di punti di partenza e di specificità nazionali diversi, al fine di promuovere la crescita per tutti gli Stati.

L’UE 2020 dovrà essere guidata da fattori di stimolo tematici imperniati sulle seguenti tre priorità:

1. Una crescita basata sulla conoscenza come fattore di ricchezza: in un mondo in cui i prodotti e i processi si differenziano in funzione dell’innovazione, le opportunità e la coesione sociale vanno potenziate valorizzando l’istruzione, la ricerca e l’economia digitale.

2. Coinvolgimento dei cittadini in una società partecipativa: l’acquisizione di nuove competenze, l’accento sulla creatività e l’innovazione, lo sviluppo dell’imprenditorialità e la possibilità di cambiare facilmente lavoro sono i fattori essenziali in un mondo che offrirà più occupazione.

3. Un’economia competitiva, interconnessa e più verde: l’UE dovrà essere più efficace in termini di competitività e produttività riducendo e razionalizzando il consumo delle energie rinnovabili e delle risorse, in un contesto in cui l’energia e le risorse implicano costi elevati e maggiore pressione concorrenziale. Un tale approccio consente di stimolare la crescita e di conseguire gli obiettivi ambientali. Tutti i settori tecnologici ne trarranno beneficio. A tal fine, potranno contribuire anche il potenziamento e l’interconnessione infrastrutturale, la riduzione degli oneri amministrativi e una maggiore rapidità dei mercati a sfruttare le innovazioni.

   
   
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