Giugno 2010

Due europe?

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L’Euro col muro nel cuore

Bruno A. Mistretta

 
 
 


 

 

 

 

Secessioni.
Ma c’è una vera voglia di fuggir via dall’euro?
Può darsi che qualcuno ci pensi seriamente, ma intanto c’è la fila per entrare.

 

 

ICP - Milano

Il sillogismo è questo: quando un amore tramonta e la diversità di vedute diventa insostenibile, cercare di attribuire le responsabilità del fallimento è controproducente e peggiora le cose. Meglio allora una separazione consensuale. E si conclude: questo vale per tutto, sia per l’amore sia per il lavoro di gruppo sia infine per l’euro. Quello con la moneta unica fu un matrimonio d’amore. Weberianamente, contro il pessimismo della ragione, i Padri Fondatori chiamarono in causa l’ottimismo della volontà, nella speranza che col tempo le incompatibilità sarebbero state superate. Agli economisti americani, secondo i quali l’Eurozona non era fatta per utilizzare una sola valuta, si ribatté che sostenevano questa tesi o per invidia o per paura, e che la prospettiva era quella dell’euro che una volta o l’altra avrebbe soppiantato il dollaro.
In Europa si erano incontrati gli opposti, si voleva cioè coniugare la diversità. Le aree meridionali del Vecchio Continente erano alla ricerca di un impegno esterno che desse loro la disciplina monetaria e fiscale che non erano state in grado di conseguire da sole. Quelle settentrionali, invece, speravano che il Sud mettesse la testa a posto ed evitasse le continue svalutazioni, che creavano tensioni sui mercati dei cambi e sulle esportazioni: realtà che prima avevano determinato l’attrazione fatale, e in seguito erano divenute insostenibili. Stando alle teorie economiche, queste suggeriscono che per condividere la stessa moneta un’area geografica deve soddisfare due condizioni: che ci sia un’economia sostanzialmente omogenea, perché se parte di essa si basa sul petrolio e parte sull’high tech, la politica monetaria che si addice a una parte non si addice all’altra; e – cosa più importante – che ci sia mobilità interna, del tipo di quella diffusa, ad esempio, negli Stati Uniti, ma che non vale per l’Europa, dove il Nord basato sul manifatturiero avanzato è economicamente molto diverso dal Sud basato sui servizi, cioè prevalentemente sul turismo. Ma la mobilità è molto limitata, e quella che esiste è monodirezionale, diretta cioè dal Sud verso il Nord.
Da quando è stato introdotto l’euro, il Sud ha avuto una crescita dei prezzi più elevata del Nord e una riduzione dei tassi di interesse che ha favorito un boom immobiliare. Fosse accaduto negli Stati Uniti, molti si sarebbero trasferiti negli States meridionali. Non così da noi: tedeschi o olandesi scendono nei Paesi mediterranei semmai per trascorrere le vacanze, non per lavorare. Ora che i prezzi si sono automaticamente allineati e quel boom è finito, il Sud non è più competitivo rispetto al Nord. E poiché non può optare per la svalutazione, ci sono tre sole forme possibili di aggiustamento. La prima richiede che i prezzi a Sud crescano meno che a Nord. Per recuperare differenziali del 20-30% (quali quelli dei Paesi meridionali), il Sud deve subire molti anni di inflazione a tasso zero, o, peggio, di deflazione. Il gran livello di indebitamento privato di Paesi come la Grecia e la Spagna, però, rende la deflazione molto costosa. Se i prezzi calano e il debito resta fisso in termini nominali, ci saranno crolli e fallimenti a catena, colpendo, oltre al settore pubblico, anche quello privato. Un’alternativa è che i Paesi del Nord accettino un livello di inflazione più alto, in modo che quelli del Sud recuperino competitività senza subire la deflazione. Ma questo i tedeschi non lo accetteranno mai, reclamando il rispetto dei Trattati e delle direttive della Bce.

Unica via d’uscita indolore, il guadagno di competitività per l’aumento della produzione. Ma questo richiede riforme, tempo e investimenti. Le prime oggi sono state sollecitate dalla crisi greca, che però ha ridotto drammaticamente i tempi a disposizione e gli incentivi a investire, nello stesso tempo allungando gli anni di disoccupazione a due cifre. Questa analisi è accettata da molti economisti, persino dal Premio Nobel Stiglitz, che non è certo un conservatore.
Il disaccordo nasce sui rimedi. Molti, compreso Stiglitz, sostengono che per superare la crisi attuale è necessaria un’ulteriore integrazione politica e fiscale. Ma ciò dà luogo a due problemi. Uno, politico, è come spiegare ai tedeschi che si devono indebitare maggiormente (e pagare più tasse in futuro) per risolvere i problemi dei greci e degli spagnoli. L’Italia, a 150 anni dall’Unità, vuole attuare un federalismo fiscale che nelle intenzioni della Lega significa ridurre i trasferimenti di risorse dal Nord al Sud. Difficile ipotizzare che le nazioni nord-europee si muovano in senso opposto.
Il secondo problema prospettato è di natura economica. I trasferimenti alleviano i bisogni nel breve periodo – si dice – ma più che risolverli, li rendono cronici. Grazie ad essi, le aree fuori mercato possono rimanere tali, senza aggiustare i prezzi. E si precisa: – Il nostro Mezzogiorno ha un livello di prezzi superiore alla sua produttività media. Sessant’anni di trasferimenti non hanno risolto il problema, lo hanno reso canceroso. Allora, vogliamo meridionalizzare l’Europa? –. E si giunge alla conclusione del sillogismo: per evitare tutto questo, una separazione rapida e pilotata sarebbe il male minore!

Che cosa vuol dire? Vuol dire che creando due blocchi, si consentirebbe al Sud di continuare a detenere una valuta liquida. La svalutazione dell’euro-Sud rispetto all’euro-Nord ridurrebbe il peso del debito pubblico e privato, e permetterebbe un recupero di competitività che rilancerebbe l’economia. Eliminata l’incertezza, (che evidentemente è identificata con la condizione economico-produttiva e con le azioni connesse del Mezzogiorno), gli orizzonti sarebbero rosei, e riprenderebbero persino gli investimenti. Alla luce di tutto questo, perché gli Stati del Sud-Europa non dovrebbero abbandonare la parità con l’euro e trasformare i contratti scritti in euro in contratti in uno svalutato euro-Sud?
Considerazioni col senno del poi: – Una legittima passione per l’unità europea ha accecato i Padri Fondatori dell’euro, illusi che l’Unione europea avrebbe creato anche lo spirito europeo, che invece è formato dalla libera circolazione di uomini, merci e idee, e dall’uso crescente dell’inglese. Anche se ci vorranno secoli e secoli prima che un finlandese consideri un greco alla stregua di un vicino di casa, perché millenni di divisioni non si cancellano nello spazio di qualche decennio –. Un’unione coatta, si aggiunge, non aiuta l’economia, ma neppure una coesione unitaria futura; un divorzio consensuale preserva l’unione economica senza forzare quella monetaria, evitando uno stillicidio devastante di litigi e di recriminazioni.

Qualche domanda per riflettere: quanti anni-luce ci separano da Monnet, da Adenauer, da Spaak, da De Gasperi e dagli altri primi Padri dell’Europa Unita? E di quale Europa si parla oggi? E di quante Europe si parlerà alla prossima crisi, se toccherà il salvadanaio tedesco, o inglese, o francese, o olandese? E infine: era quest’Europa tutta affari, finanza e nazionalismi neanche più carsici quella sognata il giorno in cui la campana del Campidoglio annunciò al mondo la nascita dell’unione dei Sei? È stato (è) l’euro a uccidere gli ideali politici, culturali, civili di quell’Europa?
E ancora: si può venir fuori dalla moneta unica? A norma di Trattati, dall’euro non si può uscire, e ogni discussione potrebbe chiudersi qui. Tuttavia, visto come vanno le cose, non si può escludere alcuna sorpresa, neanche questa. Non è previsto che un Paese esca dall’euro, come non era previsto che uno Stato americano facesse secessione dagli Usa, però storicamente è capitato. Un’eventuale uscita dall’euro certamente non provocherebbe una guerra, ma gli sconquassi economici e politici sarebbero terribili.
Con tutte le cautele che si vuole (soprattutto che la cosa è impensabile), un Paese, come ad esempio la Grecia, potrebbe voler uscire dalla moneta comune perché non riesce a rispettare i vincoli di bilancio imposti per restare; venendosi a trovare con le strade e le piazze in preda a disordini e a scontri costanti anche sanguinosi, Atene potrebbe decidere che è meglio lasciar perdere l’austerità, riprendersi la sovranità monetaria e battere una moneta (una nuova dracma, per dire) che sia libera di svalutarsi quanto vuole, anche a costo di subire una super-inflazione al modo di quella della Repubblica di Weimar negli anni Venti. Come scegliere fra saltare in un burrone o in un altro.

Come ipotesi di scuola, si può fare il caso esattamente opposto, vale a dire quello della Germania che, stufa di pagare per sostenere la Grecia e magari altri Paesi incapaci di rimettere ordine nei loro bilanci, saluta tutti quanti e decide di andarsene via. Ovviamente, senza la Germania non si avrebbe la pura e semplice uscita di uno Stato, ma la fine dell’euro. Il prezzo che i tedeschi pagherebbero per una scelta del genere sarebbe (fra le altre cose) un’iper-valutazione del rinato marco, che potrebbe mandare fuori mercato le merci tedesche destinate all’export.
Sarebbe qualcosa di simile a una dissezione chirurgica in vivo, senza anestesia. Per creare e mettere in circolazione l’euro sono stati necessari molti anni di difficili trattative, su migliaia di questioni particolari; per negoziare una “secessione” ne servirebbero molto probabilmente altrettanti, ma aspettarselo sarebbe una contraddizione logica, perché una vicenda del genere avverrebbe in circostanze economiche drammatiche ed eccezionali che imporrebbero la massima fretta, non lunghi incontri negoziali. Anche questo rende l’ipotesi pressoché impensabile.
Quali sono, al momento, gli Stati in bilico? Vengono designati in sigla come “Pigs”, che in lingua inglese significa “maiali”: Portogallo, Irlanda, la Grecia che abbiamo conosciuto in questi ultimi tempi e con gli aiuti varati in suo aiuto, e la Spagna. C’è anche chi stiracchia la sigla in Piigs, con l’inclusione dell’Italia. Enorme è il debito accumulato dalla Penisola ellenica. Portogallo, Irlanda e Spagna hanno un grande deficit ma un debito pubblico relativamente contenuto. L’Italia ha un debito di proporzioni elleniche, ma un deficit sotto controllo. Teoricamente, era soltanto la Grecia ad apparire priva di speranza senza il sostegno dei Paesi partner. Il dubbio, tuttavia, è che questo sostegno comunque non sia sufficiente, che venga sprecato senza che Atene riesca a tirarsi fuori dal pantano e che si ripresenti all’infinito a chiedere altri aiuti. Questo metterebbe in crisi l’intero sistema della moneta unica.
Ma c’è una vera voglia di fuggir via dall’euro? Può darsi che qualcuno ci pensi seriamente, ma intanto c’è la fila per entrare; l’ultimo Paese a conquistare questo diritto è l’Estonia, che proprio di recente ha ottenuto il primo disco verde tecnico all’ingresso nella moneta europea nel 2011. L’Estonia si aggiunge ai 16 attuali Stati, che sono Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Olanda, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna. Fra i Paesi dell’Ue che ancora non hanno aderito all’euro figurano Gran Bretagna, Danimarca e Svezia (che non hanno voluto) e alcuni Stati dell’Est, come la Lituania, la Lettonia, la Polonia, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, la Repubblica Ceca (che non hanno potuto, perché le loro economie sono ancora lontane dal livello occidentale). Altri Paesi, come il Vaticano, la Repubblica di San Marino, il Principato di Monaco, hanno adottato l’euro, pur non facendo parte dell’Unione europea.

   
   
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