Giugno 2010

speculazioni e paesi impreparati

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Il grande errore

Carlo Azeglio Ciampi

 
 
 


 

 

 

 

Se parliamo di politica, non c’è dubbio che in campo europeo si siano fatti passi indietro, è duro e amaro ammetterlo.
Ma l’Europa come obiettivo non può restare soltanto un sogno degli europeisti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Persa la fiducia sulle possibilità di autogoverno dell’Italia, Carli vide nel Trattato di Maastricht il vincolo esterno per indurre il Paese a rinunciare ai suoi vizi...

 

 

Madrid: Le statue di Don Chisciotte e di Sancho Panza, ai piedi del monumento a Cervantes, in Piazza di Spagna.

Matteo Mazzei

Non mi aspettavo una crisi così forte e improvvisa della moneta comune. Almeno, non di queste dimensioni. Ma se ripenso ai giorni in cui l’euro fu deciso, devo essere sincero: ci eravamo ripromessi, tutti quanti i rappresentanti dei Paesi dell’Unione europea che avevano deciso di dar vita al sistema della moneta unica, di adoperarci per un più forte coordinamento delle politiche economiche dei governi.
Avevamo la sensazione, chiarissima, che non sarebbe bastato il rispetto di ciascuno di noi per la disciplina che avevamo scelto, il famoso tre per cento del rapporto tra Prodotto interno lordo e debito pubblico imposto da Maastricht. Occorreva anche continuare il lavoro comune per far sì che insieme con il comportamento virtuoso dei singoli, necessario per restare all’interno del sistema, si facesse strada una forma di collaborazione più intensa e continuativa, dalla quale l’Unione europea nel suo complesso sarebbe uscita rafforzata.
L’auspicio era approdare a quell’Unione politica, e federale, a quegli Stati Uniti d’Europa, che all’epoca era lecito sognare e che invece nel tempo si sono rivelati obiettivi molto più difficili da raggiungere.
L’obiettivo era esattamente questo. Anche se a Bruxelles, quando l’euro fu varato, si parlava soltanto di moneta unica e di coordinamento delle politiche economiche. C’era un nesso evidente tra la decisione di entrare in un’epoca nuova, superando le difficoltà, e anche qualche diffidenza, che fino all’ultimo rischiavano di compromettere tutto, e l’impegno a fare in modo che il legame tra i diversi partners fondato sulla moneta unica si sviluppasse con comportamenti coerenti, dei quali tutti dovevano essere al contempo responsabili e garanti.
È esattamente questo che è mancato, o non è andato come si sperava. Ed è per questo che oggi ci siamo trovati a fronteggiare questa brutta crisi.

La storia è nota. L’istruttoria per l’ingresso nella moneta comune fu molto severa per il primo gruppo di Paesi candidati, compresi noi italiani, che dovemmo fare una delle manovre più dure della storia del dopoguerra per raggiungere i requisiti richiesti dal sistema. Invece, al momento dell’allargamento ci fu meno severità: in questo senso, non soltanto la Grecia, ma anche altri Stati era chiaro che entravano firmando una serie di obblighi che dovevano rispettare, e di tappe successive che nel tempo non hanno raggiunto. Proprio perché molti di noi dovettero affrontare sacrifici importanti, oggi dovremmo chiederci se sarebbe stato meglio non essere di manica larga. E se questa è la domanda, la risposta è senz’altro sì. Il rigore avrebbe dovuto essere lo stesso per tutti.

L’ampliamento è stato un errore. Sarebbe stato un rischio calcolato se, come ho scritto prima, insieme con l’euro fosse andato avanti il rafforzamento della collaborazione e del coordinamento in fatto di politiche economiche. Cosa che purtroppo non è avvenuta, con le conseguenze che abbiamo visto.
Ha pesato in qualche modo anche il progressivo indebolimento della rete di rapporti tra i partners dell’Unione. Nei dodici anni, dal ‘98 ad oggi, l’Europa ha stentato: la Costituzione europea è nata male, è stata subito abbattuta dai referendum che dovevano ratificarla, e ha dovuto essere ridimensionata drasticamente. Il sentimento di coesione della Comunità, anche se è difficile misurarlo, è spesso travolto da egoismi e particolarità perfino sub-nazionali.
Dunque, se parliamo di politica, non c’è dubbio che in campo europeo si siano fatti passi indietro. È duro ammetterlo, e lo faccio con amarezza. Ma l’Europa come obiettivo non può restare soltanto un sogno degli europeisti.
In ogni caso, io non credo che la speculazione l’avrà vinta, anche se è un fatto che bisogna sempre aver presente. È come una scommessa: chi la fa, certo, spera di vincere, ma intanto guadagna già solo giocandola. Il sistema ha tutti gli strumenti per combatterla. Tanto per cominciare, penso alla Banca centrale europea. E anche ai governi. Anche i meno convinti sanno che l’ingresso nell’euro ha significato per tutti un punto di non ritorno. Siamo come su un aereo che è appena decollato: l’unica cosa da non fare è cercare di riprendere terra. E, se possibile, dobbiamo cercare di volare più alto.

La finanza imperfetta
La lezione di Carli
Paolo Savona

La crisi finanziaria americana e quella greca hanno evidenziato i difetti del sistema monetario internazionale ed europeo. Ad entrambe le costruzioni Guido Carli ha dato un contributo di rilievo come Governatore della Banca d’Italia e come ministro del Tesoro, guidato da una duplice ispirazione: propiziare una stretta cooperazione economica internazionale e creare una moneta per gli scambi mondiali sganciata dalle monete nazionali (il dollaro, ma anche l’euro, giusto per intendersi).
Partecipò attivamente alla messa a punto degli Sdr, la quasi-moneta internazionale, e dell’euro, la moneta europea, mosso da diversi intenti: per i primi, quello di attuare la proposta di Keynes di realizzare uno standard internazionale che sostituisse l’oro, divenuto un riferimento non più rispondente alle esigenze di governo degli scambi mondiali; per i secondi, dalla sfiducia sulle possibilità che i gruppi dirigenti italiani seguissero comportamenti coerenti con le necessità della competizione internazionale.
Mosse però vivaci critiche per i modi in cui questi accordi furono attuati.
Stati Uniti e Germania posero infatti tali vincoli al funzionamento degli Sdr che non poterono funzionare, e il mercato provvide a darsi una propria moneta, creando gli eurodollari. L’espropriazione della sovranità monetaria americana indusse l’amministrazione Nixon a rinunciare alla convertibilità del dollaro in oro, lasciando liberi i Paesi di scegliere i cambi fissi, cosa che fece la Cina per aiutare le sue esportazioni.
Da allora, la volontà degli Stati di cooperare è andata scemando, finché Margaret Thatcher e Ronald Reagan lanciarono il messaggio “liberi tutti”, che il mercato raccolse e nel giro di pochi lustri usò per moltiplicare il volume mondiale di finanza tradizionale e innovativa, anche beneficiando della non proprio benevola disattenzione delle autorità di controllo.
Per l’euro le vicende mondiali avevano esaltato la necessità dell’Europa di darsi una propria moneta e Carli, persa la fiducia sulle possibilità di autogoverno dell’Italia, vide nel Trattato di Maastricht il vincolo esterno per indurre il Paese a rinunciare ai suoi vizi: quelli di svalutare la lira per competere e spingere sui deficit di bilancio e sull’indebitamento pubblico per tentare di stare meglio. Chiamò questa soluzione politica cooperazione passiva, per distinguerla da quella attiva, spontaneamente prestata.
Egli era però cosciente che gli accordi internazionali ed europei erano imperfetti e mi chiese di riprendere gli studi sulla riforma dell’architettura globale degli scambi che avevamo condotto insieme in Banca d’Italia.
Nel mio lavoro Sugli effetti macroeconomici dei derivati (Luiss Press, 2010) sostengo che, se Carli fosse stato in vita, avrebbe messo in guardia colleghi e pubblica opinione sulla pericolosità della libera espressione dei contratti derivati e forse lo avrebbero anche ascoltato se non si fosse prepotentemente affermata la teoria, priva di fondamenti pratici, dei mercati finanziari perfetti, che ci ha portato al disastro del 2007-2009.
Ho oggi la stessa perplessità sulla possibilità che Carli avesse potuto contrastare la ripresa dei vecchi vizi nazionalistici della Germania, la quale ha inflitto all’euro e all’Unione europea una ferita grave, ancor più di quanto non abbia fatto la Grecia.
Sono però certo che egli avrebbe alzato la voce per invocare una stretta cooperazione internazionale, atteggiamento oggi non consueto tra i gruppi dirigenti dei principali Paesi mondiali.

   
   
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