Giugno 2010

cronache dei nostri giorni

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I seicento secondi
che hanno sconvolto le Borse

Maxim H. Volker

 
 
 


 

 

 

 

Dieci minuti.
La Borsa più famosa del mondo ha perso il diritto ad essere il faro del capitalismo internazionale, il metronomo che batte il tempo per l’economia mondiale.

 

 

La rassegnata attesadi un operatore della Borsa di Shanghai durante la crisi dello scorso inverno.

Archivio BPP

Dieci minuti da brivido vissuti dalla Borsa di New York sono degni della penna degli scrittori di gialli surreali, capaci di mettere a nudo i difetti di un sistema che tutti ritenevano quasi perfetto. I fatti sono noti. Un bel pomeriggio primaverile, l’indice Dow Jones ha perso il 10 per cento prima di rimbalzare in modo altrettanto violento e chiudere in lieve perdita. Il problema è che, a distanza da quel crollo improvviso, nessuno è riuscito ancora a rispondere alla domanda: – Come mai? –.
Investitori grandi e piccoli, in ogni angolo del mondo, hanno perso miliardi di dollari quando il più grande mercato azionario del pianeta si è trasformato in una gigantesca montagna russa, senza che il governo americano, le banche d’affari e gli operatori di Borsa riuscissero a capire che cosa stesse succedendo. Alcuni presunti “esperti” hanno parlato di «errore di un venditore» che, volendo cedere un grosso pacchetto azionario, avrebbe scritto sulla tastiera “miliardi” al posto di “milioni”.
Altri hanno dato la colpa ai super-computer che dominano le Borse statunitensi ed europee, cervelloni che comprano e vendono titoli ad una velocità che nessun essere umano può frenare. Gli psicologi dell’ultima ora, infine, hanno parlato dell’insicurezza cronica di mercati che per mesi hanno dovuto digerire le cattive notizie provenienti dalla Grecia e da altri Paesi del Vecchio Continente.
Ma anche se tutte queste ragioni fossero vere, la Borsa newyorkese dovrebbe avere regole e infrastrutture che non le consentano di comportarsi come ha fatto. La vera perdita subita dai mercati americani è molto più grave dei passivi finanziari di migliaia di investitori. In quei 600 secondi di fuoco, la Borsa più famosa del mondo ha perso il diritto ad essere il faro del capitalismo internazionale, il metronomo che batte il tempo per l’economia mondiale.
Prima o poi le perdite del Dow, del Nasdaq e della miriade di piccole Borse che sono colate a picco in quei dieci preziosi minuti saranno recuperate. La legge del mercato è simile alle storie d’amore raccontate dai cantautori alla Lucio Battisti: – Discese ardite / e risalite / su nel cielo aperto / e poi giù il deserto / e poi ancora in alto / con un grande salto… –. L’unica certezza nel mondo arcano della compravendita di azioni è che un mercato ribassista – o “mercato dell’orso” nel gergo anglosassone – è sempre seguito dal “mercato del toro”, in cui gli indici salgono e gli investitori guadagnano. E viceversa.
Perdere la faccia, però, per una Borsa che dipende dalla fiducia di investitori e operatori è come perdere la verginità: non si può più tornare indietro. Come ha detto un santone dell’analisi finanziaria Usa: «Non è tanto che non sappiamo esattamente cosa sia successo, ma che sappiamo fin troppo bene che la liquidità di mercati che pensavamo solidi e robusti è evaporata in un battibaleno».
E se le Borse di Londra, di Hong Kong e Tokyo – le gran di rivali di New York – pensano di poter approfittare delle disgrazie altrui, si sbagliano di grosso. La débâcle di Wall Street ha avuto ripercussioni in tutto il mondo (persino il petrolio, quotato a Londra, quel giovedì pomeriggio è sceso precipitosamente), e investitori che sono stati bruciati sul mercato-guida non si spostano sicuramente su Borse più rischiose e meno liquide.

Gli operatori newyorkesi, almeno quelli più seri e intelligenti, avevano capito subito la gravità della situazione. Ad un certo punto, il baccano caotico della sala di contrattazione del palazzone neo-classico che sorge all’angolo tra Wall Street e Broad Street, appena il Dow aveva cominciato a crollare, si era trasformato in un silenzio di tomba. Nelle sedi delle banche d’affari, operatori che ne hanno viste di tutti i colori erano sbalorditi: non c’era nulla da fare, se non fissare uno schermo che era diventato tutto rosso. In quindici anni di attività finanziaria non era mai capitato di assistere ad una simile situazione d’impotenza. Un’impotenza sincera e disperata.
Il motivo per cui gli operatori erano passati da protagonisti a spettatori delle convulsioni del mercato era dovuto alla rivoluzione tecnologica e strutturale delle Borse americane negli ultimi decenni. L’invenzione di computer sempre più potenti ha trasformato il modo in cui gli investitori interagiscono con i mercati. Fino alla metà del XX secolo, la Borsa di New York aveva funzionato più o meno come era stato deciso nel 1792 nell’“Accordo del Platano”, il Patto tra 24 brokers riuniti sotto un albero nelle vicinanze di Wall Street che creò il nucleo del primo Stock Exchange (Nyse).
L’avvento del super-computer ha fatto sì che il mercato fosse in grado di trattare molte più azioni, molto più velocemente e a prezzi molto bassi (il costo-base di una transazione è passato da una media di 12 cents a meno di un cent) da permettere a milioni di risparmiatori di giocare in Borsa. La “democratizzazione” del mercato è avvenuta a spese degli operatori. Se le casalinghe di un paese sperduto in qualunque Stato americano potevano comprare General Electric e Ibm dalla camera da letto con un clic del mouse, che bisogno c’era di tutti quei signori che si agitavano e urlavano numeri sgomitando di fronte a un tabellone pieno di cifre? E così, negli ultimi dieci anni, gli esseri umani – i rumorosi, costosi e fallibili esseri umani – sono stati esclusi dal tourbillon che chiamiamo mercato. Oggi, più del 90 per cento degli ordini eseguiti al New York Stock Exchange sono automatizzati.
Allo stesso tempo, i prezzi relativamente bassi delle nuove tecnologie hanno facilitato la nascita di mercati alternativi al vecchio Stock Exchange. Banche d’affari hanno creato “stagni sicuri” – mini-Borse che consentono ai loro clienti di comprare e vendere azioni in privato senza rivelare il prezzo ai loro rivali. Altri operatori di mercato – come il Nasdaq, che in tempi non lontani era dedicato a società di tecnologia e telecomunicazioni – hanno approfittato del progresso tecnologico per offrire azioni trattate sul Nyse.
Il risultato è stato una frammentazione che rende praticamente impossibile – ai regolatori, agli investitori e agli operatori – avere una visione completa dei mercati. Nel 2009, solo il 18 per cento del volume di mercati è passato attraverso il Nyse.
Come se non bastasse, la possibilità di fare soldi (moltissimi soldi) usando il computer per sfruttare piccole discrepanze di prezzo tra un mercato e l’altro ha spinto generazioni di laureati in matematica e fisica a creare algoritmi complicatissimi da applicare alla compravendita di titoli. La velocità con cui questi fondi “algos” agiscono li ha trasformati nei re del mercato. In un giorno normale, questi investitori senza faccia e senza una strategia chiara muovono circa due terzi del volume dei mercati americani.

La mancanza di regole comuni tra tutti questi attori è una delle ragioni del crollo di primavera. A differenza del Nyse, per esempio, il Nasdaq non ha un meccanismo per “rallentare” il mercato quando gli indici calano – una differenza che ha permesso ad investitori che volevano vendere ad ogni costo di disfarsi di titoli a prezzi bassissimi.
E mentre gli operatori del Nyse sono obbligati a ricevere ordini in tutte le condizioni, gli “algos” possono ritirarsi dal mercato in momenti di crisi – un fattore che ha fatto evaporare la liquidità e che ha esacerbato la caduta del Dow.
La confluenza quasi miracolosa di tecnologia e cervelloni (sia umani che computerizzati) ha portato dei vantaggi immensi ai mercati Usa, contribuendo alla crescita del settore bancario americano e consolidando la posizione di New York come capitale della finanza mondiale. Ma ha anche dato origine a un sistema così astruso e complesso, che è impossibile da sorvegliare e che non può essere bloccato quando diventa ingestibile. Come con la crisi dei subprime, la passione di Wall Street per creare prodotti nuovi e lucrativi ha generato un mostro che i suoi stessi artefici non sono più in grado di controllare. Proprio per questo, forse, gli operatori farebbero bene a leggersi Frankenstein, il celebre capolavoro di Madame Shelley. Al più presto.

   
   
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