Giugno 2010

il (brutto) vento che tira

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Sfascisti d’Europa e d’Italia

Aldo Bello

 
 
 

Per la speculazione mondiale un’Italia smembrata ad opera degli sfascisti, liberata da una “zavorra” meridionale e identificata in un Bordello, può diventare una splendida preda.

 

 

Michelangelo Buonarroti, “Il Profeta Ezechiele”, Cappella Sistina in Vaticano, Roma.

Si dirà che ai meridionali manca il senso dell’umorismo, ed è vero. Ma avevano almeno, come riconobbe l’eccelso Quintiliano, l’esclusiva planetaria della satira («Satura tota nostra»). Avevano: perché pare che il primato sia passato di mano, trasferendosi nientemeno che agli inglesi, e in particolare a certi circoli snob che ruotano attorno al settimanale “Economist”, che si è esercitato a disegnare un risibile riassetto dell’Europa contemporanea, tirando fuori una fanta-carta geografica del Vecchio Continente (la proponiamo al giudizio di chi legge a pag. 12, N.d.R.): in questo modo dandoci il destro di considerare quanto la parabola dell’antropologia culturale britannica, con i tempi che corrono, sia in caduta libera; e di riderci su, ma ridere d’un sorriso amaro, sebbene tutto valga la pena, fuorché lasciarsi andare al malumore per le scemenze di un giornale notoriamente nemico dell’Italia.

Come “ragionano” gli spiriti raffinati dell’“Economist”? Se abbiamo un vicino di casa noioso – scrivono – noi possiamo andare ad abitare in un altro quartiere. Se invece di una casa si tratta di un Paese, ciò è impossibile. Constatazione cosmicomica, che è alla base della fanta-ipotesi: si potessero riposizionare i Paesi, tenendo conto delle affinità di modelli esistenziali e delle specularità delle situazioni socio-economiche, l’Inghilterra (non più Regno Unito, ma in compagnia del Galles e dell’Irlanda del Nord debitamente separati) andrebbe spostata e ancorata nell’Atlantico, accanto alla Penisola Iberica, nelle immediate vicinanze delle Azzorre; la Germania, l’Olanda e la Francia – bontà loro – potrebbero restare dove sono, al modo del Portogallo e della Spagna, che pure sono – ma il giornale non sembra essersene accorto – sull’orlo del baratro; le tre Repubbliche Baltiche dovrebbero ormeggiarsi sulla sinistra, e la Polonia sulla destra dell’Irlanda; la Svizzera dovrebbe incastonarsi nell’ascella di mare creata dai territori meridionali della Svezia e della Norvegia, cedendo lo spazio a un’Austria spostata leggermente ad ovest; la Repubblica Ceca dovrebbe prendere il posto di un Belgio spostato dalle parti dell’Ucraina e della Slovacchia, dove alcuni pezzi di territori di varie etnie e di antiche e variabili appartenenze dovrebbero prendere il nome di Ruritania e di Syldavia, mentre Ucraina, Russia e vecchia Slovacchia dovrebbero distaccare un piccolo territorio da denominare (ma va là!) Vulgaria, e la Romania dovrebbe essere separata dalla Russia dalla Moldova.

Finito qui? Nient’affatto. Rimpicciolita la Serbia, ampliata la Bosnia, riconosciuta l’indipendenza del Montenegro, ricacciata dalle rive dell’Adriatico la Slovenia, accresciuta la Croazia. (E tutto questo mi ricorda un vizio congenito dei britannici, reso emblematico dal dito di Churchill che disegnò i territori dei Paesi del Vicino e del Medio Oriente, creando le premesse per i conflitti infiniti che contraddistinguono la storia di quei due scacchieri e che ancora oggi mettono in pericolo la pace mondiale. Ma lo sapevano i saccenti dell’“Economist”?).

Il folgorante lampo di genio emerge a questo punto. Oggetto della spocchia riordinatrice del foglio britannico, il riposizionamento dell’Italia. Anzi, delle due Italie (altra esilarante intuizione!): quella del Nord dovrebbe realizzare una nuova alleanza regionale, dando luogo ad una confederazione guidata – in nome dei tempi moderni – da un Doge veneziano; mentre il Sud, incluse la Sicilia e la Sardegna, e soprattutto compresa Roma, dovrebbe andare per conto proprio, col nome ufficiale di Regno delle Due Sicilie (chi lo avrebbe mai immaginato?), ma con soprannome speciale: Bordello. Sublime l’eleganza espressiva del coltissimo estensore della pistolessa. Ma con un infortunio freudiano. Il Bordello immaginato dai galantuomini del settimanale coincide esattamente con la Magna Grecia, cioè con la terra che fra gli altri annoverò – citiamo a caso – Parmenide, Pitagora, Archimede, e Nosside e Archita, e accolse Pitagora, e fondò scuole di filosofia e di medicina, e visse epopee che diedero origine a civiltà di altissima levatura all’epoca in cui i britanni, al massimo, potevano ostentare scarsi miti elementari.

E sarà per questo che le proiezioni di pensiero si possono cogliere in filigrana in ciascuna delle parti in causa, in questa grottesca e meschina vicenda: la gente del Sud ha la consapevolezza di appartenere ad una cultura che è ancora oggi matrice di un pensiero che malauguratamente sfugge all’esangue apparato meningeo degli scribi londinesi; i quali, dal canto loro, altro non sanno fare che consigliare un’unione monetaria extra-euro del Sud d’Italia con la Grecia che sprofonda nella crisi. Tutto ignorando, poveri pellegrini: sul piano economico, che Atene ha un rapporto tra deficit pubblico e Pil (-9,4 per cento) inferiore a quello registrato dalla Spagna (-11,4 per cento) e dalla stessa Inghilterra (-12,8 per cento), senza che questi due Paesi siano considerati vicini alla bancarotta; e sul piano storico, civile, culturale, che la Grecia è la Grande Madre, e che Megale Ellas – il Sud d’Italia, appunto – ne è la nobile proiezione, malgrado tutto ciò che storia e cronache registrano sul libro nero dei millenni; e, infine, che quanto ad autori di insolenze, di oltraggi, di villanie nei confronti del Sud e dei meridionali l’Italia ha un’indiscussa primogenitura. Arrivano buoni ultimi, i volgari pennivendoli del settimanale anglico; e arrivano dall’alto dell’ignoranza della stessa storia della loro società, se definiscono Bordello le Due Sicilie, quando proprio la loro terra contribuì a creare un postribolo planetario, spedendo in una loro colonia australe, al fine di popolarla, il meglio dei galeotti ristretti nei bagni penali indigeni, e il fior fiore delle baldracche che infestavano i quartieri, le darsene e i sordidi angiporti di Londra e delle altre città portuali di Sua Maestà.

Un casino continental-popolare, tirarono su, esperti di lupanari come dovevano essere, evidentemente, assai più dei mediterranei italiani che vorrebbero mandare alla deriva egea.

Passiamo a discorsi responsabili. «Non sarebbe serio né corretto parlare di un effetto contagio della Grecia su altri Paesi, tra cui l’Italia». A dirlo non è stato un ministro con dovere di rassicurazione o un analista con difetto di visione. È stato, nel pieno della caduta dell’euro e delle Borse, il Segretario generale dell’Ocse, Angel Gurría, il quale, in sintesi, ha promosso l’Italia, dandole una magnifica prospettiva: nel prossimo decennio il nostro Paese può riuscire a crescere del 14 per cento, un 1,4 per cento l’anno, che però si concentrerà soprattutto nel secondo quinquennio. Ed è qui la scommessa che occorre preparare per costruire la ripresa.

Qualcuno ha scritto che stiamo vivendo più che mai nella Storia. E un orizzonte più ampio della cronaca quotidiana è necessario per provare a comprendere che cosa sta accadendo e che cosa potrebbe accadere. I soprassalti di oggi sono, in parte, conseguenza delle scelte giuste, ma anche degli errori commessi dieci anni fa. Però gli errori non possono essere una ragione per tornare indietro nella Storia, appunto. Né tantomeno possono giustificare nuovi sbagli. A livello di dibattito, com’è accaduto in tempi recenti, possiamo esercitarci a pensare che forse sarebbe stato meglio lasciare Atene al suo destino. Ma è singolare che ci sia ancora nell’opinione pubblica chi si domanda: perché dobbiamo contribuire a salvare la Grecia? Basta una sola risposta: perché nessuno è in grado di stabilire quanto ci potrebbe costare se ci lavassimo le mani. Forse ben più dei cinque miliardi che rappresentano la quota tricolore nel paniere della salvezza.

La Storia non passa senza effetti, e fra questi non c’è soltanto il prezzo più conveniente delle case nelle isole greche. Lo shock che arriva dal Peloponneso, dopo quello molto più micidiale giunto da Wall Street, potrebbe diventare anche l’occasione per accelerare interventi e scelte che sarebbero stati comunque inevitabili. E costringerci alla crescita.

Quel 14 per cento nei prossimi dieci anni è un obiettivo non impossibile, che può impegnare non soltanto le forze politiche, ma anche la classe imprenditoriale del nostro Paese. Anche perché non si parte da zero. Negli ultimi anni sono stati ridotti i costi delle procedure normative, sono stati liberalizzati i mercati dei prodotti e la pubblica amministrazione è stata modernizzata: lo riconosce l’Ocse, che ci invita a darci una mossa a mettere un po’ d’ordine in fatto di professioni, commercio ed energia, presupposto per una buona ripartenza.

È vero, il debito resta e l’alternativa necessaria, anche per affrontare una probabile restrizione dei criteri di Maastricht, è tornare a crescere, magari cavalcando anche (ma senza esagerare) i vantaggi dell’euro debole. Al governo toccherà continuare nella gestione accorta della spesa e soprattutto nella definizione di regole chiare e stabili che rimuovano dall’Italia quella nube costante di provvisorietà che tiene lontani i grandi investimenti. Agli imprenditori tocca fare la loro parte: credere nel loro business, investire nelle aziende, affrontare i mercati con determinazione. I segnali di una rinnovata convinzione non mancano. Uno per tutti: nel 2009 sono cresciuti i patrimoni netti delle imprese, malgrado il calo dei fatturati. Ci sono, dunque, la voglia di resistere e le risorse per rilanciare. L’euroshock ora le fa diventare l’ingrediente necessario per la ripresa del Paese. Di tutto il Paese, come diremo tra breve.

Mentre si è evitato l’avvitamento della Grecia, ci si chiede quale potrebbe essere la prossima vittima. Mettiamo da parte l’Irlanda, che ha stilato un programma di risanamento credibile, e che non sembra nel mirino della speculazione internazionale. Restano il Portogallo e la Spagna. Il primo ha un debito pubblico e privato terribilmente alto (233 per cento del Prodotto interno lordo, secondo i calcoli del “Financial Times”), ma ha un Pil pari all’1,8 per cento di quello dell’intera Eurozona, e non è quindi una preda ambita. Diverso, invece, il caso della Spagna: un Paese di 45 milioni di abitanti, con un Pil pari a 1.350 miliardi di dollari (11,7 per cento dell’Eurozona) e un reddito individuale annuo di circa 30mila dollari. Che cosa accadrebbe se la speculazione decidesse di aggredire anche la Spagna, alla quale è stato abbassato di recente il rating sul debito (sceso ad AA)?

La speculazione non è stupida e non ama correre troppi rischi. Quando parte alla scoperta di una nuova vittima, la sceglie fra i Paesi che sembrano meno capaci di riconquistare la credibilità e la competitività con un rigoroso programma di riduzione della spesa pubblica e con misure che facciano intravedere una rapida ripresa economica. Però per gli investitori internazionali il rischio-Spagna è superiore a quello della Turchia (il sorpasso è avvenuto alla fine di aprile). Forse il miglior modo per valutare questo rischio è quello di confrontare la sua crisi con quella della Grecia. La quale appare recente perché è stata nascosta all’opinione pubblica mondiale, ma è iscritta da sempre nelle caratteristiche di un Paese che ha vizi non sconosciuti agli italiani: un elevato tasso di corruzione, una diffusa criminalità, un sistema politico ampiamente clientelare. Il problema, dunque, non è solo contabile.

Per venir fuori dalla crisi, la Grecia deve cambiare la cultura dei suoi cittadini, costringere la propria funzione pubblica a una severa cura dimagrante, togliere denaro ai settori parassitari per indirizzarlo verso attività economiche in cui i greci, del resto, hanno dimostrato di avere intelligenza, fantasia e spirito d’iniziativa.

Il caso della Spagna è diverso. Questo Paese ha una struttura industriale meno avanzata di quella italiana, ha commesso l’errore di scommettere, per il proprio sviluppo, sulla continua crescita del settore immobiliare, e ha un alto debito del settore privato. In cambio, ha una buona burocrazia, non clientelare, con un forte senso dello Stato; non ha cartelli del crimine; ha un buon sistema bancario, e, a differenza di altri Paesi mediterranei, ha fatto buon uso dei fondi strutturali comunitari.

Esiste poi un altro fattore a suo vantaggio. Le banche tedesche sono esposte verso la Spagna per una somma pari a 238 miliardi di dollari, una cifra quasi cinque volte quella delle loro esposizioni verso la Grecia e verso il Portogallo. E non hanno alcuna intenzione di perdere i propri quattrini.

Quando è precipitata la crisi greca non si è salvata nemmeno l’apparenza. Il presidente della Banca centrale europea e il direttore generale del Fondo monetario internazionale si sono precipitati non a Bruxelles, ma a Berlino. Perché ormai è la Germania ad avere il bastone di comando in Europa. C’è chi dice che non c’è niente di male, perché è ovvio che nella grande crisi 2008-2009 l’architettura barocca dell’eurocrazia abbia ceduto il passo alla sostanza, quella di chi ha il peso economico maggiore nell’Eurozona. Solo che la Germania odierna il potere europeo lo esercita male. In apparenza si è trincerata dietro una linea di virtù dei conti e di rigore contro chi sgarra. In realtà, ha scelto la demagogia elettorale, anteponendo l’elezione in un Land, (quello del Nord Reno-Westfalia, dove ad Angela Merkel è andata proprio male), alla credibilità dell’euro. Che cosa sarebbe accaduto se una scelta del genere fosse stata fatta da qualche altro partner europeo?

Al contrario, da un paio d’anni a questa parte c’è chi in Europa ha tentato di far pesare una condotta diversa. L’Italia e la Francia ci hanno provato tre volte. Nella primavera 2009 hanno proposto che alla crisi dell’economia reale sul versante dell’offerta si replicasse non con piani nazionali, ciascuno secondo le proprie disponibilità di deficit, che avrebbero aggravato la posizione dei Paesi già in difficoltà, com’è avvenuto puntualmente, ma con un piano europeo. I tedeschi hanno risposto picche. Nell’estate-autunno 2009 Roma e Parigi hanno rilanciato ancora, proponendo che almeno su infrastrutture e ricerca si approntasse uno strumento europeo, attingendo al mercato finanziario, e con garanzia europea invece che nazionale. E i tedeschi hanno risposto ancora una volta no. Da metà gennaio di quest’anno, quando i titoli greci e portoghesi hanno cominciato a non trovare più fiducia sui mercati e si è capito che si andava dritti nella fossa in cui ci si trova oggi, italiani e francesi hanno riproposto una strada che non fosse di prestiti bilaterali (che in Germania devono passare per il Bundestag e le forche caudine del neo-nazionalismo germanico), bensì un Fondo monetario europeo, con autonomia d’intervento in nome dell’interesse comune. Testardamente, i tedeschi hanno ribadito il loro no.

Solo nella notte tra il 9 e il 10 maggio, poiché le Borse europee rischiavano il tracollo, sono stati costretti a dire di sì a un Fondo di 750 miliardi (60 della Commissione, 440 in prestiti bilaterali e garanzie forniti dall’Eurozona, ma con sfilamento del Regno Unito, e 250 del Fmi), mentre si deliberavano 30 miliardi iniziali a favore di Atene.

L’Italia sa bene che cosa significherebbe una crisi dell’euro che la riportasse a svalutazioni in cui si annegano debito pubblico crescente e minore competitività. È questo che sfugge alle ferrigne classi dirigenti tedesche dei nostri giorni. Da due anni Berlino ha impedito che alla crisi economica e finanziaria peggiore degli ultimi settant’anni si replicasse con strumenti adeguati. Un tempo, gli anti-europei stavano solo a Londra. Oggi stanno anche nella capitale tedesca. Due grandi illusioni nazionaliste che talvolta hanno dato molto all’Europa. E altre volte ci sono costate lacrime e sangue.

Giunta sull’orlo del baratro, avendo compreso fra l’altro che non sarà facile ormai allargare l’Eurozona, (per esempio, con l’inclusione della Turchia), l’Europa dell’euro si è mossa massicciamente e a velocità insolita per contrastare gli attacchi ai titoli pubblici dei suoi singoli Stati, che, come aveva spiegato il presidente della Bce, sono in realtà un attacco all’euro-sistema volto a scardinarlo nel suo complesso.

Il comunicato di Moody’s, che chiamava in causa in modo immotivato l’Italia, assieme alla Spagna e al Portogallo, era un chiaro sintomo di un grande assalto. E il fatto che Moody’s (che non è poi così indipendente come si dice, perché è posseduto da grandi “hedge fund”, ossia “fondi di investimento speculativi”) abbia poi emesso un ulteriore comunicato rassicurante sul nostro Paese non deve trarre in inganno. Nel frattempo, la Borsa era caduta e chi voleva guadagnarci ci aveva guadagnato. Ma in questo modo i ribassisti hanno anche saggiato la vulnerabilità e la capacità di reazione dell’euro-fortezza.

Che tempi si profilano, allora, per l’Italia? Non rassicuranti, a giudicare dalle vicende della politica interna. È stata evidente l’irritazione del Quirinale per la doppiezza leghista a proposito delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità. Qualcuno ha ricordato che – al di là dei comportamenti parolai e sguaiati di alcuni esponenti del Carroccio – i ministri leghisti vivono una palese contraddizione, avendo giurato sullo Statuto della Lega (“Il Movimento politico... ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania”, art. 1) e sulla nostra Costituzione (“La Repubblica è una e indivisibile”). “Duplice lealtà” significa certa slealtà nei confronti del Paese condannata da parlamentari, intellettuali, giornalisti con una lettera-appello inviata ai presidenti di Camera e Senato, rimasta senza risposta; e oggetto di un’interrogazione al ministro leghista dell’Interno, e dunque al governo, che ha schivato subdolamente il chiarimento in sede di “question time”, costringendo gli autori a trasformarla in un’interrogazione parlamentare, anche questa finora inevasa.

Ma i parlamentari leghisti fanno sapere dai salotti televisivi, oltre che dalle interviste che alla fin fine danno visibilità, che preferiscono lavorare piuttosto che prender parte «a retoriche celebrazioni». Per l’anniversario del 150° – sostengono – deve soltanto risultare varato il federalismo. Ora, a parte il fatto che non si riesce a capire che cosa intendano costoro per federalismo, a meno che non abbia ragione Massimo Cacciari, secondo il quale si tratta solo di Regionalismo, cioè di azione volta a spaccare la Penisola, e di proseguire nella caccia al dominio nelle Regioni, con relative grandi Banche e stanze dei bottoni decisive nei Consigli di amministrazione delle imprese; e a parte il fatto che il discorso leghista è tutto di pancia, basato com’è su un’insaziabile fame di soldi; è bene che costoro sappiano che la maggior parte degli italiani quegli anniversari li ritiene sostanziali se aiutano a rifondare la memoria storica.

Se certi riti non fossero “ad substantiam”, ci si dovrebbe chiedere perché i francesi celebrino il 17 luglio ai Campi Elisi, i russi la vittoria anti-nazista sulla Piazza Rossa, i cinesi la rivoluzione di Mao a Tienanmen, gli inglesi il genetliaco della regina, gli americani il Memorial Day, e via girando il mappamondo. Gli stessi leghisti provarono a celebrare al cinema l’inesistente Alberto da Giussano, salvo accorgersi dalle sale vuote che non gliene fregava niente a nessuno. Segno che i popoli decidono, con la loro partecipazione o con la loro assenza, se le ricorrenze sono vitali per l’oggi o sono capziose e da evitare.

Testimonia Anita, figlia di Ezio e nipote di Ricciotti, il più piccolo dei quattro figli che Garibaldi ebbe dalla moglie: «Il Carroccio non può minare l’Unità d’Italia. Lo dimostra il fatto che ovunque io vada vedo intorno a me gente che esprime solo consensi, che è per l’Unità. Resta comunque un fatto vergognoso l’atteggiamento della Lega, che comunque dovrebbe farsi un po’ di conti e rendersi conto che una sola parte d’Italia, la Padania, che resta una pura invenzione, non può stare sul mercato internazionale sempre più competitivo. Volenti o nolenti, siamo destinati a vivere insieme».

E il federalismo? È un “pacco” che danneggia il Sud, sostiene Vendola, Governatore della Puglia: «Le basi su cui si sta sviluppando il principio federalista sono sbagliate (…). Si giustifica lo spostamento di soldi verso il Nord fondandosi esclusivamente sull’argomento che il Sud è sprecone. In questa maniera, ogni giorno viene praticato uno scippo nei nostri confronti (…). Ci dovremo scostare dalla vivace letteratura lombrosiana in cui si prova a dipingere leghisticamente un Nord produttivo e sano vittima di un Sud parassita e sprecone». Dunque, non serve un sudismo del Sud: noi dobbiamo essere i critici più implacabili di noi stessi, ma nello stesso tempo dobbiamo render conto delle buone pratiche, di quello che si fa ogni giorno per disegnare il nuovo Sud. Questa è la grande sfida: mettere al centro la difesa comune degli interessi di una comunità di 20 milioni di cittadini che patiscono non solo gli effetti della crisi globale, ma anche gli effetti di una politica sciagurata che continua a trasferire poteri e risorse dal Sud al Nord. «Il Sud deve imparare a volersi bene. Mentre il Nord è diventato una lobby potente, il Sud si presenta a ranghi sparsi nell’appuntamento fondamentale, che è quello sui decreti delegati per la concreta applicazione del federalismo».

Proprio oggi, nel momento in cui, dopo le elezioni regionali, la Lega esce con in pugno le chiavi delle Regioni del Nord, siamo alla resa dei conti, in vista di un passaggio cruciale per il futuro del Mezzogiorno. È il momento della verità: per i politici eletti alla guida delle Regioni del Sud e per le loro maggioranze, come per tutta la classe dirigente meridionale, dal mondo dell’impresa a quello della cultura, è tempo di idee chiare e di obiettivi altrettanto precisi. Si risponda a queste domande: è infondato temere che possa prevalere una versione del federalismo grimaldello per redistribuire ancora a favore del Nord la ricchezza del Paese? Come deve muoversi il Sud in questa decisiva congiuntura? Il federalismo può essere un puro e semplice passaggio di consegne alle Regioni per abbandono dello Stato centrale, che non si farà più carico delle situazioni di svantaggio anche in regioni del Sud avviate alla buona amministrazione?

Ernesto Galli Della Loggia lamenta che le classi dirigenti politiche del nostro Paese hanno virtualmente troncato ogni legame con qualunque retroterra culturale. Un retroterra che ha un contenuto e un nome: la storia d’Italia nella molteplicità delle sue espressioni (politica, sociale, artistica, religiosa, letteraria…). «È di questa che oggi, ma non da oggi, la politica di casa nostra e i suoi partiti sembrano non volere sapere (e non sapere) più nulla, quasi che la cosa fosse loro indifferente: della storia d’Italia, cioè dell’identità complessa, unitaria e segmentata, di queste contrade, altissima e miserabile ma sempre struggente per chi le vive e le sente come una Patria». In Italia – prosegue – la politica non riesce ad esprimere alcun senso vero di “mission” per il Paese, e dunque nessuna retorica “alta” nel suo discorso – a differenza di quanto avviene per esempio in Paesi come gli Stati Uniti e la Francia – proprio perché le manca questo retroterra storico che diventi coscienza del proprio ruolo.

Il risultato è che da tre lustri la politica italiana non riesce a porsi con la società nazionale in una relazione vera e reale che non sia quella puramente estrinseca del momento elettorale. Eccezion fatta per la Lega, questa sì, sempre presente a se stessa, sempre fedele al suo nome, a una lettura forte della storia d’Italia e al suo implacabile giudizio negativo.

Ecco perché – tornando al discorso iniziale – per la speculazione mondiale un’Italia smembrata ad opera degli sfascisti, liberata da una “zavorra” meridionale e identificata in un Bordello, può diventare una splendida preda. Assai più appetibile della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda.

Ridisegnando
la mappa

“The Economist”, 29 aprile 2010

 

 

Chi non si trova bene col proprio vicino di casa può sempre traslocare in un altro quartiere, cosa che le nazioni non sono in grado di fare. Ma supponiamo che invece possano farlo. Riassettare la carta geografica europea renderebbe l’esistenza più logica e amichevole.
La Gran Bretagna, che dopo leelezioni politiche dovrà rendere conto delle terribili condizioni in cui versano le proprie finanze pubbliche, dovrebbe avvicinarsi ai Paesi del sud Europa che si trovano nella stessa situazione. La si potrebbe collocare nei pressi delle Azzorre. Il vuoto lasciato dal Regno Unito dovrebbe essere occupato dalla Polonia, che ha sofferto abbastanza nella sua attuale posizione, tra Russia e Germania, e merita di godersi la brezza frizzante del Nord Atlantico e la sicurezza di avere il mare tra sé e ogni potenziale invasore.
Le incomprensibili diatribe linguistiche fiammingo-francesi del Belgio (causa del recente crollo del governo) ricordano tanto il centro Europa nella sua peggiore espressione, specialmente le assurdità messe in atto in Slovacchia nei confronti della propria minoranza etnica di lingua ungherese. Quindi, il Belgio dovrebbe far cambio di posto con la Repubblica Ceca.
La Bielorussia, al momento senza sbocco sul mare e desiderosa di liberarsi dalla morsa della Russia, riceverebbe un gran beneficio esponendosi alle regioni nordiche, la cui influenza è stata determinante nell’aiutare la regione balcanica a liberarsi dell’eredità sovietica. Ecco perché dovrebbe spostarsi a nord, proprio verso l’area balcanica, prendendo il posto di Estonia, Lettonia e Lituania, che a loro volta dovrebbero trovare una nuova collocazione da qualche parte vicino all’Irlanda.
Gli Stati Baltici sarebbero anche molto contenti di allontanarsi dalla Russia e avvicinarsi all’America. Tra i vari traslochi, Kaliningrad potrebbe scivolare su lungo la costa, verso la Russia, ponendo così fine all’anomalia del suo status di exclave, eredità della Seconda Guerra Mondiale, e facendo sfumare ogni possibilità di futuri misfatti ad opera della Russia relativamente alle linee ferroviarie. Nei posti lasciati vacanti da Polonia e Bielorussia dovrebbero sistemarsi l’ovest e il centro dell’Ucraina.
La Germania, ritrovandosi il confine ucraino a soli 100 km da Berlino, dovrebbe per forza di cose cominciare a prendere più seriamente la questione dell’integrazione europea di quella nazione. Lo spostamento ucraino consentirebbe alla Russia di muoversi verso ovest e verso sud, lasciando così la Siberia ai cinesi, che se ne impadroniranno comunque prima o poi.
Il passo successivo sarebbe riordinare i Balcani. Macedonia, Albania e Kosovo dovrebbero scambiarsi i posti, con la Macedonia al posto del Kosovo vicino alla Serbia, il Kosovo nello spazio liberato sulla costa dall’Albania, che quindi slitterebbe all’interno. Le fantasie paranoiche dei greci sulle rivendicazioni territoriali da parte dei delusi irredentisti slavi del nord svanirebbero all’istante. La Bosnia è troppo fragile per spostarsi e dovrà restare lì dov’è.
Svizzera e Svezia vengono spesso confuse, quindi sarebbe ragionevole pensare di spostare la Svizzera verso nord, dove starebbe benissimo accanto agli altri Paesi nordici. La sua neutralità si sposerebbe alla perfezione con quella di Finlandia e Svezia; la Norvegia sarebbe lieta di avere vicino un altro Paese non-UE.
La Germania può restare dov’è, così come la Francia. Ma l’Austria potrebbe slittare verso ovest, al posto della Svizzera, in modo da consentire anche a Slovenia e Croazia di spostarsi verso nord-ovest. Potrebbero unirsi al nord Italia per formare una nuova alleanza regionale (idealmente governata da un Doge veneziano). Il resto dello stivale, da Roma in giù, si staccherebbe per creare, insieme alla Sicilia, un nuovo Paese, ufficialmente denominato Regno delle Due Sicilie (ma soprannominato Bordello). Potrebbe dar vita ad un’unione monetaria con la Grecia, e nessun altro.

   
   
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