Settembre 2009

 

Indietro

Le Giravolte

AA.VV.

 

Percorsi per: salvatore masciullo
emanuele filograna
m.b. - d.m.b.
gigi montonato

 
 

L’ipogeo Palmieri si trova nel giardino di Palazzo Guarini a Lecce, lungo la via Palmieri, a ridosso del tratto settentrionale delle mura cinquecentesche compreso tra Porta Napoli e Porta Rudiae.

 

 

 

 

Due lettere dall’Ipogeo Palmieri

Inediti

 

Di seguito riportiamo due lettere che l’archeologo Pietro de Bienkowski dell’Università di Cracovia indirizzava nel 1913 allo studioso salentino Pasquale Maggiulli (1853-1945). Vanno contestualizzate. Si parla di un ipogeo: si tratta dell’ipogeo funerario Palmieri, rinvenuto nell’ottobre del 1912 dall’ing. Mario Micalella, un appassionato di antichità locali. Micalella ne aveva parlato sulla rivista Apulia, nell’articolo “Un antico ipogeo a Lecce” (Apulia, n. 4/1912, pp. 93-112). L’anno dopo Goffredo Bendinelli dedicò all’ipogeo un importantissimo studio, corredato da documentazione grafica e fotografica (G. Bendinelli, “Un ipogeo sepolcrale a Lecce”, Ausonia, n. 8/1913, pp. 9-26).
L’ipogeo Palmieri è scavato in un banco roccioso, a circa tre metri di profondità. Ad esso si accede da una scala di sedici gradini, intagliati nella roccia, che immette in un atrio, il quale a sua volta dà accesso a tre celle disposte a croce.
Bienkowski apprende dalla rivista Apulia della scoperta dell’ipogeo e si mette in contatto con Maggiulli, perché ritiene che il fregio rinvenuto nell’ipogeo possa essere di suo interesse, dal momento che egli si sta occupando di rappresentazioni di lotte greco-romane nell’arte italica meridionale. Il libro vedrà la luce nel 1928 e conterrà un’interessante ipotesi: che i fregi del’ipogeo leccese siano stati realizzati usando dei cartoni, i quali servivano pure per prodotti di più largo consumo, come i vasi fittili.
L’ipotesi di Bienkowski successivamente troverà conferma. In epoca più vicina a noi, alcuni studiosi hanno espresso la convinzione che il cartone del fregio dell’ipogeo Palmieri sia stato utilizzato per realizzare il fregio miniaturistico con combattimento dipinto agli inizi del II secolo a.C. sul pilastro della cella della tomba del Cardinale, a Tarquinia (cfr. A. Morandi, Le pitture del Cardinale, in “MontPittTarq”, n. 6, Roma, 1983).

salvatore masciullo

14/1/1913
Illustrissimo Signore,
Lei si rammenta, come io passando per Lecce nel ottobre del anno scorso ho pregato il direttore Guerieri di far fare per me nel Museo Provinciale la fotografia di un piccolo rilievo di terracotta, rappresentante un guerriero caduto. Non ottenendola io ho già scritto cinque settimane fà una cartolina postale in proposito al Sign. Guerrieri, ma come anche questa domanda e restata finora senza risposta, mi permetto di ripetterla volgendomi alla Sua mi ben nota cortesia pregandoLa di far fotografare alle mie spese il rilievo nella grandezza 13x8 par un buon fotografo e di di mandarmi subito la negativa con due copie ben dettagliate per pacco ben imballato all’indirizzo: Roma, Via di Campidoglio 5, III (Prospero). Immediatamente dopo la ricevuta di questa copia mandero il denaro, che Lei avrà la gentilezza di stabilire.
Sperando di esser favorito da Lei, ho l’onore di protestarmi col più profondo rispetto.

Dott. P. Bienkowski
profess. d. Un. di Cracovia

P.S.
Nel ultimo fascicolo (I-II) del’anno III (1912) della rivista “Apulia” leggo p. 97, che nel giardino del Palazzo Palmieri a Lecce si scoprì un ipogeo antico con due fregi a rilievo, uno dei quali riproduce una lotta di cavalieri e fanti, quasi incitati da una divinità.
La pubblicazione e la relazione esatta resta naturalmente riservata al scopritore prof. Micalella. Ma come il libro, che sto qui scrivendo, occupasi esclusivamente delle lotte greco-romane rappresentate nel arte italiana meridionale, Le sarei obbligatissimo se avesse la gentilezza di prestarmi per mezzo del invio delle fotografie relative la possibilità di far la conoscenza di questo fregio.
Nella prefazione del mio libro avrei l’occazione di professar pubblicamente cio che io debbo al Suo aiuto, eventualmente anche al aiuto del prof. Micalella.

24/IV/1913
Ill.mo Sig. Avvocato!
Spero che Lei si è già migliorato in salute e che le condizioni di salute del Suo Sig. padre sono buone. Mi era veramente doloroso il non poterla rivedere durante il mio brevissimo soggiorno a Lecce e sono dolente di esser appena oggi in condizione di presentarle ancor’una volta i miei più sentiti ringraziamenti per tutte le facilitazioni, che Lei e grazie alla Sua intromissione il Cav. F. Guarini et Prof. Guerrieri mi hanno prestato à Lecce. Sciaguratamente prof. Micalella era già ripartito per la sua residenza di Matera prima del mio arrivo à Lecce.
Ho studiato l’ipogeo messapico a mio commodo e adesso non ho più nulla a chiederle oltre che Lei abbia la gentilezza a suo tempo di mandarmi qui un esemplare della relativa dissertazione con illustrazioni del prof. Miccalella immediatamente appena pubblicata. Con sensi della più alta stima La riverisco. Dev.mo amico

Pietro de Bienkowski
Cracovia (Krakau-, Austria)
ul. Warszawska 3, II

Cordiali saluti ai proff. Guerrieri e Micalella, calorosi ringraziamenti al Cav. Guarini pella Sua gentilissima raccomandazione al Circolo d. impiegati à L.

 

Salento parallelo

La musica in bianco e nero

Destinazione Otranto. Un viaggio comincia in un Caffè a Broadway, New York. L’altro parte da una Milano estiva e afosa. I protagonisti di questi due pellegrinaggi verso una terra carica di sacro fascino sono Allan Lomax e Gianni Bosio. A distanza di oltre dieci anni l’uno dall’altro.
 
Nel 1950 Lomax concepisce l’inedito progetto di un anno di viaggio intorno al mondo per raccogliere i materiali sonori che diverranno e rimarranno un vero e proprio monumento alla storia di una civiltà umana ormai quasi interamente perduta. L’etnomusicologia è praticamente appena nata, grazie al suggerimento fornito dal sottotitolo di un’importante opera di uno studioso olandese (Jaap Kunst). Seduto ad un tavolino di un bar nei pressi del Sunset Boulevard, il giovane Lomax convince un impresario della Columbia, che proprio in quel periodo sta lanciando la nuova tecnologia del microsolco 33 giri (!), della bontà della sua idea. Siamo sulla soglia di un mondo nuovo, gli dice, i sostanziali cambiamenti in atto nel dopoguerra stanno per travolgere e cancellare il mondo come prima lo si era conosciuto. Occorre raccogliere e consegnare alla storia registrazioni sul campo di documenti delle civiltà orali. Prima che sia troppo tardi. La forza della sua proposta editoriale sta nell’intenzione di accompagnare il tutto con commenti ai brani musicali che contestualizzino e rendano fruibile l’ascolto: non è un’astrusa e incomprensibile ricerca etnografica per pochi iniziati a complesse teorie, ma un viaggio per far conoscere e che non può che attrarre chiunque abbia curiosità e voglia di sapere e di ascoltare. Quel modello di ricerca e di resa editoriale diventerà il format standard, in materia, praticamente fino ad oggi, salvo svariati tralignamenti, verso il basso e verso il presunto alto...
Cinque anni dopo, in concomitanza proprio con l’uscita del primo volume della Biblioteca della musica primitiva e popolare della Columbia, verrà fondata, negli Stati Uniti, la Società di Etnomusicologia.

Distante da questo milieu storico-culturale, ma poi non moltissimo, è la situazione in cui si snoda lungo la dorsale appenninica il viaggio di Gianni Bosio e di Clara Longhini alla volta di Otranto, nel 1968. In effetti, al confronto, Lomax non è tanto e solo un pioniere: è il Neil Armstrong che ha posato per primo l’orma sonora di intere facce oscure della luna (popoli lontani e in estinzione) sul nastro del magnetofono portatile, che in quel frangente era praticamente l’Apollo 11 dell’avanguardia tecnologica in tema di suono e registrazione. Il suo è uno spirito molto americano e l’aver cercato l’appoggio della Columbia per l’impresa editoriale lo dimostra (sebbene Lomax sia un americano tutto particolare, di quelli, per capirci, che potevano vantare un fascicolo aperto fra i files FBI per le sue ricerche sui canti di protesta condotte insieme a Woody Guthrie fra i condannati ai lavori forzati).
Bosio ha alle spalle, invece, la campagna di De Martino e Carpitella, e viaggia non all’indomani della guerra, ma poche settimane dopo il maggio francese, nell’anno in cui ogni idea di un mondo diverso e alternativo sembrava avere consistenza concreta e potersi realizzare con leggerezza ed entusiasmo. Per esempio, prendendo una macchina e facendo mille chilometri per andare a registrare suoni in una terra stretta fra due mari e riarsa dal sole, dove quasi non arrivavano ancora i treni, se non quelli che portavano gli emigranti nell’Europa d’oltralpe. Per esempio, fermandosi solo un poco a Lecce per dissetarsi (annotazione sul quaderno di viaggio: «bibite £ 500»!) e ricavare dal barocco una prima impressione di vivacità generale, sempre continuando ad annotare: «panini e vino £ 400; benzina £. 1800», e così via…
Il diario di Bosio-Longhini è sconcertante perché è una macchina del tempo, ma a doppio senso. Ci riporta, sì, in un passato che nessuno può negare essere passato (definitivamente). Esattamente come la narrazione che Carpitella fa (altrove) dell’arrivo con De Martino alla “locanda” (!) Cavallino Bianco di Galatina, i modi e i luoghi di questo libro-giornale di bordo sono gli stessi non tanto dei nostri genitori, ma quasi quelli dei nostri nonni. Per altro verso, però, è proprio la inusitata persistenza di alcuni particolari, come conchiglie fossili nei conci di tufo, a dare un senso di vertigine temporale: a Otranto, il primo giorno, Bosio e la Longhini sono intrattenuti nella Cattedrale da «un arciprete» che gli schiude il libro del pavimento musivo, dal quale emerge come in un archeologico ologramma «un’immensa fiaba della vita narrata per immagini, preziosa opera che un tal Pantaleone, prete, eseguì negli anni intorno al 1160».
E chi di noi non ha fatto quella stessa esperienza? Quella di essere accostato da quell’inimitabile esemplare umano di arciprete e di studioso che è mons. Grazio Gianfreda, il quale vedendo un visitatore abbastanza assorto o interessato, gli si appropinqua immancabilmente con la sua tonaca antica e gli riversa addosso una lectio di inestimabile valore e precisione, competenza e passione. Alcune cose vivono ancora, incredibilmente. Solo, adesso sono circondate da un ambiente che non è il loro, e finirà probabilmente per inghiottirle, nel modo più subdolo: non spazzandole via, ma assorbendole, e storpiandone i connotati, mantenendo soltanto i nomi o l’apparenza, l’impostura…

L’opera di Lomax emerge, anche da poche, brevi, efficaci pennellate e dall’apparato fotografico, per ciò che è stata: un’opera imponente, titanica. Precisamente quel carattere enciclopedico che paiono avere (anzi: hanno) tutte le opere prime nel rispettivo genere, in un versante della conoscenza mai prima battuto. Basti pensare che dall’archivio della Fondazione che oggi porta il suo nome, si attinge e si è attinto da ogni parte del mondo, e la fonte sembra non esaurirsi mai di spunti, di informazioni, di tesori. Dalla Sicilia alle Cave di Carrara, dalla Basilicata alla Spagna, e poi in altri anni e altre campagne anche oltre l’Europa, percorrendo migliaia di miglia.
L’opera di Bosio è stata fertile in Italia e ha fatto da Diogene con la lanterna in mano anche per un’etnomusicologia con meno pretese (teoriche, storiche, filosofiche, ideali persino, ecc.), senza che si possa dire se sia stato (solo) un bene o (solo) un male.
Ciò che emerge, in un caso e nell’altro, è la grande abilità e la grande preparazione (teorico-pratica) di queste due fondamentali figure. È la solidità della rispettiva formazione che ha consentito a questi viaggi indubbiamente venati, all’apparenza, di un certo romanticismo (almeno ai nostri occhi…) di essere invece modelli di scientificità, di efficacia, di vera e propria bravura e probabilmente in alcuni casi di “genio” (nel senso etimologico) nel saper cogliere immediatamente la bontà di una fonte, nel saper mettere i portatori nelle condizioni migliori (non certo solo nel senso del miglior favore del microfono), di saper andare oltre gli stessi contatti forniti dalla rete di informatori già censiti e individuati, e di mantenere un approccio professionale anche quando si mettevano in conto svariate migliaia di lire per il vino da offrire ai partecipanti alle sedute di registrazione.

Lomax lasciò, per espresso accordo, copia integrale di tutto il materiale registrato in Italia (dalla Calabria ad Asti) in deposito presso il CNSMP (Centro Nazionale di Studi sulla Musica Popolare dell’Istituto Nazionale di Santa Cecilia di Roma). Già il 7 marzo 1955 andò in onda sulla BBC la prima puntata con un’antologia del materiale raccolto. Ma Lomax ebbe modo di annotare che era già allora in avanzato stato di compimento una marginalizzazione completa e un rigetto diffuso delle musiche locali, a causa dell’introduzione, attraverso la radio, proprio di ciò che si sarebbe chiamata presto la musica pop americana. Così come annotava sconsolato che, anche fra i suoi più sofisticati amici italiani (particolarmente nei salotti e circoli romani), vi era un rifiuto netto, come “barbariche”, delle sue registrazioni, di cui ci si stufava presto chiedendo di passare senz’altro al blues degli schiavi neri d’America.

Una vera e propria gemma del libro è la notizia di una quanto mai interessante polemica a distanza (neanche troppo) del 1955 fra Massimo Mila e Diego Carpitella, circa il fondamento realmente folclorico della musica popolare in Italia. Il grande critico la riteneva un mero precipitato (sostanzialmente un imbastardimento) della tradizione operistica italiana. Rispettosamente, ma anche malinconicamente, l’etnomusicologo rispondeva osservando che un simile giudizio non poteva che derivare da scarsa informazione sul punto (proprio le folte nebbie che le campagne di registrazioni sul campo di quegli anni tentavano di diradare). Visto il tono – e il livello – di certe discussioni odierne fra schiere di laureandi in materie affini (quando va bene) e dilettanti la cui buona volontà non supplisce ad una totale insipienza sul piano della formazione storico-filosofico-sociologica e vieppiù musicologica, il tutto appare abbastanza istruttivo. D’altra parte, Lomax poteva contare sull’interesse, per dirne una soltanto, di Moravia, che gli pubblicò un articolo fondamentale sullo stesso numero di Nuovi Argomenti in cui comparivano, nell’ordine, contributi di Rocco Scotellaro, Pasolini, Danilo Dolci e molti altri. In effetti, come si direbbe, altri tempi!

Il pregio incommensurabile del volume di Gianni Bosio sono, invece, gli apparati di trascrizioni (parole e musica) e traduzioni che corredano l’ascolto dei tre CD allegati, ricchi questi ultimi anche di suoni, rumori, e passaggi sonori di estremo impatto emotivo. Il fatto singolarissimo della raccolta di Bosio e Longhini fu che essi raccolsero trascrizioni dal grìko, permettendo di intravedere, seppure a squarci, come una piccola popolazione potesse provarsi a scrivere una lingua che era solo parlata e la cui civiltà e letteratura erano appunto solo orali. Oggi, possiamo guardarli come dei nuovi frammenti Diels-Kranz, che possono restituirci, di quella filosofia di vita, scampoli incerti, ma pregni di un sovraccarico semantico per chi vi unisce sensazioni e abbozzi di mitologie e cosmogonie interiori sedimentate grazie a quanto ricevuto di prima mano nell’infanzia.

Si riemerge dalla lettura dei due volumi davvero esausti, come se si fossero percorsi a piedi, accanto ai ricercatori, chilometri e chilometri di strade di tufo, sedendo su sedie impagliate o su muretti a secco, con le narici impregnate di profumi che allora dovevano essere fortissimi, gli occhi bruciati dal sole violento che tagliava con ombre di rasoio i muri di calce, come in quadri astratti e geometrici. Il cuore ancora in sussulto, dopo aver sentito da vicino la forza quasi ferina di un ballo sfrenato.
Entrambi i libri regalano la sinestesia che deriva dal poter ascoltare la musica e soprattutto poter scorrere una quantità considerevolissima di scatti in un bianco e nero che nobilita e magnifica soprattutto i volti e le fattezze (mani, denti, occhi, pelle, vestiario) di un’umanità che non siamo già più da tanto tempo.
L’opera di questi veri ricercatori concede speranza, nonostante questa sensazione di perdita, di definitiva scomparsa del relitto di una civiltà che non riemergerà più dalle profondità di lontananza nella quale l’abbiamo lasciata inabissarsi.
Occorre rendersi conto di come fosse inaspettato e strano, già allora e proprio allora, fare quello che questi uomini hanno fatto: perché si era negli anni Cinquanta o Sessanta non era affatto “naturale”, come potrebbe ingenuamente apparirci oggi, che venisse in mente a qualcuno di porre il problema della preservazione di quel patrimonio nel modo in cui lo immaginarono e vi contribuirono Lomax e Bosio.
E questa è appunto la speranza: che sarà sempre possibile trovare, sul filo del presente, cose nuove, inusitate, improbabili da capire, da spiegare. Da rispettare e far scoprire anche agli altri.

emanuele filograna

Il grande cinema non è stato mai romano: proprio la varietà e la ricchezza espressiva dei dialetti e degli accenti hanno fatto la forza di quel cinema, rendendolo davvero “italiano”.

Ne ultra crepidam...

Hollywood a Milano...

Ha scritto il critico Alberto Crespi che a settembre, alla vigilia della Mostra di Venezia, sarà presentata la copia restaurata de La Grande Guerra, il film di Mario Monicelli che mezzo secolo fa vinse ex aequo il Leone d’Oro con Il generale Della Rovere, capolavoro firmato da Roberto Rossellini.
Un’occasione importante, sostiene Crespi, che fra l’altro rappresenta la migliore risposta alla polemica più scema degli ultimi vent’anni, quella lanciata dai leghisti Bossi & Castelli durante la presentazione del cosiddetto “Polo cinematografico lombardo”: «Riassunta in poche battute (di più non ne merita): secondo Castelli “è una cosa insopportabile” che in tv e nei film si parli solo romanesco, secondo Bossi la “Hollywood di Milano” permetterà alla Padania di raccontare finalmente la propria storia».
Sui film padani c’è da tremare, soprattutto se a dirigerli tutti sarà quel Renzo Martinelli, dal quale pianure e valli padane attendono trepidanti il Barbarossa, nelle sale da ottobre in poi: e magari in questa circostanza il Martinelli spiegherà come mai abbia fatto interpretare l’eroe Alberto da Giussano non a un fusto lumbard, ma a un attore israeliano, Raz Degan, che non crediamo parli il milanese.

La locandina
del film “L’armata Brancaleone” di Mario Monicelli, 1966. Ispirato al Cervantes e al “Cavaliere inesistente” di Calvino, il film adotta una lingua surreale e improbabile, che ricopre un ruolo accessorio nello sviluppo delle scene.

La locandina del film “L’armata Brancaleone” di Mario Monicelli, 1966. Ispirato al Cervantes e al “Cavaliere inesistente” di Calvino, il film adotta una lingua surreale e improbabile, che ricopre un ruolo accessorio nello sviluppo delle scene.

Sulla storia del romanesco hanno già risposto Carlo Verdone, Ricky Tognazzi e Luca Barbareschi, che da parlamentare ha invitato i leghisti a occuparsi della riforma dello spettacolo e del rifinanziamento del cinema, altrimenti nei film non si parlerà né romanesco né lombardo, e nemmeno italiano, per l’elementare ragione che non se ne faranno.
Ciò detto, il cinema italiano è stato fatto per lo più nella Capitale perché Cinecittà, le televisioni e le strutture di produzione sono a Roma. Ma il grande cinema non è stato mai romano: proprio la varietà e la ricchezza espressiva dei dialetti e degli accenti hanno fatto la forza di quel cinema, rendendolo davvero “italiano”.
Si diceva de La Grande Guerra. I due protagonisti, Alberto Sordi e Vittorio Gassman sono un romano e un milanese, «cialtroni a pari merito e a pari merito, nel finale, eroi». Chi, tanti anni fa, vide il film, se milanese, rise come un matto alla scena in cui Sordi, sentendosi intimare «Altolà, chi va là», esclama: «Semo l’anima de li mortacci tua!». Quel film, nel 1959, sdoganò la parola “mortacci” per tutti coloro che romani non erano.
E a situazione rovesciata: gli spettatori romani morivano dal ridere quando, nel finale che preludeva alla tragedia, Gassman guarda brutto l’ufficiale austriaco che sta per farlo fucilare, e gli dice sul muso: «Mi te disi un bel nient, facia de merda!». In questo modo, grazie a uno splendido film diretto da un toscano (Monicelli) e interpretato da un romano (Sordi) e da un genovese cosmopolita (Gassman), romani e milanesi si scambiarono, e consegnarono all’universo mondo, due espressioni dialettali ancora vive nei nostri linguaggi correnti.
L’Unità d’Italia è stata fatta anche così. E sempre così si è arrivati ai cinepanettoni del romano De Sica e del milanese Boldi, ai successi del napoletano Troisi, dei toscani Nuti, Benigni e Pieraccioni, dei milanesi (con un innesto meridionale) Aldo, Giovanni e Giacomo… Come dire: il nostro cinema è simultaneamente nazionale e popolare. Per questo va salvato dai padani. Soprattutto da quelli che aprono bocca per consegnare alle cronache dei nostri tempi imbarbariti solo ed esclusivamente i frutti della loro bolsa ignoranza.

m.b. - d.m.b.

Ugento né fede né sacramento

Papa Tore Casto

Mi corre l’obbligo di fare alcune precisazioni sul detto Ugento né fede né sacramento, da me attribuito a don Salvatore Casto (Alliste 1853-1936), arciprete a Taurisano dal 1900 al 1914. In un suo “scherzo epistolare” in versi ad un ignoto destinatario, probabilmente un suo collega, il prete così scrive:

Se scriver vuoi
Per tua difesa
Di Taurisano
Scrivi alla Chiesa

Da questa in cielo
La relazione
Sale e discende
Con devozione

Mentre a quella
Chiesa d’Ugento
Non c’è fede
Né sacramento

con la variante, in quest’ultima quartina, “Che come sai / Costà in Ugento / Fede non c’è / Né sacramento” (G. Montonato, Il sacro e il profano di Papa Tore Casto, in “Apulia”, II/09, p. 148). Proprio quel “come sai” lascia pensare che il detto circolasse già in Ugento.
Confesso che questo detto, nella versione dialettale Uscentu senza fete né sacramentu, l’avevo sempre attribuito alla causticità popolare, che, quando rivolta a paese vicino, fa tanto campanile. Taurisano e Ugento confinano. Sicché, quando lo lessi più di venti anni fa nei versi sconosciuti di don Salvatore Casto, credetti di aver scoperto l’autore dell’infamante detto antiugentino.

Archivio BPP

Archivio BPP

Chiedo venia. Nel 1997, a cura di Antonio Maglio, usciva in volume per il “Quotidiano” l’Agenda “Babbarabbà. I soprannomi paesani nelle province di Brindisi, Lecce e Taranto tra storia e fantasia”, che riprendeva le precedenti edizioni in fascicoli del 1990 e 1991. Alle pagg. 372-73 per quanto riguarda Ugento, si riporta appunto il detto “Senza fede né sacramento”. Nella nota si legge che «L’origine di tale detto è per metà storica e per metà frutto della diceria: si riferisce ad un avvenimento realmente accaduto ad Ugento nel 1739». Dunque, quasi due secoli prima che Papa Tore lo riprendesse nei suoi versi, posto che l’arciprete di Taurisano ne fosse a conoscenza.
Che cosa era accaduto? Lo spiega Luciano Antonazzo nel suo intervento “Mons. Ciccarelli ed il suo presunto anatema Ugento né fede né sacramento”, apparso sul “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, 15-2008, della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione di Galatina (pp. 205-216), direttore Giancarlo Vallone.
Nel dicembre del 1738 Mons. Arcangelo Maria Ciccarelli, ritenuto fermo e deciso uomo d’ordine, benché anziano, fu trasferito dalla sede arcivescovile di Lanciano ad Ugento per ricondurre il clero ugentino, piuttosto riottoso, alla compostezza e all’obbedienza.
Le cose si misero male quando il nuovo vescovo fece sentire il pugno di ferro non solo nei confronti del clero ma anche di alcune personalità del luogo molto in vista e potenti. Finì per inimicarsi tutti quando commise l’errore di regalare alla chiesa di Altamura, suo paese d’origine, una campana commissionata per la chiesa d’Ugento. Allora l’intera popolazione si sarebbe sollevata contro, costringendolo a scappare.

Scrive l’Antonazzo, riprendendo la tradizione, che «l’astio ed il risentimento del vescovo furono talmente grandi che giunto all’altezza del Santuario della Madonna della Luce sulla strada per Casarano, fece fermare la carrozza e toltesi dai piedi le scarpe, le scuotette fortemente battendole l’una contro l’altra per ripulirle da ogni residuo di terra, intendendo sottolineare in tal modo di voler cancellare ogni traccia dell’ingrata Ugento. Risalito in vettura, volse allora per l’ultima volta lo sguardo alla città e stizzito avrebbe secondo la leggenda profferito l’oltraggioso anatema Ugento senza Fede né Sacramento».

L’episodio dello scuotimento delle scarpe – a conferma dell’insistenza di certa tradizione popolare – ricorda quello analogo del Galateo, che, lasciando Galatone, compì il gesto accompagnandolo con frasi di condanna nei confronti dell’odiata sua città natale.
In verità, Antonazzo ridimensiona le dicerie contro Mons. Ciccarelli ma anche contro Ugento. Con una serie di documenti ricostruisce l’infelice rapporto che questi ebbe con i preti e i maggiorenti ugentini, coinvolti in intricate e poco edificanti questioni di nomine, di donne, di scomuniche, di soldi, di libelli diffamatori. Sarebbe stato, allora, il popolo ugentino stesso, che, assistendo disgustato all’indecoroso spettacolo di un vescovo autoritario che, accusato di depravazione, comminava ai suoi sacerdoti diffamatori condanne e scomuniche, giunse alla conclusione che a Ugento non c’è fede né sacramento. Che è come dire: «Qui, non c’è più religione!».

gigi montonato

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2009