Settembre 2009

Un grande poeta siro-americano

Indietro

Gesù, figlio dell’uomo

Florio Santini

 

 
 

“Consideralo un vero
e proprio inedito!
(Te ne prego). Florio”.
Così mi scriveva Florio Santini, inviandomi
questo saggio, qualche tempo prima di lasciarci, passando sull’altra riva.
Il testo è riemerso
inaspettatamente qualche giorno fa. Lo proponiamo ai lettori, in omaggio alla memoria di un uomo che con i suoi scritti ha
onorato, come seconda patria, la terra salentina.
a.b.

 

 

 

 

 

Un forte “harmattan” (vento caldo e secco che interessa la fascia settentrionale e centrosettentrionale dell’Africa, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. In alcuni Paesi, la sabbia che trasporta può limitare la visibilità e oscurare il sole per diversi giorni, N.d.R.) ritardava più di sempre il decollo dell’aereo che doveva portarmi da Sokoto a Kano, nella Nigeria del Nord. Per un attimo, non so la ragione, pensai ai pastori del Libano.
Un venditore di libri, attorcigliati dal caldo, sonnecchiava...
D’un tratto, vidi una polverosa edizione americana de “Il Profeta”, che aveva esattamente la mia venerabile età. Io e quel libretto, a me caro fin dai tempi di prima nomina in Medio Oriente, soli soli, in un indescrivibile aeroporto africano… Decisi di celebrare l’Autore, nato in Libano nel 1883. Per gratitudine; la stanchezza si era fatta spirito. (N.d.A.)

Giubràn Khalil Giubràn (grafia adottata in Libano) nacque nel piccolo villaggio libanese di Bécharré, il 6 dicembre 1883. Suo padre era ispettore dei pascoli: il ragazzo percorse con lui le vallate solitarie, ben presto facendo esperienze sbigottite, infiammato di sentimento a contatto con gli spettacoli grandiosi della terra e del cielo. Amò le tempeste, riconoscendo in esse l’irruenza tormentata della propria anima ribelle e religiosa in una. Il suo capolavoro in lingua araba s’intitolerà Al-Awassef (“Le tempeste”). Amò dipingere, soprattutto disegnare a pastello, ma diceva di non poter riprodurre né ciò che immaginava ad occhi chiusi né le sensazioni ricavate dai colori e dai suoni della montagna.

Khalil Giubràn, in una foto giovanile in costume tipico libanese. - Archivio BPP

Khalil Giubràn, in una foto giovanile in costume tipico libanese. - Archivio BPP


Nel 1894, la famiglia di Giubràn, eccetto il padre, emigra negli Stati Uniti e si stabilisce a Boston. La liberazione dal ricco clero maronita e dall’antico latifondismo, potentissimi in Libano, può già dirsi definitiva. Giubràn vuol divenire uomo universale, vuole incarnare esistenzialmente la condizione umana, da sempre dibattuta tra fede ed eresia, amore e tradimento, libertà e schiavitù; ma, dopo appena quattro anni, ritroviamo Giubràn ancora a Beirut, per completare i suoi studi arabi presso il Collége de la Sagesse.
Si è fatto crescere i capelli fino alle spalle, torna a percorrere tra le pecore, col padre, le solitarie vallate del suo mistico Paese.
Legge la Bibbia, vi riconosce gli antichi, eterni abusi. Si esalta, incontra per la prima volta l’amore, lo zio vescovo impedisce ad Hala Daher di unirsi al giovane anticlericale. Hala Daher morirà nel 1955, custode fedele delle sue memorie, a Bécharré.
Nel 1901, Giubràn è di nuovo a Boston. Pubblica 13 pagine sulla musica, dichiarandola valida ad esprimere ogni significato spirituale.
L’anno seguente escono in arabo tre racconti, in uno dei quali egli narra la “storia-manifesto” del pastore che, un giorno, perde di vista i suoi vitelli, tutto preso com’è dalla lettura del Vangelo. Le bestie arrecano qualche danno nel vigneto del convento di Sant’Isaia e i frati chiedono un indennizzo esorbitante. Il pastore tenta di sollevare il popolo contro coloro che hanno dimenticato l’insegnamento di Gesù: tutti rimangono apatici. Perfino il padre e la madre, paurosi del gesto, stanno dalla parte del convento.
Il tema della ribellione all’ipocrisia pseudo-religiosa ritorna in altre opere pubblicate intorno al 1908. Sono personaggi profetici, che lottano contro il matrimonio venale, contro la giustizia dispensatrice di condanne, contro il feudalismo oppressore dei deboli, contro l’ottusità oscurantista delle caste, contro l’abulia delle masse contemplative e patriarcali, da troppo tempo prive di una letteratura vivificante. Lo stile di Giubràn, tuttavia, conserverà il tono incantato delle parabole e la visione schematica del mondo, tipici del pensiero orientale.

Il 1908 è un anno importante. Lascia gli Stati Uniti per studiare a Parigi la grande poesia europea, oltre che la pittura in accademia, grazie ai 65 dollari mensili che gli spedirà per due anni una protettrice americana, Mary Haskel. D’un tratto, eccolo al Greenwich Village di New York: lavora in un minuscolo studio, veste privatamente alla foggia araba, beve caffè turco, fuma, fuma e lascia bene in mostra un quadro raffigurante il Crocefisso.
Nel 1912 pubblica un romanzo nel quale riemerge la forzata rinuncia alla Daher; segue, nel 1914, una raccolta di poemi in prosa, di meditazioni, di allegorie. È l’istanza metafisica che traspare anche dalle contorte figurazioni ascendenti dei suoi quadri. Temi principali: la bellezza dell’affetto purificato dal dolore, la preghiera antidogmatica, la solidarietà umana; il tutto espresso (influenza di Nietzsche sull’arabo ribelle) con eloquenti immagini, pittoriche anche quando scritte o, meglio, addirittura parlate…
Dopo l’esperienza parigina, la cultura di Giubràn è più occidentale, ma soltanto nel mutare la lingua egli muterà prospettiva, aggiornandosi. La vocazione del moralista permane: quando, nei suoi racconti, è un povero che muore, questo restituisce l’anima alla morte senza discutere, perché conosce la vera giustizia della vita.
Così, il primo libro in inglese (1918) è ancora pieno di rivolta contro l’ipocrisia, l’ignoranza, l’insensibilità: l’occhio dice di vedere una grande montagna lontana, l’orecchio risponde che non intende la montagna, la mano risponde che non la tocca, il naso che non ne avverte l’odore. L’occhio allora guarda altrove, mentre gli altri si meravigliano delle sue inquietanti allucinazioni…
Per l’ultima volta, Giubràn è qui l’uomo orientale che si esprime per parabole. Come scrisse su L’Orient (Beirut, 17 maggio 1970) il suo commentatore e traduttore libanese, Mansour Crallita: «C’était plus qu’une langue qu’il adoptait: en vérité, il passait d’un monde à un autre. Car sa langue déterminait le choix de ses sujets, son ton, son idéal».
Il secondo libro in inglese (1920) è su Giovanni Battista, il Procuratore.
Non per caso, tre anni dopo esce The Prophet, l’opera che finalmente sintetizza lo spirito messianico di Giubràn, e che ancora si vende negli Stati Uniti, in ragione di oltre duecentomila copie l’anno. Sono gli ideali della dedizione, del conforto, dell’amicizia e della fede, praticati dal Nostro per tutta la vita.
Vi si parla di un profeta, vissuto per dodici anni in terra straniera, che, al momento d’imbarcarsi per l’isola natale, viene circondato dal popolo, curioso del segreto della sua saggezza: da qui, una serie di enunciati intorno ai valori-base dell’esistenza.
L’opera, attualmente tradotta in venti lingue, contiene un messaggio ancora fecondo, piena com’è di speranza in una umanità più buona.
Eppure, c’è un libro di Giubràn che non ha raggiunto la dovuta notorietà ed è proprio quello che ha appassionato il sottoscritto, per la suggestiva concretizzazione di così alti ideali in una sublime Persona, ch’era difficile rendere storicamente nuova: Jesus the Son of Man (1928). Ante litteram, il poeta libanese ci presenta una specie di miracoloso contestatore, morto per liberare l’uomo dall’uomo: un Cristo pasoliniano.
Dopo gli entusiasmi giovanili dell’arabo che ha letto Nietzsche, ora è il testo evangelico che propone violenza nella dolcezza e apre il discorso alla nuova alleanza: il Gesù evocato non è quello tradizionale, ma è un personaggio modernamente catartico, eroe della forza dolce.
Settantasette testimoni “diretti” di episodi della Sua vita ci parlano di Lui con timore e tremore, con rispetto e rimpianto.
Lo stile è ricco di immagini e di similitudini, ricavate dalla vita dei campi, dalle stagioni, dai fiori, dalle messi. In questo incantamento evangelico-orientale, l’idea della morte sovrasta. Lo stesso Giubràn, del resto, era solito dire che l’uomo è normalmente malato, per sua stessa condizione. Nella realtà singola, anch’egli non fu mai uomo sano; e il male infine lo vinse, mentre terminava di scrivere The Wanderer. Giubràn muore in un ospedale di New York, per una crisi polmonare, otto giorni dopo il Venerdì Santo del 1931, in cui, all’ora della morte di Gesù, aveva detto per telefono all’amica Barbara Young: «Una volta ancora, tutto è consumato».

Le esequie furono celebrate a Boston da mons. Stephan Douaihy, nella Chiesa di Nostra Signora dei Cedri, presenti la comunità libanese e molti ammiratori sconosciuti. Sarà, poi, la sorella Mariana ad eseguire le sue volontà. Le spoglie mortali vengono imbarcate alla volta del Libano, verso la valle di Kadisha, verso il convento di Mar Sarkis, mentre la musica diffonde le note del canto dei pellegrini dal “Tannhauser” e della morte di Aaase dal “Peer Gynt”.
Il 21 agosto del 1931, giunsero nel porto di Beirut i resti di colui che il mondo arabo evoluto considera, oggi, il suo grande poeta e pittore contemporaneo. Manifestazioni ufficiali e popolari seguirono il corpo di Giubràn fino a Bécharré, dove l’artista aveva sempre sognato di ritirarsi a vivere.
Chi scrive visitò il museo allestito da un comitato nazionale a Bécharré, non lontano dagli ultimi cedri del Libano: fosse la lontananza dall’Italia, fosse il senso di mistero cosmico emanato dalla lettura di quelle pagine o dalla visione di quelle tele, improvvisamente mi sorpresi a pensare ad un altro solitario, che riposa in quel di Barga, sul Colle di Caprona, a Castelvecchio. Anche qui si era spenta una sorella vestale, anche qui un cristianesimo sociale aveva rifiutato la ricchezza e dialogato con la natura e i suoi figli più umili…

Tra le opere del Nostro, una in particolare ci ha dunque decisamente colpiti per la semplicità della sua sacerdotale bellezza: Jesus the Son of Man. E appunto lo strano, inatteso, edificante incontro, in questo Medio Oriente bellicoso, col messaggio di pace del Gesù pascoliano di “Centurio” (F. Gabrieli, a pag. 265 della “Letteratura araba”, Sansoni 1967, definì Giubràn «sensibile agli influssi del simbolismo europeo») invita a chiudere questa sommaria presentazione di un autore internazionale, noto a pochissimi in Italia, traducendo da detto libro l’intero capitolo breve “Claudius a Roman Sentinel”.

Dopo che l’ebbero arrestato, Lo affidarono a me.
Ponzio Pilato mi ordinò di tenerlo in prigione, fino all’indomani mattina. Egli si mostrò obbediente. A mezzanotte lasciai mia moglie e i figli, per ispezionare l’arsenale. Avevo l’abitudine di fare un giro, ogni notte. Egli era ben guardato. I soldati e qualche giovane giudeo si divertivano a sue spese. Lo avevano spogliato, gli avevano posto sul capo una corona di spine, vecchia d’un anno.
Era contro una colonna; gli danzavano attorno, gridando. Gli avevano messo una canna in mano.
Quando entrai, dissero: “Guarda, capitano, il Re dei Giudei!”.
Lo guardai e ne provai vergogna, senza sapere perché.
Avevo combattuto in Galilea e in Spagna, avevo affrontato la morte alla testa dei miei uomini. Non ero un vile, ma, quando fui davanti a quest’uomo ed Egli mi guardò, persi il coraggio. Sentivo le labbra come sigillate; non dissi una parola e, subito, lasciai l’arsenale.
Ciò accadeva trent’anni fa.
I miei figli, ora, sono uomini al servizio di Cesare e di Roma, ma spesso, quando li voglio consigliare, io parlo ad essi di Lui, un uomo che affrontò la morte sorridendo alla vita e con negli occhi la compassione per i suoi assassini.
Sono vecchio, ho vissuto pienamente. In verità penso che né Pompeo, né Cesare furono così grandi capi come quell’uomo di Galilea. Condannato senza che resistesse, un esercito si sollevò a combattere per lui... Egli è meglio servito da morto di quanto non lo furono in vita Pompeo e Cesare.

Facendo seguito a quanto detto sullo scrittore siro-americano, sconosciuto in Italia, notissimo altrove, presentiamo ora la prima traduzione in italiano di alcuni capitoli del libro Jesus the Son of Man. Soltanto l’Editore Guanda, nel 1968, ha pubblicato Il Profeta, tradotto da G. Bona, con introduzione di Carlo Bo.
Jesus the Son of Man (12 ottobre 1928 è la data di pubblicazione su copyright dell’autore, ma traduciamo dall’edizione Knopf del 1953, New York) inizia così:

Un giorno, in primavera, Gesù si fermò sulla piazza del mercato di Gerusalemme e parlò alla gente intorno al Regno dei Cieli.
Egli accusò gli scribi e i farisei di tendere agguati, di alzare trappole sul cammino di quelli che aspirano al Regno; e li denunciò.
In mezzo alla folla, c’era un gruppo di uomini che difendeva i farisei e gli scribi e che cercava di metter le mani su Gesù e su noi stessi. Egli li evitò; si allontanò da loro e si incamminò verso la porta nord della città.
Disse:
“La mia ora non è giunta. Molte sono le parole che mi restano da dirvi e molti gli atti che rimangono da compiere, prima di lasciare questo mondo”.
Egli camminò davanti a noi, noi lo seguimmo; quel giorno e il giorno dopo. A mezzogiorno del terzo dì, raggiungemmo la cima del Monte Hermon. Là, Egli si fermò a guardare in basso la città della pianura.
Il Suo volto brillava come l’oro fuso. Tese le braccia, dicendo:
“Ammirate la terra nel suo manto verde; osservate come i corsi d’acqua hanno orlato d’argento la stoffa del suo vestito. In verità, la terra è bella ed è bello tutto ciò che sta sulla terra. Ma c’è un regno oltre le cose che vedete ed è là che io regnerò. Se autentica è la vostra scelta, se vero è il vostro desiderio, anche voi arriverete là e regnerete con me. I nostri visi non porteranno maschere; le nostre mani non brandiranno spade, né scettri; i nostri sudditi ci ameranno in pace, senza avere paura di noi”.
Così parlò Gesù ed io mi sentivo come cieco verso tutti i regni della terra, verso le città murate e turrite. Nel mio cuore ero deciso a seguire il Maestro fino al Suo Regno. Allora, proprio in quel momento, Giuda Iscariota si fece avanti. Si avvicinò a Gesù e disse:
“I regni del mondo sono vasti e le città di Davide e di Salomone prevarranno sopra i Romani. Se vuoi essere il Re dei Giudei, noi resteremo al Tuo fianco e con le armi respingeremo lo straniero”.
Appena intese queste parole, Gesù si volse a Giuda e il Suo viso era rosso di collera. Parlò con voce terribile come i tuoni del cielo:
“Allontanati da me, Satana. Pensi che sia disceso attraverso i tempi per regnare, durante un sol giorno, sopra un formicaio? Il mio trono è oltre la tua vista. Colui che possiede ali per volare intorno alla terra cercherà mai rifugio in un nido abbandonato e dimenticato? Il Vivente potrà essere onorato ed esaltato da quelli che portano sudari?
Il mio regno non è di questo mondo; il mio trono non è fondato sopra i crani dei vostri antenati. Se cercate cose diverse dallo spirito, sarà meglio che mi lasciate qui, subito, e che discendiate nelle caverne dei vostri morti, dove le fronti coronate tengono corte nelle tombe e forse ancora, dopo tanto tempo, conferiscono onori alle ossa dei vostri antenati.
Osereste voi tentarmi con una corona di scorie, quando la mia fronte aspira alle Pleiadi oppure alle vostre spine?
Se non fosse per questo sogno sognato da una razza dimenticata, io non sopporterei che il vostro sole si levi sulla mia partenza, né che la vostra luna proietti la mia ombra sopra il vostro cammino.
Se non fossi stato sensibile a un desiderio di madre, mi sarei spogliato delle fasce e sarei ritornato nello spazio. E se non vedessi la tristezza di tutti voi, non mi attarderei a piangere. Chi e che cosa sei tu, Giuda Iscariota? Perché mi tenti? Mi avresti pesato sulla bilancia e trovato idoneo a comandar legioni di pigmei, a dirigere i carri da guerra degli insignificanti, contro un nemico che si accampa sul vostro odio e avanza grazie alla vostra paura? Numerosi sono i vermi che strisciano ai miei piedi, ma non li schiaccerò. Sono stanco di facezie, sono stanco di aver pietà dei rettili che mi prendono per un debole, perché mi trasferiscono dentro le loro muraglie fortificate e le loro torri. È opportuno ch’io debba continuare ad avere pietà fino alla fine. Potessi deviare i miei passi verso un mondo più grande, abitato da uomini grandi! Ma come?
I vostri preti e i vostri imperatori vogliono il mio sangue. Saranno soddisfatti, prima che me ne vada. Perché non miro a cambiare il corso della legge o a governare la stupidaggine. Che l’ignoranza si riproduca, fino al punto d’essere stanca essa stessa della sua produzione. Che i ciechi guidino i ciechi fino all’abisso. Che i morti sotterrino i morti, fino a quando la terra sarà soffocata dai propri frutti amari.
Il mio regno non è di questo mondo. Il mio Regno sarà là dove due o tre di voi si riuniranno nell’amore; nella gioia in ammirazione, davanti alla bellezza della vita, in memoria di me”.
Poi si voltò bruscamente verso Giuda Iscariota e gli disse: “Allontanati da me, uomo. I tuoi regni mai saranno il mio”.

Traduco il più letteralmente possibile dal testo inglese originale, ma la derivazione araba si fa sentire e fa pensare al linguaggio fiorito e mistico dei poeti islamici; fa pensare alla sintesi di natura e religione che io stesso ho “sentito” sulle montagne del Libano, là dove scorre il fiume Adonis.
La risonanza orientale della figura e del periodo di questo scrittore siro-americano, sconosciuto in Italia, la si sentirebbe meglio nella traduzione francese del suo compatriota Mansour Challita (Khayats, Beirut, senza data). Ora, il “testimone” racconta:

Era già il crepuscolo; rivolgendosi a noi, disse:
“Discendiamo. La notte s’avvicina. Camminiamo alla luce, finché avremo la luce”.
Discese dalle colline e noi l’accompagnammo, mentre Giuda ci seguiva da lontano. Quando arrivammo a valle, era notte.
Tommaso, il figlio di Diafane, gli disse:
“Maestro, la notte discende e non possiamo più vedere la strada. Se tu vuoi, guidaci fino a quella borgata laggiù, dove potremo trovare cibo e rifugio”.
Gesù rispose a Tommaso:
 “Io vi ho condotto a quelle alture mentre avevate fame e vi ho ricondotto alla pianura con una fame ancora più forte. Non posso restare con voi questa notte. Ho bisogno d’essere solo”.
Simon Pietro si avvicinò e disse:
“Non ridurci a camminare soli in mezzo alle tenebre. Lascia che rimaniamo con te. La notte e le sue ombre non dureranno ancora molto; il mattino ci ritroverà presto, se rimani con noi”.
Gesù rispose: “Questa sera, le volpi hanno i loro covi, gli uccelli i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha sulla terra dove riposare il suo capo. In verità, preferisco esser solo. Se mi vorrete, sarò di nuovo vicino al lago, dove m’incontraste”.
Allora ci allontanammo da Lui coi cuori pesanti. Molte volte ci arrestammo e ci voltammo verso di Lui. Lo vedemmo dirigersi a ponente, in solitudine maestosa. Il solo tra noi che non si voltò per contemplarlo fu Giuda Iscariota.
Da quel giorno, Giuda divenne acido e distante. E mi sembra ch’egli avesse del pericolo nelle orbite degli occhi.

A questo capitolo fanno seguito altri 78 capitoli, dedicati a personaggi ed episodi della vita di Gesù, che vanno da Anna, la madre di Maria, a Rafca, la fidanzata di Eqana, fino ad “Un uomo del Libano”, 19 secoli dopo. Khalil Giubràn, per adottare la grafia scelta dall’arabista Francesco Gabrieli, che dedicò al Nostro un fugace accenno in Levante (n. 1-2, 1958), potrebbe essere anche detto libanese e così lo vidi considerare a Beirut, dove ebbi la fortuna di leggerlo, durante una quasi triennale permanenza presso quell’Istituto Italiano di Cultura. Ma della sua vita d’emigrato ho già scritto su La cultura nel mondo (n. 5-6, 1971).
In questa sede, preferisco semplicemente tradurlo, riducendo il mio intervento ad una tardiva opera di rivelazione, quando si consideri che Khalil Giubràn è ormai tradotto in venti lingue. A cinquant’anni dalla morte (Bécharré, Libano, 1883-New York, 1931). Eccovi dunque, sempre dal citato libro, il capitolo sui discorsi di Gesù. È Assaf, oratore di Tyro, che racconta:

Cosa dirò dei Suoi discorsi? Forse aveva nella persona qualcosa che dava forza alle parole e dominava gli ascoltatori. Perché era bello e lo splendore del giorno era sul Suo viso.
Uomini e donne guardavano Lui più che seguire i Suoi argomenti. Qualche volta, parlava con poteri spirituali e questa spiritualità agiva su quelli che lo ascoltavano.
Nella mia giovinezza, avevo ascoltato gli oratori di Roma, di Atene e di Alessandria. Il giovane Nazareno era diverso.
Costoro abbellivano le parole con un’arte fatta per incantare l’orecchio; ma, se qualcuno ascoltava Lui, il cuore lo abbandonava per correre verso luoghi mai visti.
Cominciava una storia così: “Un contadino andava ai campi, per lavorarli”. Oppure:
“C’era un uomo ricco, che possedeva molti vigneti”.
O anche: “Un pastore contò il suo gregge al tramonto del sole e scoprì che mancava una pecora”.
Quelle parole ritrasportavano i suoi ascoltatori al loro stesso candore e al più remoto dei loro giorni. In fondo, siamo tutti dei coloni che amiamo le vigne. Nei pascoli della nostra memoria ci sono un pastore, un gregge e una pecora perduta. C’è il vomere dell’aratro, c’è l’aia, c’è il frantoio.
Egli conosceva le sorgenti del nostro io primordiale e il filo esterno del quale siamo tessuti. Gli oratori greci e romani parlavano della vita, così come si presenta alla ragione. Il Nazareno parlava di un’aspirazione che si rifugia nel cuore. Quelli vedevano la strada con occhi poco più acuti dei vostri e dei miei. Lui vede la strada alla luce di Dio. Penso ch’Egli parlava alle moltitudini come una montagna parlerebbe alla pianura. E nelle Sue parole c’era una potenza che mancava a quelle degli oratori di Atene e di Roma.

Continuano le “testimonianze”. Nel primo capitolo abbiamo ascoltato Giacomo, il figlio di Zebedeo. Ora ascolteremo, nella dolcissima interpretazione di Giubràn, Maria Maddalena, che racconta il suo incontro con Gesù. È un nuovissimo accostamento della femminilità al trascendente. Tra le 79 voci di Jesus the Son of Man mi sembra una delle più antiche e contemporanee assieme:

Lo detestai. Mi sentii respinta in me stessa ed ebbi freddo, come se uscissi da un bagno di neve. Tremavo. Quella notte, lo vidi in sogno e dissero, poi, che avevo gridato durante il sonno e m’ero agitata nel letto.
Fu nel mese di agosto che lo rividi dalla finestra. Era all’ombra di un cipresso nel mio giardino; se ne stava immobile, come scolpito nella pietra, al pari delle statue di Antiochia e delle altre città del nord.
Il mio schiavo, l’Egiziano, venne da me e disse:
“Quell’uomo è di nuovo qui. Egli siede là, nel vostro giardino”.
Lo guardai e l’anima si agitò in me, perché era bello. Il Suo corpo era un insieme perfetto e le Sue membra sembravano reciprocamente armonizzate. Allora indossai le vesti di Damasco, uscii dalla casa e mi diressi verso di Lui. Era la mia solitudine o il Suo profumo che mi spingeva verso di Lui? Era la fame dei miei occhi desiderosi di bellezza o era la Sua bellezza che cercava la luce dei miei occhi? Fino ad ora, non lo so. Mi avvicinai a Lui con i miei panni festivi e i miei sandali d’oro, i sandali che mi aveva donato il capitano romano.
“Buongiorno a Te”, gli dissi.
“Buongiorno a te, Miriam”, rispose.
Mi guardò: i suoi occhi mi videro come mai alcun uomo mi aveva visto.
All’improvviso, mi sentii come spogliata ed ebbi vergogna. Eppure, Egli aveva semplicemente detto “Buongiorno a te, Miriam”.
Allora dissi: “Non vuoi entrare nella mia casa?”.
Rispose: “Non sono già nella tua casa?”.
Non compresi che cosa intendesse dire; ora lo so.
E aggiunsi: “Non vuoi dividere il vino e il pane con me?”.
Rispose: “Sì, Miriam; ma non subito”.
“Non ora, non ora”, disse.
La voce del mare era in quelle parole, e quella dei venti e degli alberi. Quando le disse a me, la vita parlò dalla morte? Amico mio, sappi ch’ero già morta, allora. Ero una donna separata dalla sua anima. Vivevo divisa da quell’io che tu vedi, oggi. Appartenevo a tutti gli uomini e a nessuno. Mi chiamavano donnaccia, femmina posseduta da sette demoni. Ero maledetta e desiderata.
Ma quando i Suoi occhi d’aurora guardarono dentro i miei, tutte le stelle della mia notte si eclissarono e divenni Miriam, semplicemente Miriam: una donna perduta nei luoghi a lei noti, ritrovatasi in quelli nuovi.
Gli dissi: “Entra in casa; dividi con me il pane e il vino”.
Rispose: “Perché m’inviti a diventare tuo ospite?”.
Risposi: “Ti supplico, entra nella mia casa”.
E tutto quello ch’era nel cielo era in me e tutto quello ch’è nella terra gridava in me verso di Lui. Allora, Egli mi guardò e il mezzogiorno dei suoi occhi si fermò su di me. Disse:
“Tu hai molti amanti, eppure io solo ti amo. Gli altri uomini amano se stessi, quando ti cercano. Io ti amo per te e in te. Gli altri uomini, ora, vedono in te una bellezza che passerà più rapidamente dei loro medesimi anni. Io vedo in te una bellezza che non appassirà mai e che, all’autunno dei suoi giorni, non avrà paura di guardarsi allo specchio. Essa non sarà più umiliata. Io solo amo ciò che non è visibile in te”.
Poi disse con voce dolce:
“Vattene pure; se questo cipresso è tuo, se non vuoi che io mi segga alla sua ombra, proseguirò il cammino”.
Lo scongiurai più fortemente, dicendogli: “Maestro, entra nella mia casa. Ho dell’incenso da bruciare e una bacinella d’argento per i tuoi piedi. Sei straniero e non lo sei. Ti supplico, entra nella mia casa”.
Allora Egli si alzò e mi guardò, come se le stagioni guardassero le praterie.
Sorrise e disse di nuovo:
“Tutti gli uomini ti amano per se stessi, ma io ti amo in te e per te”.
Si allontanò. Nessun uomo ha mai camminato come Lui camminava Era come una brezza, come una brezza levatasi nel mio giardino e spostatasi ad est. Oppure, era come una tempesta che scuoteva ogni cosa dalle fondamenta.
Non lo sapevo. Quel giorno, il tramonto dei suoi occhi uccise il drago ch’era in me e divenni una donna; divenni Miriam, Miriam di Magdala.

Termina qui il quarto capitolo, uno dei più lunghi del libro. Per coerenza al dichiarato intento di semplice rivelazione, ho tradotto senza interruzioni. Aggiungo una nota di commento, per chi voglia sapere qualcosa di più intorno a Giubràn. Il mio incontro letterario con lui, accaduto in una terra dove c’è qualcosa di veramente mistico nell’aria, di mistico e di storico insieme (pensate ad un semplice professore di filosofia, che si trovi a Sidone, Byblos, Baalbeck, Damasco...), ha significato l’attesa riprova di quanto abbiano in comune esilio e poesia, orizzonti e preghiera, nostalgia e fede. Riconobbi in Giubràn un cristianesimo islamizzato. In chiave geografica, le parabole di un Vangelo finalmente toccato, anzi “sentito”, avevano risonanze arabe. L’incontro avveniva tra due psicologie di opposta provenienza. Questo fu per me, lontano da casa, inatteso e consolante. Io venivo da Occidente; egli era venuta da Oriente. Grazie alle lettere, il mondo si faceva piccolo.
A parte il riferimento autobiografico non chiesto (sostengo che tradurre non è tradire!), chi, in materia di letteratura araba, può commentare certi appuntamenti meglio del citato Francesco Gabrieli? Così, infatti, egli accennava: «… il contatto con la lingua, il pensiero, l’arte anglosassone diede luogo nei primi decenni del Novecento a quella scuola di poesia siro-americana, che è uno dei più singolari e fecondi fenomeni della letteratura araba moderna. Tutta una serie di poeti e artisti come Amin ar-Aihani, Khalil Giubràn, Ilia Abu Madi, lasciò o piuttosto fuse l’ispirazione dei patrii modelli, dell’antica poesia del deserto, con quella dei grandi autori inglesi e americani, Shelley e Swinburne, Tennyson e Whitman; e l’innesto si rivelò fecondo, e la scuola siro-americana, ormai consacrata alla storia, divenne e forse è rimasta il più interessante tentativo di rinnovamento della giovane poesia araba del Novecento».

Sì, sì, d’accordo; ma un libro come Jesus the Son of Man è da leggere e basta. Perciò termino questo primo saggio italiano, semplicemente gustandomi con voi (oggi anche la prosa è sofisticata), in tutta la sua purezza evocativa, il capitolo VI, dedicato a Simone, soprannominato Pietro, quando egli e i suoi fratelli furono chiamati. Eccovi la traduzione. È una pagina, oserei dire, stranamente adatta al miglior cinema e al nuovo teatro:
Ero sulla riva del lago di Galilea, quando vidi per la prima volta Gesù, Signore e Maestro.
Mio fratello Andrea era con me; gettavamo le nostre reti in acqua.
Le onde erano forti e alte. Avevamo preso poco pesce. I nostri cuori erano tristi. All’improvviso, Gesù apparve dietro di noi; come s’Egli avesse preso forma in quel momento, poiché non l’avevamo visto avvicinarsi.
Ci chiamò per nome e disse:
“Se volete accompagnarmi, vi condurrò ad un’insenatura dove i pesci pullulano”.
Quando guardai la Sua faccia, la rete mi sfuggì di mano, perché una fiamma si accese in me. Mio fratello Andrea parlò e disse: “Conosciamo ogni baia della costa e sappiamo che in un giorno di vento come questo i pesci si rifugiano in profondità, oltre le nostre reti”.
Gesù rispose:
“Seguitemi fino alla spiaggia di un mare più grande; vi farò pescatori di uomini e le vostre reti non saranno mai vuote”.
Abbandonammo la nostra barca e le reti, per seguirlo. Ed io camminai, ansimante, ammirato, come attratto da un potere invisibile che si producesse al suo fianco. Mio fratello Andrea veniva dietro, sbalordito e disorientato.
Mentre marciavamo sulla sabbia, imbaldanzito, dissi:
“Maestro, io e mio fratello ci siamo attaccati ai Vostri passi. Ovunque andiate, noi andremo. Ma, se questa notte vi piacesse venire a casa nostra, saremmo onorati dalla visita. La nostra casa non è grande, il nostro tetto non è alto, avrete un pasto frugale. Ma, se entrerete nella nostra capanna, essa diverrà un palazzo. E se spartirete il pane con noi, noi meriteremo d’essere invidiati dai principi della terra”.
Egli disse: “Sì, sarò vostro ospite, questa sera”.
Mi rallegrai in cuor mio; continuai a camminare in silenzio dietro a Lui, fin quando arrivammo a casa. E quando ci arrestammo sulla soglia, Gesù disse:
“Che la pace sia su questa dimora e su tutti quelli che vi abitano”.
Entrò; noi lo seguimmo.
Mia moglie, mia suocera e mia figlia si presentarono a Lui e lo salutarono; poi, s’inginocchiarono e baciarono il bordo delle sue maniche. Erano colpite dal fatto che Lui, l’Eletto e l’Amatissimo, fosse venuto a casa nostra; perché lo avevano visto nelle vicinanze del Giordano, quando Giovanni Battista l’aveva presentato al popolo.
Mia moglie e mia suocera cominciarono a preparare la cena. Mio fratello Andrea era un uomo timido, ma la sua fede in Gesù era più profonda della mia. E mia figlia, che allora aveva dodici anni, si teneva vicina a Lui e tirava la Sua veste, come avesse paura che Egli ci lasciasse e uscisse di nuovo, nella notte. Ella si rannicchiava contro di Lui, come pecorella perduta ch’abbia appena ritrovato il suo pastore.
In seguito, ci siamo messi a tavola. Egli spezzò il pane e versò il vino nei bicchieri. Rivolto a noi, disse:
“Amici miei, fatemi il piacere di dividere con me queste vivande; il Padre ci fa la grazia d’esserne forniti”.
Disse ciò, prima d’averne assaggiato un pezzo, perché desiderava seguire un’antica tradizione, per cui l’invitato d’onore diviene anfitrione. Mentre eravamo a tavola con Lui, avevamo l’impressione d’essere al festino d’un gran re.
Mia figlia Petronilla, giovane e inesperta, guardava il Suo viso e seguiva i movimenti delle Sue mani con un velo di lacrime negli occhi.
Si alzò da tavola; noi lo seguimmo e sedemmo vicino a Lui, sotto il pergolato. Egli parlò e ascoltammo. I nostri cuori volteggiavano in noi come uccelli.
Egli parlò della seconda nascita dell’uomo, dell’apertura delle porte del cielo, di angeli che discendevano a portare la pace tra gli uomini e di angeli che salivano fino al trono del Signore, portando a Dio le preghiere degli uomini.
Poi, mi guardò negli occhi e penetrò fino in fondo al mio cuore.
Disse: “Vi ho scelti, te e tuo fratello; dovete seguirmi. Avete lavorato e vi siete sobbarcati. Ora, vi donerò il riposo. Accettate il giogo e imparate con me, poiché nel mio cuore c’è la pace e le vostre anime troveranno l’abbondanza e la gioia dell’arrivo”.
Quando parlò così, mio fratello e io c’inchinammo davanti a Lui e io dissi: “Maestro, poiché nel mio cuore è la pace, vi seguiremo fino ai confini della terra. E se il nostro fardello sarà pesante come una montagna, lo porteremo con gioia, insieme a Voi. Se cadremo in cammino, sapremo di essere caduti sul cammino del cielo e saremo soddisfatti”.
Mio fratello Andrea parlò e disse:
“Maestro, noi saremo fili nelle Vostre mani e Vostro telaio. Tesseteci nel modo che volete, perché saremo nella veste dell’Altissimo”.
Mia moglie alzò il viso e lacrime di gioia correvano sulle sue guance; parlò con vivacità e disse:
“Felice voi, che venite nel nome del Signore; benedetto il ventre che Vi portò e il seno che Vi allattò”.
Mia figlia, che aveva dodici anni, si sedette ai Suoi piedi e cercò di rannicchiarsi ai Suoi fianchi. E mia suocera, accasciata al suolo, non pronunciò parola. Piangeva in silenzio; il suo mantello era bagnato di lacrime.
Allora Gesù si avvicinò a lei, prese il suo viso tra le mani e le disse:
“Tu sei la madre di tutti loro; tu piangi di gioia; conserverò le tue lacrime nella mia memoria”.
La luna piena si levò all’orizzonte.
Gesù la guardò un attimo, si voltò verso di noi e disse:
“È tardi. Ritiratevi nei vostri letti e che Dio vegli il vostro riposo. Io resterò qui, sotto il pergolato, fino all’aurora. Oggi, ho gettato la mia rete e ho pescato due uomini. Sono soddisfatto. Vi auguro la buona notte”.
Mia suocera disse:
“Abbiamo preparato il Vostro letto all’interno della casa. Vi prego di entrare e di riposarvi”.
Egli rispose: “Senza dubbio, riposerei; ma non sotto un tetto. Permettetemi di dormire, questa notte, sotto il baldacchino delle vigne e delle stelle”.
Ella si dette premura; portò materassi e guanciali. Egli sorrise e disse:
“Vado a dormire in un letto fatto due volte”.
In seguito, lo lasciammo; rientrammo, e mia figlia fu l’ultima a rientrare. I suoi occhi restarono fissi su di Lui, fin quando chiusi la porta.
Così incontrai, per la prima volta, il mio Signore e Maestro. Quantunque siano passati molti anni da allora, sembra sia stato oggi stesso.

Ho già definito Giubràn Khalil Giubràn (grafia adottata in Libano) «il Rabindranath Tagore arabo», per un contenuto di contestazione, ma anche di particolare presenza etnica, che vien trasformandosi in manifesto universale. A chiusura di queste traduzioni volutamente “adesive”, vorrei soltanto aggiungere, anzi ribadire, la serietà del cristianesimo orientale di questo poeta; egli si oppose alla ricchezza del clero maronita: un pretesto inconsapevole, per riaffermare in chiave desertica il Cristo scalzo, amico dei pescatori, proprio quel Cristo emblematico sul quale oggi lo spettacolo specula, a caccia di facili catarsi pauperistiche.
In realtà, il Gesù di questo pseudo-biografo arabo è più autentico di quanto il sospetto di “paganeggiamento intellettuale” supporrebbe.
A parziale illustrazione del libro dal quale ho tradotto i passi di cui sopra, piace ricordare che, continuando, noi “incontreremmo” il gran sacerdote, Caifa; Giovanna, la sposa dell’intendente di Erode; Luca e gli ipocriti; Matteo e il discorso della Montagna; un ricco levita e un pastore del Libano meridionale; Nataniele (“Gesù non era un mite”); la discepola Rachele; Giuda, il cugino di Gesù; Manassè, un avvocato di Gerusalemme; Giovanni, il preferito; Barabba di Yammuni (“Gesù l’impaziente”), e altri “testimoni” della predicazione.
Ma è il capitolo 73.mo che voglio sottolineare di nuovo. Questo il titolo nelle edizioni, sia inglese che francese: “Claudio, centurione romano”. Sottotitolo: “Gesù, lo stoico”.
La rassomiglianza col “Centurio” pascoliano fu tanta che a me, a quei tempi, appena trapiantato dall’Istituto Magistrale statale di Barga in quel di Beirut, sembrò un miracolo letterario, avvenuto all’ombra del simbolismo francese. In realtà, erano due messaggi di pace, esplosi in un mondo (leggi Medio Oriente) dove pace non c’è... A meno che tu, non turista, non voglia salire verso le montagne dell’antica Siria, terra di eremiti, di sacerdoti-poeti, di poeti-sacerdoti, come l’uomo triste al quale un popolo di ex pastori dedicò un mausoleo sulle solitarie pendici di Bécharré. Esiste ancora?

   
   
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