Settembre 2009

Alla ricerca dei suoni perduti

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La “scatola sonora”

Sergio Bello

 

 
 

Ogni strumento antico evoca
la genialità
di un costruttore,
la cultura
di una corte o
di una famiglia
o di una società,
la grandezza
di un compositore,
e, perché no,
una condizione
politica.

 

 

 

 

 

Figlio del clavicembalo e padre del pianoforte, della stessa famiglia a tastiera dell’organo e dell’identica tribù dei cordofoni, come l’arpa e il liuto, il fortepiano compie il trecentesimo compleanno. Infatti, risalirebbe al 1709 il primo modello, realizzato dal padovano Bartolomeo Cristofori, che si era trasferito alla corte di Ferdinando de’ Medici, nella quale ci si era annoiati del suono uniforme del clavicembalo a corde pizzicate; e ciò spinse il Cristofori a inventare un semplice – eppure magico – martelletto che, percuotendo le corde con una diversa intensità, a seconda della forza impressa dalle dita sui tasti, permetteva di variare la potenza delle note, e di conseguenza consentiva di creare suoni non uniformi, vibranti.

Jan Steen, “Il suonatore di liuto”, 1623, Musée du Louvre, Parigi.

Jan Steen, “Il suonatore di liuto”, 1623, Musée du Louvre, Parigi.


Il padovano chiamò il nuovo strumento “gravi cembalo col pian e forte”, che poi per l’intero Settecento prese il nome di fortepiano, e che dall’Ottocento in poi, con altre geniali variazioni, venne chiamato pianoforte.
Ma allorché, più di un secolo dopo, il conte meneghino Giuseppe Archinto regalò un magnifico fortepiano del costruttore viennese Johann Schantz, con decorazioni egizie dorate, alla sua magnifica futura moglie, Cristina Trivulzio, virtuosa in senso musicale, (anche la nobile mamma, Beatrice Serbelloni, era alquanto vivace), ormai gli strumenti più à la page venivano fabbricati a Vienna, a Londra, a Parigi.
La famiglia Archinto ha donato quel cimelio a Fernanda Giulini, che è una raffinatissima musicista, ma anche la massima collezionista italiana di strumenti antichi: realtà sorprendente, dal momento che, insieme con il fratello Vittorio, è a capo di una storica industria tessile, Liolà. Oggi quel fortepiano vive, perfettamente restaurato anche nel suono, nei saloni settecenteschi affrescati dallo Zuccarelli della villa-fattoria Medici Giulini a Briosco, dalle parti del Milanese, insieme con altri trentasette confratelli, a coda e a tavolo, e spinette, clavicembali, virginali, salteri, arpe, organi, liuti e mandolini.

Nel 2010 si festeggerà il bicentenario della nascita di Chopin (che è sepolto a Parigi, ma per espresso desiderio del musicista il suo cuore è conservato in un piccolo sarcofago di pietra, incastonato nella seconda colonna a sinistra della chiesa della Trinità, a Varsavia). E c’è già una folla di suoi devoti che chiedono di poter almeno sfiorare il fortepiano Pleyel numero 7265 di Briosco, sapendo che quello acquistato dal celeberrimo compositore nel 1839, in piena passione d’amore per George Sand, era il Pleyel numero 7267, quasi identico, e quindi ideale per l’esecuzione di preludi, di notturni, di barcarole, di scherzi e di ballate del musicista polacco.
Nella capitale francese, in quella prima metà del XIX secolo, le più celebri famiglie di costruttori di clavicembali e di fortepiano erano gli Erard e i Pleyel, e i musicisti, scegliendo uno strumento dell’una o dell’altra, ne determinavano la fortuna in tutta Europa. Giuseppe Verdi aveva un fortepiano Erard nella camera da letto della sua residenza a Sant’Agata, strumento che gli serviva per fissare durante la notte le frasi musicali che all’improvviso lo assalivano. Anche Wagner aveva composto il Siegfried su uno strumento venuto fuori dalla creatività di quella vasta famiglia di origine alsaziana.
Uno dei primissimi Erard era entrato nel 1787 nelle stanze di Maria Antonietta, dopo che il re aveva accordato al capostipite Sébastien un permesso speciale per superare l’ostilità nei suoi confronti della corporazione alla quale appartenevano i fabbricanti di strumenti musicali, quella dei ventagli.

Jan Steen,
“La lezione di clavicembalo”, 1660, (part.), National Gallery, Washington.

Jan Steen, “La lezione di clavicembalo”, 1660, (part.), National Gallery, Washington.

Arrivata in Francia giovinetta per sposare il futuro re Luigi XVI, nelle quarantadue carrozze del suo corredo la futura regina aveva portato un bel numero di arpe viennesi.
La signora Giulini possiede undici splendide arpe, alcune datate dal 1775 al 1790, del tutto identiche a quelle che Maria Antonietta suona nella sua camera a Versailles in un dipinto di Jacques Gautier-Dagoty. Anche in Italia l’arpa e il clavicembalo, e poi il fortepiano, facevano parte dell’indispensabile educazione delle nobildonne, e Pelagio Palagi ci ha lasciato tutta una serie di disegni di una famiglia milanese attorno a una fanciulla al piano, mentre è di Ludwig Guttembrunn il ritratto del nobile pavese Giacomo Sannazzari, vestito d’argento, in piedi accanto alla giovanissima moglie, ingioiellata, seduta al clavicembalo. Ancora a Briosco c’è un eccentrico fortepiano, detto “da boudoir”, costruito a Vienna nella prima metà dell’Ottocento, provvisto di cassettini per il cucito o la toletta, chiuso in una scatola decorata a putti, destinata ovviamente ai salottini delle signore.
È noto come ogni strumento antico evochi la genialità di un costruttore, la cultura di una corte o di una famiglia o di una società, la grandezza di un compositore, anche una condizione politica: e infatti l’Italia dei piccoli Stati legati all’Austria faceva fatica a costruire i suoi fortepiano, doveva pagare enormi dazi per importarli dalla Francia o dall’Inghilterra, era invasa da quelli viennesi: di Anton Walter, scelto da Mozart per comporre i suoi concerti per pianoforte, o di Conrad Graf, che aveva messo a disposizione di Beethoven squattrinato due suoi strumenti, regalandone uno anche a Clara Wieck in occasione del suo matrimonio con Robert Schumann. E nel 1840 Liszt chiese al pittore Danhauser di ritrarlo mentre suonava sul suo Graf.
I fortepiano della collezione Giulini splendono uno accanto all’altro, carichi di storia e di suoni, come se il tempo si fosse fermato: lo Schantz appartenuto a Felice Baiocchi, marito di Elisa Bonaparte; il Fritz con eccezionale tastiera di tartaruga e madreperla; il cembalo seicentesco napoletano del cardinale Ottoboni, dipinto da Luca Giordano; il fortepiano a tavolo del milanese Gaetano Scappa, di cui si conoscono solo due esemplari; la coppia di Graf con il pedale che consente la “musica turca”, vale a dire il suono di campanelli e di tamburi.
Gli antichi strumenti non sono prigionieri silenziosi, come in un museo: viaggiano, sia pure raramente, avvolti come antichi principi in coperte di pelliccia, allietano con il loro suono esotico varie mostre, o partecipano a concerti come quello al museo Poldi Pezzoli, che è riuscito a mettere insieme per una sera indimenticabile il fortepiano di Cristina Trivulzio e la viola di Stradivari di Giuseppe Archinto.

   
   
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