Settembre 2009

L’arte della scrittura

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Tradurre.
Tradire? Trafiggere. Leggere

Ada Provenzano
Mara Cintioni
Ermanno Borsi

Coll.: Enzo Crocetti
Renata Flora
Carla Forzano

 
 

Stato della lingua,
argomento che
appassiona per
il suo contenuto
di disperazione.
Si legge, si ascolta, e si sopporta male
un italiano angloide e gergale parlato
e scritto da bestie
ammaestrate.

 

 

Problema numero uno: saper scrivere, senza che frani addosso la sintassi. Per dire: ai nomi indicati come Padri della Costituzione, va senza dubbio aggiunto quello di Piero Calamandrei, per la parte che ebbe nella concreta formulazione del dettato costituzionale. E questa è cosa abbastanza nota. Quasi del tutto sconosciuta, invece, è la circostanza che al non-costituente Pietro Pancrazi, letterato e critico finissimo, venne affidata una minuta e capillare revisione stilistico-linguistica del testo.

Altri tempi, si dirà. Ed è proprio così, se oggi parliamo del cattivo stato della lingua italiana, avvilita dall’ignoranza della grammatica, dalla povertà del lessico, dall’uso scorretto di termini elementari. Sarà che la lingua, sia parlata che scritta, non ubbidisce a rigide prescrizioni, si modifica in base alle trasformazioni indotte dalla storia e dal costume, appartiene in definitiva a chi se ne serve. Ma certe sciatte derive, non arginate da una scuola che appare sopraffatta dagli strumenti della comunicazione mediatica, suonano irritanti, e sconfortanti.

È il pronome “te” che impazza dai teleschermi, esiliando lo schietto confidenziale “tu”, senza essere giustificato da un contesto regionale o dialettale. È il congiuntivo imperfetto che sostituisce il presente nelle espressioni esortative («Non mi seccassero con le loro chiacchiere!»).
Quanto al lessico, càpita che si confonda il verbo “schernire” con “schermire”, e non si tratta sempre di un errore di battitura. Frequentissimo poi l’uso di “avvallare” al posto di “avallare”. Per non parlare del termine “proseguio” o del termine “guardialinee”, utilizzati senza soluzione di continuità dai cronisti e dai commentatori sportivi. Sicché la concessione di un’onesta garanzia assume con la doppia “v” il significato di scendere a valle o sprofondare, mentre la seconda parola finisce nel dizionario delle distorsioni ortografiche e la terza getta nel ridicolo.
Anche i termini stranieri vengono adottati senza alcuna necessità e discernimento, compresi quelli appartenenti a lingue vicine alla nostra, di ceppo neolatino. Ad esempio, è invalsa l’abitudine di scrivere “murales”, al plurale, al posto di “mural”, oppure, volendo tradurlo in italiano, “murale”.
Più disarmante, tanto da far quasi tenerezza, la perla che si può scovare nella traduzione dal francese di un articolo di teologia. Dove il Concilio di Nicea, nell’originale “Nicée”, è stato reso con “Nizza”. Con un’imperturbabilità che, vien da dire, avrebbe accettato anche un Concilio di Saint-Tropez. Qui, allo sfondone linguistico si accompagna l’insufficienza storica, l’ignoranza su un avvenimento che ha contrassegnato, e ancora oggi contrassegna, la vicenda cristiana.

Rosa Pugliese

Rosa Pugliese

Se tanti infortuni accadono a persone scolarizzate, e magari laureate, c’è da mettersi le mani nei capelli; da sentirsi franare addosso secoli di cultura, mentre si affacciano le ombre corrucciate di Dante, di Leopardi, di Manzoni, di Gadda: nomi che hanno fatto la gloria del Paese dove «il sì suona».
Poeta, teatrante, magnifico traduttore, Guido Ceronetti vive appartato in Toscana, e come chi guarda sempre lontano, prende distanze, molto probabilmente per prender meglio la mira. Trascorre poeticamente la sua vita e ritorna sul proprio passato.
Ripescando dalle sue carte – dal «fondo senza fondo», come ama dire – i brani di Isaia, Geremia e Qohélet, del Cantico dei Cantici e dei Salmi e poi, giù attraverso il tempo, fino alla più secolarizzata modernità, di Sofocle e di Shakespeare, di Marziale e di Machado, di Saffo e di Seferis, di Villon e di Weiss, (letti in originale e riscritti in italiano), ha selezionato un’antologia di quasi mezzo secolo di traduzioni, (dal 1963 al 2008), intitolandola Trafitture di tenerezza.
Trafitture scoccate con leggerezza su una traiettoria lunga quanto la storia del mondo. E messe a segno con un’acuminata esattezza, da uno che ha trascorso la propria esistenza a limare le parole. E le scocca, quelle parole, dopo averle bene affilate, per andare a toccare i punti nevralgici del proprio corpus di scritti e di un tempo – il nostro – che neanche dalla prospettiva delle Scritture deve davvero sembrargli così estraneo e lontano.
Un’auto-antologia come auto-biografia poetica? La poesia – sostiene – «come res cogitans della stessa vita». Sta qui la sostanza poetica della sua vita? L’auto-biografia in versi è un’idea che gli piace. Sostiene: «Per tutta la vita mi sono esercitato a tradurre, in vista del verso, del verso di lingua italiana. Nel 1944, nelle sere del coprifuoco, mi sono esercitato a tradurre Orazio. Mi venivano versi brutti, ma almeno diversi da quelli, oggi illeggibili, che ci proponeva la scuola. Del resto, Orazio non era nei programmi».
“Orazieggiando”, cercava di imitare l’Ungaretti de L’allegria. Dopo molti anni, Giulio Bollati gli propose di tradurre per l’Einaudi tutti i quattordici libri degli Epigrammi di Marziale. Tradusse per tre anni interi, stando a Roma, quasi non facendo altro (qualche brano è presente nelle Trafitture). Il lavoro piacque. Così l’editrice alzò il tiro, facendogli tradurre l’intero libro dei Salmi, dall’ebraico biblico. Il testo venne pubblicato subito dopo la Guerra dei Sei Giorni. In seguito, questa versione del 1967 fu ripudiata da lui stesso. Rifatta in seguito con pazienza, senza consultare mai la traduzione precedente. Erano trascorsi vent’anni. Altri venti ancora, per una terza traduzione, quella attualmente in libreria («Si fa per dire – afferma Ceronetti – perché i libri sostano in libreria lo stesso tempo che una farfalla impiega per restare in cima a un papavero»). Considera questo lavoro di quasi una vita come un premio a se stesso, anche se si vendono appena una decina di copie all’anno. Ma lui cita quanto scrisse Puccini sul suo spartito della Butterfly: «Rinnegata e felice».

Fuori discussione la rilevanza della grammatica e della sintassi (e non parliamo dell’ortografia), oltre che dell’uso preciso delle parole, colte nel loro significato più aderente, più profondo. Ma che cosa vuol dire tradurre poesia in altra poesia? Significa dilatare al di là dei confini di una lingua, vivente o morta, l’emozione che potenzialmente un testo contiene. Il poeta tradotto va, attraverso l’alambicco di passione del traduttore, in cerca di altri cuori da conquistare, da far rabbrividire d’amore. Ecco perché l’esito sperato si traduce in trafitture di tenerezza, in conoscenza che è amore dato come farmaco, per amore. Questo per Ceronetti è essenziale: cultura e letteratura c’entrano poco.

Il dolore e il tempo, l’amore, la bellezza e la morte, le età dell’uomo e l’ombra di mistero e di angoscia che le accompagna, i temi delle sue composizioni, e dunque il contenuto del suo labirinto. Temi che riflettono il destino umano. Se c’è un filo, è quello. Ma che cosa è cambiato, nel mezzo secolo trascorso, nelle parole? «Una radunata di Voci, di voci di morti non del tutto morti, vivi nel Tempo, che per rimandarne la musica svanente si annulla». I decenni si sono stratificati, tra creazione e restauro, sul filo delle affinità spirituali. Del resto, chi dice poesia dice canto, sonorità, cadenza, mimesi, e tutto, dalla voce e dal gesto recitante, va fatto penetrare nelle indurite e bisognose facoltà uditive. Canto, rivela l’elegia di Rilke, è lo stesso che esistere.
Parlare, in questo contesto, dello stato della lingua italiana? È argomento che appassiona per il suo contenuto di disperazione. Si legge, si ascolta, e si sopporta male un italiano angloide e gergale parlato e scritto «da bestie ammaestrate». Può darsi che i nostri migliori scrittori classici e moderni abbiano scritto in una lingua ormai da considerarsi morta, per filologi futuri forse già nati. Noi tentiamo di rischiarare il tarocco con residui di pura energia. Chissà se ce la faremo ad arrivare fino in fondo!
Educarsi a parlare e a scrivere, ecco il problema. Occorre, soprattutto, leggere. Ma chi? E quali libri, per formarsi cultura, matrice di una scrittura originale? Consigli che uno scrittore appartato, Raffaele La Capria, dà ad una giovane donna: ricorda che quando leggeva i grandi romanzi di Tolstoj e di Dostoevskij non riusciva a staccarsi da I fratelli Karamazov, soprattutto nelle pagine in cui Ivan raccontava ad Alioscia La leggenda del Grande Inquisitore, né riusciva ad abbandonare alla sua sorte il principe Andrej ferito a morte senza aspettare Natascia che amorosamente lo assistette fino all’ultimo istante.
Erano i libri che allora leggevano tutti, sui cui contenuti si discuteva per ore. Come per La steppa, di C?  echov, oppure per La figlia del capitano, di Puskin, o per Onegin e la tenera Tatiana. Poi vennero i giorni di Pavese e Vittorini, con la frotta di scrittori americani, con Moby Dick, con Benito Cereno, con lo stupendo Billy Budd. E come ignorare Fabrizio Del Dongo attraverso il campo di battaglia di Waterloo, e Stendhal francese che fa scoprire i personaggi più italiani di tutti i personaggi italiani conosciuti in precedenza, la Sanseverina, il conte Mosca, il dispotico principe Ranuccio; o come non riconoscere con Julien Sorel l’orgoglio, la passione, il risentimento di un giovane ribelle, con il quale ci si può idealmente identificare? Anche Le illusioni perdute fanno parte di un’Educazione sentimentale cui subentrò l’infinita Recherche di Proust in cui letteralmente ci si può perdere.
Altri libri della lista del tutto soggettiva, e altre emozioni. Citando a caso, Orgoglio e pregiudizio, Passaggio in India, Cuore di tenebra,e poi tutti i racconti di Hemingway, quelli di Fitzgerald, e quelli di Capote… Tanti, i libri che vengono incontro, libri universali, capolavori senza tempo. Con una differenza, tra il passato e il presente: oggi, quando si entra in una libreria, tutto sembra diverso. Un giorno sembrava di entrare in una casa che ci apparteneva. Ora è come andare in un supermercato, in un non-luogo, con un’offerta sovrabbondante, superiore ad ogni possibile ricezione. Vi si vedono montagne di libri che sorgono dal pavimento, (gli scaffali non bastano più), con testi che si possono leggere, e tanti altri, una moltitudine, superflui, effimeri, inutili, da evitare. E la sensazione che si prova è di sconcerto.

Archivio BPP

Archivio BPP


Leggere, comunque, è indispensabile, in qualsiasi condizione, perché la lettura lega non solo a una tradizione, ma ad un’identità, perché la letteratura è la nostra memoria, che stabilisce un legame con l’umanità che ci ha preceduto, con le passioni, con le emozioni, con il dolore, con la gioia, con la speranza che gli uomini hanno sentito dall’età aurorale ai nostri giorni. Emozioni e passioni umane che ci aiutano a restare, appunto, umani.

In un saggio dedicato al collezionismo dei libri, Walter Benjamin – citato da Armando Torno – sosteneva che non sono i lettori a preservarli nel tempo, sono i tomi conservati a conservare la memoria degli uomini che li hanno raccolti. In parole semplici, non siamo noi a salvare i libri, ma siamo salvati dal ricordo che abbiamo lasciato tra le pagine, perché «noi viviamo in loro». A proposito di identità, dunque. Applicando questo paradosso al mondo greco e latino, possiamo affermare che tutti gli autori che vanno da Omero alla caduta dell’Impero Romano, fioriti nell’aureo millennio e mezzo dell’intelligenza occidentale, ci consentono ancora oggi di avere un pensiero, un gusto, un’anima. Forse senza neanche saperlo, ogni giorno ripercorriamo le strade battute dalle loro emozioni che misteriosamente non riescono a svanire. Chi desidera fare a meno della letteratura classica somiglia a un tale che ha deciso di non credere più a se stesso.
I testi fondamentali (ma anche qui si tratta di una biblioteca personale, al modo della lista di libri “universali” che abbiamo citato in precedenza) vanno dall’Iliade di Omero al Libro dei sogni di Artemidoro di Daldi, dalle Metamorfosi ovidiane alle Odi oraziane. E non si tratta di un recupero archeologico di curiosità o di ricordi scolastici, ma più semplicemente di una sorta di specchio nel quale possiamo osservare noi stessi. Quando ci capiterà di leggere nell’Odissea la vicenda dei compagni di Ulisse trasformati in porci da Circe, prendiamo atto che non si tratta di alcun sortilegio: la dea-maga ha soltanto riconosciuto la loro natura. E se siamo innamorati, senza dubbio avremo rivissuto l’impulso egoistico che Catullo nei Carmina trasformò in eterna poesia: «Vivamus, mea Lesbia, atque amemus, / rumoresque senum severiorum / omnes unius aestimemus assis. / Soles occidere et redire possunt; / nobis cum semel occidit brevis lux, / nox est perpetua una dormienda». Testo che tradotto (ma senza poter ricreare i sussurri e gli ammiccamenti dell’originale latino: «Viviamo, mia Lesbia, e amiamo, / e le prediche dei vecchi severi / stimiamole, tutte, quanto un soldo bucato. / I soli possono tramontare e tornare; / noi, una volta caduta la nostra breve luce, / abbiamo davanti il sonno di una notte perpetua».
Petronio, poi, e il Satyricon che Nietzsche amava addirittura più dei Vangeli. Vi si ritraggono impietosamente – tra le infinite situazioni – gli arricchiti di ogni tempo, dei quali Trimalcione resta il simbolo eterno. La volgarità riesce a tracimare dalle pagine, diventa lingua, odore, ideologia. Un capolavoro assoluto.
Non c’è stato grande spirito occidentale che abbia ignorato i classici. Napoleone viaggiava con un’edizione portatile delle Vite di Plutarco. Voltaire aveva in biblioteca tutti i possibili testi antichi, per leggere i quali si dimenticò di completare l’Encyclopédie alla quale aveva dato idee e saggi. Beethoven teneva sul suo tavolo un busto di Bruto, pugnalatore di Cesare, come simbolo di libertà. Montaigne, una delle più affascinanti anime del Rinascimento, rinunciò alle cariche pubbliche e agli onori di corte per chiudersi nel suo castello a meditare i classici: credeva che in essi fossero presenti tutte le informazioni necessarie per conoscere l’uomo. Copernico ebbe l’intuizione che fonda il mondo moderno in alcuni scritti greci che non sono ancora bene identificati: quasi sicuramente, partì dai pitagorici, e soprattutto da Archita, per i quali il sistema eliocentrico era una realtà. Non potremmo immaginare né Shakespeare né Leopardi né Erasmo senza le loro letture di autori antichi, né pensare alla filosofia contemporanea senza far ricorso a quello che si discusse ad Atene intorno a due millenni e mezzo fa.
E se ascoltiamo i discorsi di persone tronfie, che si ritengono indispensabili, vale la pena di ricordare quanto scrisse l’imperatore Marc’Aurelio in quella breve operetta privata che conosciamo impropriamente con il titolo Ricordi: «Tra poco avrò dimenticato tutto, tra poco tutti mi avranno dimenticato». E chi non ha verificato almeno una volta nella vita i singhiozzi che un deluso Ovidio lasciò con impareggiabile grazia nelle sue pagine? A voler compendiare: finché sarai fortunato conterai molti amici, quando le cose cambieranno resterai solo. E poi Orazio, che nelle Odi invita l’uomo a cogliere l’attimo fuggente: inventore del “carpe diem”, che non riesce a tramontare nella nostra cultura e nella nostra memoria. Di più: a volte irrita il lettore per taluni atteggiamenti di personale sicumera, ma è attualissimo quando scrive dopo “carpe diem” le parole: «Quam minimum credula postero». Ovvero: «Confidando il meno possibile nel futuro».
Sembrano concetti coniati in questi nostri giorni di investimenti in titoli tossici, che nel breve volgere di un mattino si trasformano in polvere! E poi Cesare, i tragici greci Eschilo, Sofocle ed Euripide, ed Erodoto, Lucrezio, Senofonte, Tucidide, e il grande Cicerone, Plinio il giovane, Marziale, Tacito, Seneca, e l’immenso Virgilio… E la loro influenza fino ai nostri giorni. Nel suo Pluto, Aristofane scrisse: «Patria è sempre dove si prospera». Nell’ultimo capitolo dei Promessi Sposi Manzoni riprese il concetto, e ribadì: «La patria è dove si sta bene». La guerra e l’amore, le insidie della politica e gli affetti familiari, i viaggi per terra e per mare e quelli attraverso i labirinti della psiche, le grandi epopee e le cronache minime quotidiane. In una parola, la vita. E i mille volti della nostra civiltà raccontati dai suoi più celebri cantori: poeti, storiografi, drammaturghi, filosofi: tutti Padri dell’Occidente.

   
   
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