Settembre 2009

il corsivo

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La regressione del Sud
e i mantra dell’Impadania

Aldo Bello

 

 
 

Il Sud è sparito,
non ha famiglia, non fa gruppo, non fa città, non fa
mito, non fa
comunità, non fa rete e sistema:
è un inferno
abitato da angeli che dispiegano
le ali e fuggono via dalla miseria.

 

 

 

Annuncio Eni: a rischio il Petrolchimico di Porto Torres. Annuncio Fiat: a rischio la produzione automobilistica di Termini Imerese. La maggioranza al governo resta muta. L’opposizione non apre bocca. Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” si chiede: «Cosa accadrebbe se, per assurdo, Porto Torres e Termini Imerese non fossero ubicate nel profondo Sud, bensì nell’operoso Nord e magari in zone in cui la Lega ha una buona presa elettorale?». Accadrebbe quel che si verificò a Savigliano, in quel di Cuneo, dove la Saint Gobain voleva chiudere il suo impianto, e l’appoggio leghista e quello governativo in un modo o nell’altro convinsero la multinazionale a far retromarcia.
Eppure, la situazione è nota, e a confermare la sciagurata situazione del Mezzogiorno è stata l’impietosa analisi Svimez: negli ultimi undici anni, dal 1997 al 2008, sono fuggiti dal Sud in 700 mila; nel solo 2008 hanno varcato la Linea Gustav, diretti al Nord e all’estero, in 173 mila, (25 mila dalla Campania, 12.200 dalla Puglia, 11.600 dalla Sicilia), per il 38 per cento laureati con il massimo dei voti in atenei meridionali, (erano il 25 per cento nel 2004). L’anno scorso, sostiene Svimez, il Pil ha continuato a calare dell’1,1 per cento, ed è inferiore del 60 per cento di quello del Centro-Nord, mentre il valore aggiunto dell’industria è precipitato del 3,8 per cento. Gli investimenti rallentano, le famiglie non consumano. I posti di lavoro nelle aree sviluppate sono cresciuti di 217 mila unità, mentre nelle aree meridionali se ne sono perduti 34 mila. Solo il 17 per cento dei giovani meridionali tra i 15 e i 24 anni lavora, in un Mezzogiorno in cui un lavoratore su cinque è in nero. Il Pil pro-capite è di 30.680 euro al Centro-Nord e di 17.990 euro al Sud.
Dice il Capo dello Stato: «Il fatto che le politiche di riequilibrio territoriale messe in atto in passato abbiano conseguito risultati insufficienti rende certamente indispensabile un forte impegno di efficienza e di innovazione da parte delle istituzioni meridionali; ma questo impegno non sarebbe sufficiente senza il supporto di una strategia di politica economica nazionale mirata al superamento dei divari in termini di dotazione di infrastrutture, di investimento in capitale umano, di rendimento delle amministrazioni pubbliche e di qualità dei servizi pubblici».

Quale sia la vendetta del mercato, di fronte al reiterato fallimento dello Stato, si legge non solo nelle dimensioni e nella qualità dei flussi migratori, (niente più valigia di cartone, ma trolley; niente più bracciantato generico, ma materia grigia di prim’ordine), ma anche dall’osservazione che ormai da sette anni consecutivi il Sud cresce meno del Centro-Nord, cosa che non è mai successa dal dopoguerra ad oggi. Ed è in atto una clamorosa selezione al contrario: si spostano gli intraprendenti e i capaci, e si deteriora progressivamente il capitale umano del Sud. E questo condizionerà negativamente anche l’evoluzione della demografia meridionale: in poco più di un ventennio si delineerà nettamente il declino, in un Sud che dagli attuali 20,8 milioni di abitanti scenderà a 19,3 milioni, con crescita sostanziale delle classi anziane (una persona su tre avrà più di 65 anni, una su dieci più di 80 anni). Solo poco più di un meridionale su tre (il 36,7 per cento) avrà meno di 40 anni, e i giovani sotto i 20 anni scenderanno al 17 per cento. Nel Sud, tra il 2008 e il 2030 la forza-lavoro subirà una contrazione di circa 2,2 milioni di unità. Chi organizzerà previdenza e assistenza per una popolazione anziana, e dal reddito contenuto, se la meglio gioventù meridionale si sarà posizionata altrove?

Altro capitolo da colonna infame della politica nazionale, quello della disoccupazione, giunta al 33,6 per cento in un Sud in cui sono aumentati anche i disoccupati di lunga durata, raggiungendo il 6,4 per cento del totale, dal 5,9 per cento del 2007. E 95 mila persone sono entrate a far parte della categoria dei disoccupati/scoraggiati, cioè di coloro che, dopo avere espletato inutilmente concorsi e presentato curricula e domande d’ogni tipo, non cercano più lavoro. In questo settore, moltissime le donne: la presenza femminile, del resto, è anch’essa sbilanciata, con una percentuale del 30,2 per cento per il Sud, (circa 2 milioni nel marzo 2009, con un calo di 20 mila unità rispetto a un anno prima), contro una del 56,7 per cento per il Centro-Nord.
Dicevamo delle infrastrutture. A Sud c’è una sola autostrada a tre corsie, e solo il 7,8 per cento delle linee ferroviarie ad alta velocità. Persino l’acqua è un guaio serio: gli acquedotti sono così malridotti, che in Puglia se ne perde lungo le tubature fino al 46 per cento, la metà di quella messa in rete, contro una media nazionale che è di un terzo. Anche per la Pubblica amministrazione sono dolori: è vero che in Italia per progettare e affidare i lavori di una grande opera servono in media 900 giorni, ma si va dai 583 giorni della Lombardia ai 1.100 della Campania, fino ai 1.582 della Sicilia. Più di quattro anni.
È vero che in ogni Paese ci sono zone ricche e zone più povere, ma il nodo gordiano è che da noi il solco si allarga sempre di più. Dal 1995 al 2005 le nostre regioni meridionali sono sprofondate nella classifica europea della ricchezza, perdendo in media una trentina di posizioni e andandosi a piazzare tra il 165/mo e il 200/mo posto, su un totale di 208. Si capisce allora perché la valigia (di cuoio, oggi; o il trolley, se si preferisce) per i dannati del Sud sia sempre pronta.

Reazioni al cospetto delle cifre della catastrofe? La presenza dei dati del Rapporto Svimez su parecchi giornali, ma per un solo giorno, poi tutto alle spalle, come se niente sia accaduto; il balbettio di qualche parlamentare meridionale, un po’ in radio e un po’ meno in televisione; le polemiche sul federalismo e sulla necessità o meno di un partito o movimento o lega del Sud, di cui in realtà non si sente proprio alcun bisogno; gli ultimi echi degli insulti ai napoletani, “colerosi” e “terremotati” nell’elegante versione storico-politica del signor (?!) Salvini, poi dimessosi da parlamentare appena eletto a Montecitorio, ma solo perché poteva optare per il più redditizio Parlamento europeo; il distillato del pensiero dei fancazzisti che imperversano un giorno sì e l’altro pure sui quotidiani e sui periodici della Penisola. Così, da una parte abbiamo letto l’originale ricordo che Riccardo Chiaberge ha dedicato a Beppe Viola, il valoroso telecronista sportivo della trasmissione “Quelli che il calcio” e autore di canzoni spassose, una delle quali – cantata da Enzo Jannacci – ribadiva la filastrocca di “Quelli che... oh yes!”, («Quelli che fanno l’amore in piedi convinti di essere in un pied-à-terre, oh yes!…»), oltre che di monologhi demenziali, degni del miglior Abatantuono, che ai tempi in cui Milano sapeva fare ironia sui suoi vizi recitavano fra l’altro: «Pecché mi sunt nu bello sciuretto. T’è capit? Mi tengo i soldi e la macchina con le ruote in lega leggera, mi sunt vegniù a Milan cunt una partida de limun e ho fatto i soldi pecché mi sunt viun che lavura e mi sunt fa un kiù accussì…», per il piacere sguaiato di chi non capiva di essere ritenuto lo scemo del paese perché voleva mettere una frontiera anti-terrona a Bologna o a Firenze, visto che la frontiera ce l’aveva già incorporata nella sua scarsa scatola cranica. Come chi poi, fintamente contrito, sembra aver cantato: «Quelli che... chiedo scusa ai terùn e vado a Bruxelles, oh yes!».
Dall’altra, abbiamo risentito i progetti bossiani della “immancabile” nascita della nazione padana, questa volta con capitale Venezia, dopo che Mantova deve aver risposto picche, avendo preso atto che di Impadania, cioè di Non-Padania, in realtà si tratta.

Damiano Malorzo

Damiano Malorzo

E non solo. Lasciamo da parte chi ha sostenuto che, più che di immigrazione, si tratta di mobilità interna, dimenticando di indicare la direzione unica di questa presunta mobilità, esclusivamente da Sud a Nord; e prendiamo brevemente in considerazione la tesi del non sentirsi più “altrove”, perché si vedono le cose «in chiave europea. È l’aspetto bello della globalizzazione».
È quanto sostiene Goffredo Fofi, secondo il quale senza dubbio in zone della Campania, della Calabria, esistono situazioni strozzate, senza passaggi tra arcaico e post-moderno, ma il panorama è fluido: «Oggi non ha più senso parlare di Nord e Sud, bisogna parlare di localismo ed Europa. Anche in Italia si sta un po’ avverando quell’ideale degli hippy americani degli anni Sessanta: il mio villaggio è il mondo».
E sapete che cosa infastidisce di più il Fofi? Nelle «geremiadi sul Sud, il vittimismo, che è una brutta malattia ricattatoria». In questo essendo in sintonia con Giuseppe De Bellis, un Carneade che si dice meridionale, secondo il quale, in una “Lettera di un emigrante” che “Il Giornale” non a caso pubblica come articolo di fondo, scopre che «i nuovi terroni viaggiano su un aereo con un computer portatile». Li ha visti lui all’aeroporto di Bari, questi allegri espulsi per mancanza di lavoro, questi trasvolatori con strumenti di navigazione (elettronica) a portata di mano, forse inclusi nei 700 mila che sono stati felici di lasciarsi alle spalle il deserto meridionale. Settecentomila emigrati dal Sud al Nord spaventano chi s’accascia sul luogo comune della questione meridionale, baldanzosamente sostiene il Nostro. E aggiunge: «Dobbiamo sentirci in colpa perché duecento persone al giorno decidono di lasciare un cielo stupendo per sperare di avere un cielo proprio?». Non sia mai.

Damiano Malorzo

Damiano Malorzo


(Ma sul tema si era interrogato con ben altri strumenti intellettuali Giuseppe Marotta, fra l’altro autore di “A Milano non fa freddo”, chiedendosi – e chiedendo – come mai al Sud il cielo fosse così bello e ostile, e al Nord così brutto e amico). Perché «la questione vera è che c’è un Sud che si muove, che cresce, che va, che si sposta, che produce, che guarda a se stesso come pezzo di mondo e non come mondo a pezzi. Cerca il mercato e lo trova. Sceglie il mondo e lo prende. Settecentomila emigranti sono la conferma che c’è speranza, anzi certezza. C’è dignità, fierezza, decoro… È un orgoglio terrone che sparge di accenti e di vocali aperte gli uffici, che inonda le multinazionali, che cerca spazio non come rivendicazione sociale, ma come soddisfazione umana senza latitudine…».

Il Sud abbandonato e derubato di fortuna e di soldi? Bubbole: è «un ritornello stonato, adesso. Una lagna fastidiosa, una nenia cantilenante. Il Sud riceve milioni a valanghe…». Che conta aver letto che da alcune Finanziarie in qua si distraggono ingenti somme del Sud, destinandole al Nord? Che conta che un ministro leghista abbia ammesso, ghignando, che «una volta tanto possono accadere» truffe del genere? Il resto di niente, per il De Bellis.
Conterà, almeno, quel che, senza zelo cortigiano e con intelligente consapevolezza, scrive un docente universitario, Giuseppe Berta, su un quotidiano mai tenero con il Sud, “La Stampa”? Citiamo: «…I numeri della Svimez non stupiscono chi, come me, li ha letti al termine di una giornata d’esami in un’università milanese, la Bocconi, che è una delle mete preferite dai ragazzi meridionali. Sono tanti quelli che giungono […] dalla Puglia, dalla Campania, dalla Sicilia, attratti dalla capacità di richiamo di una grande area metropolitana e dalle sue istituzioni formative. Sono studenti mossi quasi sempre dalla volontà di utilizzare gli strumenti d’analisi di cui si impadroniscono per comprendere il territorio dal quale provengono. Propongono, spesso in modo appassionato, tesi e lavori di approfondimento sui luoghi in cui sono nati, animati da un interesse molto forte e vivace per i problemi locali. Ma sanno bene che non applicheranno i risultati dei loro studi alle loro terre. Esse non concedono loro spazio per affermarsi, per far valere le loro conoscenze, per promuovere il loro talento. Del resto, come potrebbero rassegnarsi a tornare in posti che lasciano loro ben poche speranze? […]. Meglio, allora, molto meglio, scommettere su se stessi e tentare altrove la propria sorte. Nulla più di questa perdita del “capitale umano”, rappresentato dall’intelligenza e dalle competenze di migliaia e migliaia di giovani, testimonia il declino del Mezzogiorno, che assiste all’allontanamento progressivo delle sue energie più vitali. La crisi del Sud si riflette, ancor prima che nel peggioramento degli indicatori economici, nel venir meno di una visione dello sviluppo. Sulle prospettive di crescita della società meridionale è calata da tempo una cortina di silenzio».

Rosa Pugliese

Rosa Pugliese

Il Sud è sparito, scrive Marcello Veneziani. Il Sud non ha famiglia, non fa gruppo, non fa città, non fa mito, non fa comunità, non fa rete e sistema. Al più, fa associazione per delinquere. Non è più il Sud crociano, paradiso abitato da diavoli, ma un inferno abitato da angeli che dispiegano le ali e fuggono via per ammortizzare le difficoltà, la disoccupazione, la miseria. È il Sud che, come dicono in molti, è cambiato, ha ucciso la luna a Marechiaro, come si intitola un libretto di Daniela Carmosino, che invita la narrativa meridionale a venir fuori dal vecchio Sud. Altro che, se Meridione e meridionali sono cambiati. Sono cambiati anche i cartelli del crimine, che hanno potenti filiali nel Nord, e nell’Italia opulenta trasferiscono, investendoli e riciclandoli, immensi capitali. Questi flussi finanziari, e quelli unidirezionali dei giovani, ci dicono che esiste ancora qualche cosa che somiglia a una nazione. Solo che se i nostri ragazzi saranno costretti a voltare le spalle ai luoghi natii, il Sud si spegnerà, deperendo, invecchiando, incarognendosi nell’accidia. E invece «il Sud deve sapersi vivere e rappresentare come un mito vivente… Perché il Sud è la madre del mondo. Il Nord guida il mondo, ma il Sud lo sorregge».
Bisogna riequilibrare il peso schiacciante della Lega Nord, si dice. Chiodo scaccia chiodo? Gli “abbronzati” del Meridione che esorcizzano i visi pallidi del Settentrione? Una Lega Sud, si reclama. Come se non si sapesse che ce ne sono state fin troppe, nel corso degli anni. Destinate ad assorbirsi tra di loro, a scontrarsi nei tribunali per il possesso dei nomi o dei simboli, a scatenare risse intestine per i busti di Garibaldi, per la rimozione delle “piazze Cavour”, per le polemiche – addirittura – contro Costanza d’Azeglio, rea d’avere esclamato contro l’annessione del Mezzogiorno: «Qu’allons nous faire de ces gens-là, che cosa faremo di quella gente? Confesso che penso con terrore alla fatica di ripulire quelle stalle d’Augia». Costanza era moglie di Massimo, definito «pittore, romanziere, poeta, agitatore politico» da Eugenio De Carlo, vernolese scrittore e prefetto del Regno citato in una lettera inedita di Luciano Graziuso. E Massimo D’Azeglio (non Cavour), dopo l’Italia, voleva “fare gli italiani”.
Gian Antonio Stella nota che sono trascorsi decenni dal giorno in cui il movimento indipendentista siciliano aveva presentato due liste per la Costituente, mentre Finocchiaro Aprile inaugurava a Catania la campagna elettorale. Dal tramonto di quella stagione, si è visto di tutto: la nascita, nel 1984, a Palermo, del Movimento d’Azione Autonomista; la fondazione a Napoli di un Movimento Culturale fondato dallo scrittore, giornalista e attore Riccardo Pazzaglia, che intendeva «ristabilire la verità sul Regno delle Due Sicilie»; il battesimo, nel 1990, all’hotel Midas, della Lega Meridionale Centro-Sud-Isole, (subito diffidata da un’altra Lega Meridionale), che offrì la candidatura a Vito Ciancimino (che declinò) e a Licio Gelli (che soltanto inviò un augurio «a quanti si riconoscono nell’ideale di ricostruire un’Italia democratica, onesta, pulita per un suo futuro di prosperoso benessere»); la nascita di Noi Siciliani, capace di portare un deputato (Nino Scalici) all’Assemblea regionale siciliana grazie anche al peso del nome di Teresa Canepa, figlia del fondatore dell’Evis, l’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, che poi andò incontro a una morte tragica e misteriosa; un abbozzo di Unione Sud, formulato da Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio; l’iperattivismo della Lega d’Azione Meridionale di Giancarlo Cito, che voleva “tarantinizzare Milano” e marciò fino a Chioggia, minacciando di prendere a calci Bossi; la fioritura iniziale di un sottogruppo parlamentare che dovrebbe vigilare su tutto ciò che avviene nelle Camere in tema di Sud e come contraltare di un governo attento soprattutto agli interessi del Nord; l’emersione di Forza Sicilia, con intenti analoghi…
Un forte movimentismo, insomma, che nello scorso mese di gennaio ha riunito a Cosenza un folto gruppo di gruppetti, dai Centri di azione agraria a Noi Meridionali, da Uniti per la Puglia a Uniti per Matera, dal Partito del Sud a Sicilia Libera, da Lega Sud Ausonia a Unione Federalista Meridionale, fino a Uniti per Castrovillari e a Noi Borbonici. Obiettivo? Dar vita, insieme, a una Lega del Sud. Dibattiti, confronti, prese di posizione, proclamazione di diritti di primogenitura… In concreto, nulla. E poiché la storia, di solito, la scrivono i vincitori, chiuso l’incontro – diciamo così – a generale pari merito, non è rimasta memoria di nulla.
Si ricorda di più un leggendario spot elettorale finito su YouTube, quello di Giovanni Bivona, citato da Stella, un omino semicalvo che si presentava col simbolo di Patto Sicilia, e che urlava di fronte alla telecamera: «La politica è triste, facciamola diventare allegra. Protestate con me. Sto arrivando. Io sono qui per dirvi che dobbiamo votare tutti insieme, tutti per uno e uno per tutti perché non se ne può più di tutte queste cose che manca il lavoro, manca il turismo, l’edilizia, manca la serenità della gente in famiglia, nun si vuoli sposari più nisciuno picché manca ‘u travagghiu, così non ci saranno neanche produzione umana… Protestiamo. Protestiamo. Protestiamo!».

Con i tralci di vite, si allestisce la “f̣cara” di Novoli, in attesa dei giorni buoni del fuoco. - Nunzio Pacella

Con i tralci di vite, si allestisce la “fòcara” di Novoli, in attesa dei giorni buoni del fuoco. - Nunzio Pacella

Molti di noi – ha ammesso uno studioso di grande levatura, Giuseppe De Rita – per decenni hanno frequentato il Mezzogiorno come il problema centrale di una malformata nazione e di malformate istituzioni statuali; e quasi tutti abbiamo lavorato a far uscire la questione meridionale dai binari tutti politici su cui essa era stata sviluppata dai suoi padri nobili, da Giustino Fortunato a Francesco Saverio Nitti e a Gaetano Salvemini. «Ci sembrava che fare analisi e battaglie politiche non portasse da nessuna parte, e abbiamo cavalcato con ardore quel “nuovo meridionalismo” che sbocciò a fine anni Quaranta ad opera dei Saraceno, Guidotti, Morandi, Caglioti, Menichella, Cenzato». Nomi che oggi possono non dir niente – ammette De Rita – ma che in quel periodo operarono una vera e propria rivoluzione: la trasformazione dei problemi del Sud da questione politica a questione tecnico-economica, esaltando obiettivi di industrializzazione, di formazione, di capitale infrastrutturale, di riforma e rilancio dell’agricoltura, di radicale miglioramento della cultura di base e di creazione di una classe dirigente meno retorica e tesa a fare sviluppo dell’economia reale. «Di conseguenza, siamo stati tutti fautori e/o partecipi di un “big push” di intervento finanziario e organizzativo di tipo “straordinario”: Cassa per il Mezzogiorno, consorzi ed enti di bonifica e di sviluppo agricolo, banche di credito speciale, enti di formazione e di assistenza tecnica».
Nessuno è pentito di quel passaggio. Ma si intuisce che quella fase è del tutto tramontata, non tira più. Al contrario, si avvertono i sintomi di un ritorno a una questione meridionale a forte valenza politica. Nessuno, infatti, può ormai sottovalutare che nelle regioni meridionali si vada formando (o tentando di formare) una rete di movimentismo politico. Forse non ci sarà un “partito del Sud”, ma molti segnali di fumo vagano per i cieli, e fanno presupporre che ci siano leader tentati di giocare “politicamente” sul futuro del Mezzogiorno.
Da tempo ci è stato insegnato che il movimento è uno “statu nascenti” e non si configura mai con lineamenti certi; intanto ci si muove, senza limiti di appartenenza o di schieramento, sicché a medio termine il movimentismo potrebbe incunearsi tra le attuali formazioni politiche, spaccandole. Addirittura, di fronte all’isterilirsi della politica nazionale in scontri distruttivi, in alleanze mobili e in gossip da cortile, qualcuno potrebbe far credere che un’autentica innovazione politica può venire proprio dal movimentismo meridionale. Che è cosa diversa dal leghismo del Nord, dal momento che questo è «minuta e paziente mobilitazione dei localismi», mentre al Sud sembra tornare, come prima del “nuovo meridionalismo” del 1948, «una dialettica tutta politica e tutta di vertice, gestita da potenti capi di segmenti di interessi». Piaccia oppure no, è un’evoluzione, che non ci convince, ma che comunque merita attenzione.

   
   
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