Settembre 2009

Identità e memorie collettive

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Le guerre
che tradirono il Sud

Dimab

 

 
 

La guerra deluse le due Italie:
il Nord per il
mancato acquisto delle terre
dalmate; il Sud, per la mancata
distribuzione delle terre e per il
mancato sviluppo economico e
sociale di milioni di individui.

 

 

Quando, novantuno anni fa, scoppiò la Grande Guerra, nonostante i massacri e l’incapacità della classe dirigente, gli italiani ebbero la prima, autentica opportunità di avere una percezione della propria identità. In questa guerra di masse e non di eserciti professionali, i fanti-contadini intuirono per la prima volta di appartenere a una comunità nazionale con formazioni militari, un popolo, leggi, regole, tribunali dal Veneto alla Sicilia. E dopo Caporetto, grazie alla presenza di corpi militari stranieri, quegli stessi fanti intuirono di appartenere all’Europa.

Una copertina
della “Domenica del Corriere” del febbraio 1917.

Una copertina della “Domenica del Corriere” del febbraio 1917.

Grande era la confusione, all’epoca. Nell’aprile del 1918 il giornalista inglese Wickham Steed si recò da Lord Cavan, capo delle truppe britanniche sul fronte italiano, e scoprì che persino lui non capiva bene quali fossero i suoi nemici, e incredibilmente confessava di non sapere nulla né degli “jugoslovacchi” né dei “cecoslavi”. I nostri fanti acquistarono un senso di superiorità nel momento in cui compresero che i nemici, al modo dei mercenari, non combattevano per la propria Patria. Sentimento rafforzato dal gran numero di diserzioni: nel maggio ‘18 ben quattordicimila fra disertori e prigionieri cecoslovacchi formarono la Sesta Divisione cecoslovacca inquadrata nell’esercito italiano: indossando la divisa degli alpini, essa contribuì al successo di Vittorio Veneto, grazie al quale il 4 novembre gli austriaci firmarono l’atto di resa.
Fu una guerra del tutto diversa da quelle del Risorgimento. Soltanto fra gli intellettuali ci fu chi credette che si trattasse dell’ultimo conflitto risorgimentale. Si trattò invece di un’esperienza molto più drammatica, conclusasi con una vittoria più apparente che reale. Comunque, una vittoria. Anche se, come ammise in Parlamento il deputato – oltre che generale – Antonino Di Giorgio, «la verità è che nessuno governò in Italia la guerra».
Del resto, Antonio Salandra, il primo ministro che aveva deciso l’intervento, era sicuro che finisse prima dell’inverno del ‘15. E ne era convinto anche Cadorna. Allorché il nemico sfondò a Caporetto, il capo dell’esercito italiano accusò di tradimento alcuni reparti. Poi se ne pentì. Quasi nessuno aveva capito che la vittoria austriaca era dovuta a una nuova tattica di combattimento sperimentata a Riga, in Lettonia, qualche mese prima. Il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, sostenne – convinto – che tutto il male di quei drammatici giorni fosse dipeso dal passaggio di una stella cometa.
Caporetto fu linea di displuvio: si passò da una guerra di aggressione a una di difesa. Giuseppe Antonio Borgese scrisse che a quel punto «tornarono gli ideali della democrazia, uscendo dal dimenticatoio in cui erano finiti». La Canzone del Piave funzionò da inno nazionale. Diaz sostituì Cadorna.

Monumento ai Caduti di Mentana, a Firenze. - Laurens de Graaf

Monumento ai Caduti di Mentana, a Firenze. - Laurens de Graaf

Noi siamo noti, nel mondo, come “quelli della commedia all’italiana”, in grado di stravolgere in tragedia una pochade, e viceversa. Chi non ricorda i due magnifici cialtroni, Vittorio Gassman e Alberto Sordi, alla fine morti da eroi ne La Grande Guerra, di Monicelli? E, specularmente, una bella scena di uno dei film della serie di don Camillo fa comprendere come quella guerra fu percepita dagli italiani: è la scena nella quale l’improvviso irrompere delle note della Canzone del Piave mette a tacere di colpo i contrasti politici, e il comizio di Peppone si trasforma in una concione patriottica. Fu dunque, quella guerra, un evento traumatico e pagato a carissimo prezzo, ma anche, in definitiva, un’idea iniziale di appartenenza e di identità.
Provenienti da tutte le regioni, i nostri soldati furono costretti a condividere nelle trincee sofferenze e disagi, che videro, se non annullarsi, perlomeno ridursi le distanze sociali. Soprattutto, si dovettero abituare a una vita di relazione nuova, superando le barriere linguistiche che, per la prevalenza dei dialetti e la sopravvivenza dell’analfabetismo, li avevano divisi e resi estranei fra loro.
Si sviluppò così un sentimento di cameratismo che avrebbe poi rappresentato il collante in grado di tenere insieme, uniti nella rivendicazione di sacrifici sopportati e nella difesa dei valori per i quali si erano battuti, gli ex combattenti, espressione di un tipo umano inedito, nato, cresciuto e temprato in mezzo alle “tempeste d’acciaio” della guerra. La quale, in ultima analisi, bene o male contribuì a rafforzare il senso dell’identità, con una memoria collettiva che fu mito unificante della coscienza nazionale, testimoniato dai monumenti ai Caduti sorti anche nei villaggi più sperduti della Penisola.
Tutto questo, fino alla metà degli anni Sessanta. Poi venne il tempo della dissacrazione, con i giorni della storiografia militante che non completò il “racconto” della guerra con le testimonianze drammatiche che erano venute meno nel passato, ma spostò l’accento del tutto e soltanto sulle stragi, sui plotoni d’esecuzione, sulle decimazioni, sugli orrori dei campi di battaglia. Caporetto prese il posto di Vittorio Veneto. La Grande Guerra diventò – per quegli storici di parte dimentichi che accanto all’interventismo nazionalista ve n’era stato uno democratico e rivoluzionario – il simbolo del male.
Semmai, a un eccesso di patriottismo seguì un eccesso di segno opposto. E tuttavia, malgrado il tributo di sangue versato, quel conflitto si rivelò un elemento di modernizzazione del Paese, perché comportò il passaggio da una società ancora per tanta parte arcaica a una società per tanta parte industrializzata. Fu un passaggio brusco, ma inevitabile, che si manifestò attraverso le migrazioni interne dalla campagna verso la città o anche attraverso la modificazione della composizione della manodopera all’interno delle strutture industriali, che videro crescere la presenza femminile e il lavoro femminile; e nello stesso tempo proiettò il nostro Paese nel contesto europeo come grande potenza, con l’attivazione di una politica estera dispiegata non più soltanto a fini di espansione territoriale.

“La presa d’Italia”, a Roma, nello scatto di Rosa Pugliese.

“La presa d’Italia”, a Roma, nello scatto di Rosa Pugliese.

Certo, i sacrifici furono immensi e le conseguenze enormi, non solo per l’Italia, ma per l’intera Europa, se non altro per il fatto che la guerra segnò l’inizio dello scontro tra i grandi totalitarismi dei decenni successivi. Ma almeno per una parte dell’Italia quei sacrifici non furono inutili.
Scrisse Sigmund Freud: «Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tal misura il così prezioso patrimonio comune dell’umanità […] e inabissato così profondamente tutto quanto vi è di elevato». E lo storico russo Evgheni V. Tarle, poco dopo la conclusione del conflitto, osservò che «entrambi gli schieramenti delle potenze ostili avevano piani di conquista, entrambi erano capaci di far divampare l’incendio al momento che fosse parso loro vantaggioso, aggrappandosi al pretesto che apparisse il più idoneo». Nell’estate del 1914, Germania e Austria erano convinte che fosse giunta per loro l’occasione più favorevole.
Si credette a una guerra rapida. Durò invece dall’agosto ‘14 al novembre ‘18. Fu “guerra mondiale” perché scatenata dal Vecchio Continente che riteneva di poter accrescere la propria posizione di “centralità”, con i blocchi contrapposti tesi – ciascuno – al maggior dominio nel globo terracqueo; e perché sconvolse l’intera geopolitica del mondo. Ma si combatté solo su suolo europeo, ed europee furono le devastazioni materiali, così come europei furono in grandissima parte i caduti, i feriti e gli invalidi. Fu un conflitto che mobilitò come mai prima sotto il controllo dello Stato tutte le risorse economiche, soprattutto industriali, destinate a fornire agli eserciti fucili, mitragliatrici, artiglierie, mezzi di trasporto, aerei e carri armati, alle flotte navi moderne e sottomarini. La vittoria andò al campo in grado di fornire tutto questo materiale nella maggior quantità possibile.
Immenso il massacro. Caddero 1.800.000 tedeschi, tra 1.700.000 e 2.500.000 sudditi dello Zar, 1.350.000 francesi, 1.300.000 sudditi austro-ungarici, 750.000 britannici e 190.000 soldati dei Dominions, 600.000 italiani, 300-350.000 romeni, 300-350.000 turchi, 300-350.000 serbi, 100.000 bulgari, 100.000 americani, 50.000 belgi. Maciullati i corpi, avvelenati gli spiriti degli europei. Furono usati per la prima volta i gas, come narrarono Erich Maria Remarque nelle pagine di Niente di nuovo sul fronte occidentale ed Emilio Lussu in Un anno sull’Altipiano, e nel campo del cinema registi come Lewis Milestone, nel film tratto dalle pagine di Remarque, e Stanley Kubrick, in Orizzonti di gloria.
Gli spiriti furono intossicati da schiere di propagandisti, giornalisti e intellettuali al soldo dei governi, e dagli scontri fra militaristi e pacifisti di impronta umanistica e religiosa, tra i socialisti rivoluzionari e i loro numerosi nemici, tra futuristi e passatisti. Fu una guerra civile ideologica tra le potenze occidentali, alcune con le bandiere democratiche e delle libere nazionalità, altre fondate su gerarchie solidali guidate da monarchi, alti burocrati e militari.

Spaventosa l’eredità morale. Annullato il valore della vita umana. Diffuso lo spirito della violenza, che toccò i punti estremi nelle pratiche del bolscevismo, dei fascismi, del nazionalsocialismo e del militarismo nipponico, dopo il crollo degli Imperi germanico, absburgico, zarista e ottomano. Fu una guerra che tradì aspettative grandi e piccole: non fu – come si sosteneva – l’ultima nella storia dell’umanità; fece nascere nuovi, fragili Stati; scatenò ovunque ondate di convulsioni sociali. Come scrisse Keynes in Le conseguenze economiche della pace, fu dettata ai vinti una pace cartaginese, «senza nobiltà, senza moralità, senza intelletto», preludio a nuovi e più feroci conflitti. Fu una guerra che deluse l’Italia: quella cavouriana, del Centro-Nord, per il mancato acquisto delle terre dalmate; quella borbonica, del Centro-Sud, per la promessa non mantenuta della distribuzione delle terre e per il mancato sviluppo civile, economico e sociale di milioni di individui.

Particolare
del Monumento ai Caduti di Lecce. - Nello Wrona

Particolare del Monumento ai Caduti di Lecce. - Nello Wrona


Venne l’era fascista e l’Italia scavalcò il Sud, andando in Abissinia, perché il sole dell’Impero tornasse a risplendere sui colli fatali di Roma. Metà Paese, ancora una volta, fu destinato a vivere di un’agricoltura incapace di darsi strutture produttive moderne. Arretratezza e fame diedero un nome a una desolazione umana unica nel Vecchio Continente.
Quando maturarono i germi seminati dal Primo, scoppiò il Secondo conflitto planetario. Concluso il quale, dopo un’effimera – e ingannatrice – riforma agraria, il Sud emigrò in massa. Fu l’unica rivoluzione – silenziosa, in un certo senso anarchica – liberatrice per i meridionali, dopo una storia italiana che al Mezzogiorno aveva lasciato consapevolmente, come si diceva, “il resto di niente”. Storia che sembra ripetersi ancora ai nostri giorni, mentre l’Italia opulenta predispone leggi caine che escluderanno definitivamente il Sud dalle problematiche nazionali.
 
Fu la battaglia più dura, quella che cambiò l’Italia dell’epoca. Il 18 maggio di sessantacinque anni fa, alle 10,30, il 12° Reggimento polacco “Poldolski” entrava nelle macerie dell’Abbazia di Montecassino, mettendo così fine alla più cruenta battaglia sul suolo italiano del Secondo conflitto mondiale. In effetti, la battaglia di Cassino sta alla campagna d’Italia come lo sbarco in Normandia sta alla campagna per la liberazione della Francia. Dopo nove mesi di terribili combattimenti, lo sfondamento della linea di difesa germanica apriva infatti agli Alleati la strada verso la capitale italiana.
Nel luglio ‘43, sbarcati in Sicilia e a Salerno, gli anglo-americani procedevano rapidamente verso il nord della Penisola. Ma le forze tedesche avevano apprestato un’estesa, profonda linea di difesa, la “Linea Gustav”, che tagliava trasversalmente l’Italia, e che aveva come posizione dominante Montecassino, che sovrastava la Casilina, unica via d’accesso verso Roma. L’area divenne linea di massima resistenza tedesca, fitta di trincee, di casematte, di postazioni d’artiglieria, di nidi di mitragliatrici, di campi minati. In autunno, stretti nella morsa degli Alleati, i tedeschi fecero evacuare i civili, che si rifugiarono proprio nell’Abbazia, convinti che il luogo di culto sarebbe stato risparmiato dalla furia bellica. Una colonna di 120 autocarri tedeschi trasferirono in Vaticano – per salvarli – i preziosi tesori custoditi nel monastero benedettino.

Monumento ai Caduti di Parabita. - Nello Wrona

Monumento ai Caduti di Parabita. - Nello Wrona

La battaglia si svolse tra l’11 gennaio e il 18 maggio 1944. Molti centri abitati furono rasi al suolo, con gravi perdite anche civili. Il 15 febbraio, ritenendo erroneamente che nell’Abbazia fossero nascoste truppe germaniche, i comandi alleati ordinarono un pesantissimo attacco aereo (576 tonnellate di bombe): furono uccisi 400 civili, il monastero fu ridotto in macerie. Non essendo più “zona sacra”, i tedeschi lo trasformarono in un’inespugnabile roccaforte. Sicché ogni sperone roccioso, ogni contrada, ogni corso d’acqua, furono teatro di violentissimi scontri di soldati appartenenti a dodici nazionalità, tra cui tedeschi, americani, inglesi, neozelandesi, indiani, polacchi, francesi, canadesi, italiani. Furono devastati interi centri abitati, come San Pietro Infine, definito «la Pompei della Seconda guerra mondiale», i cui abitanti furono costretti a vivere per mesi in un labirinto di caverne, le cui rovine sarebbero state utilizzate da Monicelli per alcune sequenze de La Grande Guerra, dopo che le vicende belliche che vi erano accadute erano state filmate da John Huston; ad eterna vergogna delle truppe marocchine, alle quali il comandante (un ignobile generale francese) aveva promesso il saccheggio e lo stupro, rimane la memoria delle donne, suore comprese, violentate a Cassino e soprattutto ad Esperia, città martiri; legata al riscatto italiano fu l’area di Mignano Montelungo, dove insieme con un gruppo di polacchi combatterono contro i tedeschi le prime formazioni militari italiane; e collegata alla storia delle truppe americane fu Sant’Angelo in Theodice, sulle rive del fiume Gari, le cui acque vorticose furono insanguinate dai caduti statunitensi della Trentaseiesima Divisione Texas: oggi, sull’argine, è la Campana della Pace, i cui rintocchi ogni sera, alle 17.00, sono un monito severo, di commosso ricordo. Al modo dei cimiteri militari (c’è anche quello tedesco) che hanno accolto giovanissime vite, stroncate dalla stolta barbarie dell’uomo.

 

   
   
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