Settembre 2009

Rileggendo la storia

Indietro

Le rivoluzioni che tradirono il Sud

Mabel

 

 
 

 

 

 

Leggo di una preside che intendeva sostituire il nome di Pisacane, cui era intitolato l’istituto scolastico che dirigeva, con quello di un Carneade nipponico ignoto a chiunque, oltre le frontiere del Sol Levante. Per non offendere la sensibilità degli alunni, in maggioranza stranieri, per di più di un gran numero di nazionalità, sosteneva costei. Episodio rapportabile a quello del prete che, celebrando una messa alla quale partecipavano anche alcuni musulmani, invitava i credenti cristiani a non farsi il segno della croce, per non mettere in imbarazzo i presenti di fede islamica.

Cronache meridionali, queste, che rivelano due fenomeni: il più corrente, secondo il quale la madre degli imbecilli è sempre incinta; il più insidioso, e decisamente più grave, della rinuncia – per ignoranza o per servilismo – ai fondamenti minimi della nostra identità.
Si doveva fare l’Italia, e dalla leghista Pontida in poi abbiamo riscoperto che per Italia si intendeva quella cavouriana, che nelle intenzioni e nelle strategie politico-diplomatiche dello statista piemontese inizialmente culminava ai confini con gli Stati della Chiesa. Conquistato anche il Centro-Sud, si dovevano fare gli italiani («e lavare i napoletani», come elegantemente si diceva all’epoca), e dagli Angioini in poi abbiamo riscoperto che – come scriveva Flaiano – «dirsi italiani era una perdita di tempo», e a dirsi meridionali si rischiava una condanna preventiva e senza appello. Questo è, oggi, il cosiddetto Belpaese.
Mettiamo da parte l’Italia trans-pontificia, che si è inventata senza arrossire di vergogna una “questione settentrionale” che non sta né in cielo né in terra. Parliamo dell’Italia mediterranea, e domandiamoci una volta per tutte: di chi è la colpa, se il Sud è quello che è, con i suoi paurosi ritardi, col suo amaro pane dello Stato, col suo cuore viola, con le sue nostalgie fuori tempo massimo? Perché dopo sette secoli (e l’ottavo è da un decennio in corso) nessuno dei problemi terrificanti che confluivano nella (ormai ripudiata da quasi tutti) “questione meridionale” sono ancora sul tappeto, più vivi e condizionanti che mai, malgrado le rivolte, le sedizioni, gli ammutinamenti registrati nel passato, e malgrado la politica d’intervento straordinario dispiegata in vario modo, in almeno quattro decenni, per far calare la febbre nelle terre arretrate della Penisola?

“Lo scugnizzo”, in una tela di Antonio Mancini, L’Aia, Rijksmuseum Mesdag. - Archivio BPP

“Lo scugnizzo”, in una tela di Antonio Mancini, L’Aia, Rijksmuseum Mesdag. - Archivio BPP

È stato scritto che in tutte le insurrezioni popolari napoletane e sudiste vi fu assenza di capi e impreparazione politica della massa, per cui non ebbero alcun significato, alcuna incidenza storica, e la collera che ne determinava lo scoppio finì per dar luogo a resse sanguinose, oppure furono volte ai propri fini dai sovrani o da coloro i quali in un modo o in un altro partecipavano al potere. Tutto questo si riscontra anche in altre città italiane, e persino europee, ma nel Sud particolarmente va segnalata la mancanza di guida di un ceto medio capace almeno di conseguire risultati municipali che sarebbero stati di giovamento anche alla massa.
A Napoli e nell’ex Reame, malgrado certe bonarie promiscuità, la divisione delle classi è stata sempre ferrea, e ciò è in parte dovuto, sul piano storico, alla lunga tradizione di dominatori stranieri che regnarono sulla città e sul Mezzogiorno, quasi esclusivamente preoccupandosi che le varie classi sociali, separate da precisi schemi di privilegi e di “rispetti”, vivessero una vita di apatia, chiusa nell’ammirazione delle proprie tradizioni, delle spettanze e dei riti.
Vennero meno anche le lotte economiche. A partire dagli Angioini, la nobiltà fu soddisfatta dei propri privilegi terrieri e fiscali (una rottura politica si avrà solo con le idee illuministiche, che prepareranno alla nascita della Repubblica del 1799). La borghesia del Sud non ebbe mai un’importanza paragonabile a quella delle borghesie comunali e signorili del Centro-Nord; rimase sostanzialmente una “classe di mediani”, di addetti ad affari di piccolo cabotaggio, sempre minacciati dai ristagni economici. Sicché col tempo napoletani e meridionali, persistendo la crisi, finirono col disabituarsi alla creatività imprenditoriale e commerciale. Allo stesso modo il proletariato (operai, mastri e anche piccoli imprenditori e artigiani tradizionali) costituì una categoria di scarsissimo peso nella compagine sociale, e perciò esclusa dalle amministrazioni cittadine, rette dalla nobiltà.

Chiamato in Italia dal Papa contro lo Stato ghibellino creato da Federico II, Carlo d’Angiò batté Manfredi nella battaglia di Benevento. Era il 1266, l’anno che segna l’inizio dell’involuzione politica, sociale ed economica del Sud. A Benevento i baroni meridionali tradirono lo Svevo, così vendicandosi della sistematica limitazione dei loro anarchici privilegi, degli espropri, dell’amministrazione centralizzata, in una parola dello “Stato moderno” avviato dagli Hohenstaufen, e lasciando ai successivi poteri monarchici un terribile ammonimento: «Fu sconfittu e mortu re Manfre – sostiene una cronaca siciliana del 1269 – per re Carlu e per culpa de li napulitani, che fugeru, et abandunarulu...».
Carlo I, Carlo II e Roberto ebbero potenza e prestigio, svilupparono una politica estera ad ampio raggio, che in qualche modo collegò i rapporti del Sud con i Comuni e le Signorie del Nord. Ma tutta la loro opera poggiava, all’interno, su una struttura confusa: ripagati i baroni con i latifondi conservati fino all’Ottocento, e in non pochi casi fino alla metà del secolo successivo, alleatisi con la Chiesa (e da qui un fiorire di monasteri e cattedrali), svilupparono una politica fiscale di rapina, con gabelle, collette, dogane che, esentati i nobili e gli ecclesiastici, erano pagate esclusivamente dalla borghesia, che finì per disgregarsi rapidamente.
Dopo Roberto, il regno svela le proprie intrinseche debolezze ed entra in una fase di decadenza, durante la quale emergono le figure di due regine: Giovanna, nipote di Roberto, «reina grassa et magna, bella et vixo tondo», la quale «palesemente si diceva stava in adulterio con messer Luigi figliuolo del prence di Taranto suo cugino, e col figliuolo di Carlo d’Artugio, e con messer Iacopo Capasso...», e l’altra Giovanna, al pari della prima legata ad una cupa volontà lussuriosa, e ad una storia di tradimenti, di congiure, di crudeltà.

In questo clima si formarono le masse degli straccioni e le folle miserabili dei senza mestiere, degli affamati, dei ricacciati nelle campagne, degli emarginati nelle corti dei miracoli. E tuttavia dotati di una inesauribile forza demografica. Questa gigantesca moltitudine, rimasta identica per secoli, divenne nei successivi mutamenti politici (agli Angioini seguirono gli Aragonesi, poi si ebbero gli Spagnoli, una parentesi austriaca, Carlo III, i Borbone, inclusi i pochi anni dei francesi di Murat, i Savoia, e infine, dopo il secondo conflitto mondiale, la Repubblica) un anomalo, pittoresco, e nello stesso tempo esplosivo gruppo di pressione, che vedeva nel re l’unico possibile difensore contro i soprusi delle altre classi sociali, e che veniva strumentalmente usato per risolvere i conflitti tra la monarchia e la nobiltà.
Tumulti e agitazioni popolari (sanguinosi, e a volte folcloristici) furono frequenti nella storia napoletana e meridionale, ma lasciarono più echi nelle cronache che mutamenti radicali nella storia. Quando Andrea d’Ungheria, marito di Giovanna, fu trovato impiccato ad Aversa (forse ad opera della stessa consorte), il popolo si riversò nelle strade urlando «fierro, fierro, amaza, amaza», grido che si sentì frequentemente in quelle latitudini: ma erano folle mosse da qualche fazione della corte o della nobiltà.
Saccheggi e tumulti si ebbero quando venne detronizzata la stessa Giovanna (1381). Nel 1416 gli straccioni in armi liberarono la seconda Giovanna dalla mezza prigionia in cui la teneva il marito. Così insorsero, cacciando i francesi, durante l’invasione di Carlo VIII. Narra una cronaca d’autore incerto: «A dì di 6 luglio intrò nel gorfo di Napoli re Ferrante piccolo con 68 vele grosse, et andaro a la torre del grieco, e tutto il popolo corse gridando fierro, fierro, amaza, e amazarono gran parte delli franzesi, et in questo intrò in Napoli re Ferrante piccolo de Aragona, che tutto il popolo et gentili homini lo andarono incontro, dove morse lo marchese di Pescara, quale fo ferito da un franzese che tirò una frezata in la gola, per la quale subito morse…».
Il 14 maggio 1503 gli stendardi di Consalvo de Córdoba sventolavano per le vie di Napoli: era l’inizio di un dominio che sarebbe durato duecento anni. La capitale e il Sud decaddero economicamente e culturalmente. Ne guadagnò soltanto la sconcezza urbanistica, esaltata dagli accampamenti dei “Quartieri”, dall’ordito di luride medine, da strade senza sole nella città del sole, dai miasmi delle fogne a cielo aperto, dall’afrore che emergeva dai bordelli in fondo ai vichi e alle corti. Gli Spagnoli continuarono la politica degli altri dominatori: lusinghe, angherie, minacce, corruzione, discriminazione, fiscalismo esasperato, speculari al conformismo dei “mediani” e dei servi della gleba, all’apparenza più che alla sostanza, al disprezzo per le attività tecniche e l’imprenditoria. Quando le carestie esasperano gli animi, il “serra, serra” prende corsi non previsti e si trasforma in paurose rivendicazioni: allora viceré, nobili e uomini dabbene si uniscono per la propria salvezza.
(In un afoso pomeriggio del maggio 1585 la folla trascinò per le strade partenopee il corpo di Vincenzo Starace, «eletto dal fedelissimo popolo napoletano», ucciso con pugni e sassi, capro espiatorio d’una serie di vessazioni e di intrighi perpetrati da altri, in alto: «Nudo, lo cacciarono fuori ferito, sanguinoso e quasi morto, e con grandissimo vituperio lo strascinarono verso la Sellaria […]; e giunto in quel luogo, l’uscì lo spirito: e così morto lo strascinarono, chi per un braccio e chi per un altro con grande vergogna e disonore […]; e non bastando questo, lo posero una fune al collo; e cos’anche lo strascinarono per tutte le strade principali della città, e di passo in passo li davano nuove ferite; e quei che non portavano armi, con sassi sfogavano la loro rabbia sopra quel cadavere […]; e non pur sazi di questo, per ogni contrada lo smembravano […]; e chi avesse avuto ardire di riprenderli, davano senza riguardo ferite, e bastonate…»).

J.-L. Ernest Meissonier, “Barricate del giugno 1848”, Parigi, Musée du Louvre. - Archivio BPP

J. - L. Ernest Meissonier, “Barricate del giugno 1848”, Parigi, Musée du Louvre. - Archivio BPP

Napoli come specchio del Sud: plebei, mendicanti laceri, gente che vive di espedienti, magliari, venditori alla minuta, piccoli borghesi spauriti, prostitute, bambini, curiosi, gli strati infimi della Napoli spagnola che dimenticava feste e riti di Santi, e diventava protagonista della rivolta popolare e del terrore; e la “città perbene”, i nobili, il popolo grasso, il clero, i funzionari spagnoli, i legulei, coloro ai quali non mancavano il cibo, gli abiti e una buona sepoltura dopo la morte, che si mettevano al riparo, atterriti.
Napoli come rappresentazione dei rapporti confliggenti tra il Sud e i suoi dominatori: di qua la plebe, di là il “malo governo”. Allora la repressione chiarisce la paura delle rivolte che minacciano gli averi e le vite delle classi dominanti e possono sconvolgere l’ordine costituito. È una repressione fatta quando i moti stanno per placarsi, ma condotta con ugual furore. Nella controra, quando nei vichi il caldo infiacchisce le forze, i soldati vengon fuori dal castello e dai Quartieri. Attaccano, feriscono, massacrano.
Narra il Summonte: «Il Viceré […] alle 22 di luglio alle 16 ore, fece uscire gli Spagnoli tutti in ordinanza […] et all’improvviso tirarono archibugiate, e dal Castello cannonate alla Città; e calati alla piazza dell’Olmo, la saccheggiarono tutta, ammazzando molte persone, e con pignate di fuoco artificiato bruciarono, e rovinarono tutte quelle case, in tal modo che di qua, di là, cadendo le mura, e le pietre, le rovine s’erano un gran monte…».
Nei giorni seguenti, gli arresti, isolati o improvvisi, a seguito di sentenze “gridate” o affisse.

CONDEMNATI A MORTE - Note di tutti li Giustiziati, e pene a sciascheduno di essi date avante la di loro Morte – Die 24 Juliy 1585 – Iacovo Aniello Cartella, et Giulio Canto Alguzzini di Vicaria condemnati ad essere tanagliati sopra un carro, et arrivato avante alla Chiesa di San Agostino, li siano tagliate le mani destre, et condotti poi avante il Tribunale della Giustizia della Gran Corte della Vicaria, li siano tagliate le mani sinistre, et di là strascinandosi, siano condotti nel mercato, dove si abbiano da appiccare, eppoi squartati, et così fu eseguito.
A Giuseppe Buonsiglio cavallaro se facci il medesimo. Francesco di Franco vermicellaro condannato ad essere tanagliato sopra un carro, e che arrivato avanti alla Chiesa di San Agostino, sia strascinato infine al mercato, dove si abbia appiccare, eppoi squartare, et così fu eseguito...

Di tutti i moti popolari del Seicento, ha avuto un nome nella storia solo quello di Tommaso Aniello (6 luglio 1647), Masaniello per il popolo grosso e per un primo ceto medio desideroso di aver voce in sede municipale. Comunque, agì la massa che, priva di un autentico capo, trasformò la rivolta in una farsa barocca, con il pescivendolo che, dismessi gli stracci, indossò abiti sgargianti, promosse feste e pranzi con i nobili, pronunziò discorsi strampalati, e infine impazzì e venne ucciso.
Intanto, la spinta rivoluzionaria era smorzata, e gli Spagnoli riprendevano il controllo della capitale. Ricordo della novità insurrezionale di quei giorni, la tela di Domenico Gargiulo (Micco Spadaro), “La piazza del Mercato durante la rivoluzione del 1647”, e la satira “La guerra”, di un altro pittore, Salvator Rosa: «Senti come cangiato ha il mio Sebeto / in sistri bellicosi le zampogne, / né più si volge al mar tranquillo e cheto».
Nei secoli seguenti si accentuò il legame della plebe, divenuta ormai un cupo brulichio di stracci. Di queste masse informi, dei “lazzari del re” presenti in tutto il Sud, e del camorrismo che teneva in pugno interi quartieri di Napoli i Borbone seppero fare uno strumento risolutivo per contrastare le rivendicazioni costituzionali di parte della nobiltà, degli intellettuali, della borghesia. Quando, dopo la sconfitta dei napoletani a Civita Castellana, l’esercito di Championnet entrò in Napoli, fu costretto a combattere duramente contro una folla di lazzari sbucata da ogni dove, armati alla meno peggio, che ferocemente si battevano e morivano in nome di un re che intanto si era messo al sicuro. Così, quando il 13 giugno 1799 le bande del Cardinal Ruffo, dopo la lunga marcia sanfedista attraverso le campagne del Mezzogiorno, raggiunsero Napoli, ad esse si unì la ciurmaglia lazzara per abbattere le ultime difese dei patrioti e per dare inizio alle pubbliche impiccagioni, che lasciarono a lungo il Sud senza materia grigia, privo di pensiero. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se l’Unità d’Italia si compirà, sì, a Napoli, ma senza la partecipazione delle masse popolari, che rimarranno per non poco tempo con la nostalgia dei Borbone, prima di affezionarsi al nuovo re.
Dopo il 1861 la vita del Sud continuò con lo stesso ritmo, e in un certo senso peggiorò, dal momento che Napoli, da capitale, era divenuta capoluogo di provincia, perdendo, come a mano a mano l’intero Sud, le poche industrie e alcuni innegabili primati che aveva conseguito nel campo dei servizi civili, dalla ferrovia Napoli-Foggia (bloccata a Nocera Inferiore) alla navigazione a vapore (prima nave in ferro, in Italia, per i collegamenti per passeggeri e merci con l’Egitto). La borghesia meridionale restò teneramente conservatrice, mentre la vecchia nobiltà tramontava economicamente e culturalmente. Cominciarono a “partire i bastimenti”.

Giacinto Gigante, “La Cappella del tesoro in San Gennaro”, 1863, Napoli, Museo di Capodimonte. - Archivio BPP

Giacinto Gigante, “La Cappella del tesoro in San Gennaro”, 1863, Napoli, Museo di Capodimonte. - Archivio BPP

Del loro passato, straordinariamente, Napoli e il Sud conservano alcune caratteristiche. L’ex capitale del Reame è una delle pochissime città moderne – forse l’unica – per la quale si può parlare ancora della presenza di una plebe, mentre il Mezzogiorno sta diventando periferia di un lumpenproletariat unico del genere nell’Europa occidentale, parassitario, assistito, sostanzialmente vandeano anche quando nelle consultazioni elettorali vota a sinistra.
Nella sua Storia della Rivoluzione francese Michelet consigliava di non esercitare giudizi e discriminazioni sui moti del popolo, sulle sue ire, sulle sue insorgenze, sulle sue cecità generose e crudeli, perché al fondo di ogni sommovimento collettivo, di ogni ondata di furore o di forza delle masse, esiste un principio, se non sempre razionale, quasi sempre generoso. La critica storica non è obbligata a tener conto di questo.
Ma ciò non toglie nulla alla luce di poesia e alla vibrazione di epopea che suscitano le rivoluzioni napoletane e meridionali. I cospiratori e i martiri del 1799, i difensori delle barricate del 15 maggio 1848, gli scugnizzi armati di bottiglie Molotov delle Quattro Giornate non potranno essere mai dimenticati. Anche se tutte le rivoluzioni hanno sempre tradito il Sud. Perché – appunto – si tradussero, più che in storia, in romantica e tragica poesia.

 

I giorni dell’ira


Le Quattro giornate di Napoli

 

Tra il 28 settembre e il 1° ottobre del 1943 si accese, si sviluppò e si concluse a Napoli quell’insurrezione cruenta, prolungata, aspramente combattuta, definita, al modo della insurrezione milanese del marzo 1848 contro il Radetzsky, “Le Quattro giornate”. Fu una vera guerra di strade, di mura, di finestre, di tetti e di terrazze, di vicoli e di cortili, di piazze e di gradinate, di fondachi e di androni. Ma, poiché Napoli è città aggrappata a un sistema di colline ancora verdi di masserie, boschi, giardini, si sviluppò anche per campagne, vigneti, orti, paduli, fondi rustici, tra periferia e contado…
Questa attività di guerra fu condotta contro i reparti germanici (…). Gente di prima scelta: granatieri, guastatori, carristi, mitraglieri, in possesso di armamento completo ed esuberante, di mezzi di comunicazione per radio e per filo…
Le “Quattro giornate” costituiscono un esempio, forse il più solitario e genuino, di germinazione spontanea di una rivolta armata. In nessun trattato sulle rivoluzioni, dalla grande Rivoluzione di Francia alle rivoluzioni russe del 1905 e dell’ottobre 1917, si incontra un caso come quello di Napoli… Se “ricorso” si deve cercare, questo è nell’unica giornata di rivoluzione napoletana del 15 maggio 1848; e non solo pei luoghi dove essa si svolse, lungo l’asse maggiore della città dalla piazza del Palazzo Reale, a San Ferdinando e poi al largo della Carità e a quello del Mercatello (o piazza Dante) e infine alla salita del Museo, a Santa Teresa e alle adiacenze. Le barricate sorsero quasi agli stessi incroci, sbarrarono le stesse strade, e si combattette in taluni posti (a via Toledo e a piazza della Carità) lungo gli stessi muri, dalle medesime finestre e balconi. Patetici richiami da non trascurarsi, per offrire al lettore il senso vivo e vero di quei fatti. Nei quali due grida, già nei secoli trascorsi echeggiate tra i selci di Napoli, furono ripetute: quello che Eleonora de Fonseca Pimentel scrisse nel Monitore repubblicano, nel maggio del 1799, che cioè: «Pure San Gennaro si è fatto giacobino», parafrasato nel settembre 1943 in «Pure San Gennaro è antitedesco»; e l’altro che «I Masanielli non sono morti», riudito a via del Duomo, durante un combattimento del 30 settembre, mentre si rovinava a furia di mitraglia una camionetta armata carica di tedeschi…

Giovanni Artieri

I protagonisti
delle quattro giornate

Caduti, 318.
Mutilati, 21.
Invalidi, 53.
Feriti, 85.
Numero ufficiale
dei combattenti, 1.597.

 

Brani di un diario dimenticato

Dal Diario, 16 ottobre. Il laureando Carlo Criscio (…) mi ha consegnato tre cartelle con una testimonianza dei fatti: «Nutriti reparti si riversarono sulla via iniziando la razzia umana: ogni casa, a ridosso dell’edificio universitario, venne perquisita e da ogni casa furono trascinati sulla strada a scudisciate, a pedate, a piattonate, uomini, donne, fanciulli. Tra costoro, un marinaio. Tra la costernazione collettiva che pareva inesorabilmente vietare qualunque gesto di protesta, costui osò ribellarsi, difendersi, ingiuriare, offendere. Afferrato, si divincolò, mordendo, urlando, gridando la sua ira sul volto degli assalitori, rovesciandone al suolo un primo, un secondo, un terzo, fin quando i più non riuscirono faticosamente ad averne ragione serrandolo dappresso al cancello dell’Ateneo, incastonandolo in quello, avvinghiandolo a quello, con funi, stringhe, panni laceri. Subito dopo un graduato assunse il comando dei sicari, disponendo ai due lati dell’ingresso, distintamente, gli uomini e le donne, e comandando a tutti, in un urlo e in un gesto, di inginocchiarsi. Il lanzichenecco quindi avanza contro il marinaio, torbido, bestiale. Nella mano sacrilega agita una enorme clava. Il marinaio ansima e freme, tenta di divincolarsi ma non può, e ferma quindi, con uno sputo sulla grinta oscena del carnefice, il disprezzo per la morte. È il suo ultimo gesto, la clava rotea nell’aria e si abbatte pesantemente sulle ginocchia del prigioniero. Dalle labbra ritratte dall’angoscia, un gemito solo esala, aleggiando sull’improvviso, ermetico silenzio degli uomini e delle cose, un gemito lungo, straziante, soffiato su due sillabe, concluso in un rantolo: mamma. Di contro, la bestia umana è resa vieppiù feroce dal sangue, e la clava si leva ancora a colpire pazzamente, sulle braccia, sul petto, sullo sciaguratissimo corpo costretto ancora dai ceppi ma sul quale già aleggia misericordiosa la morte…».

Gino de Sanctis

Cronaca di quei giorni di settembre

I tedeschi ebbero il potere assoluto sulla città per diciotto giorni, fino all’insurrezione armata della popolazione. Il piano che essi intendevano attuare in quel periodo era semplice: trasportare tutto ciò che era trasportabile (viveri, merci, macchine) e distruggere tutto il resto in modo da impedire che alcunché di utile cadesse in mano agli Alleati avanzanti, e inoltre in modo che cadesse su di loro l’onere di provvedere a una grande città ridotta a un panorama di macerie…
Difficile determinare da quale quartiere e con quale episodio sia iniziata l’azione armata generale; la città viveva i giorni dell’occupazione chiusa nei suoi quartieri, percorsa da una zona all’altra solo dalle pattuglie tedesche e da quei napoletani che la fame spingeva fino alla periferia e nelle campagne alla ricerca di qualche chilo di patate o di un fiasco di acqua potabile.
In effetti l’elemento primo dell’organizzazione della rivolta fu dato proprio dai tedeschi e in particolare dal loro tentativo di effettuare a fondo i rastrellamenti. Nei “vicoli sopra Toledo” – vale a dire uno dei più vecchi quartieri napoletani, Montecalvario, fra l’antica Toledo e il corso Vittorio Emanuele – c’è una piazzetta, piazza Giardinetto, che i tedeschi avevano scelto per radunarvi i loro camion, punto di momentanea raccolta dei giovani che avevano rastrellato al centro della città. Era il pomeriggio di domenica 26 settembre.
I camion erano ormai pieni di giovani scamiciati, di ragazzi, di uomini anziani, guardati tutti da sentinelle armate. Ad un tratto un centinaio di donne, e poi uomini e ragazzi – tutta gente dei dintorni che fino a un momento prima si era tenuta nascosta dietro le porte, nell’ombra dei vicoli, timorosa di essere coinvolta nei rastrellamenti – si lanciavano urlando sulle sentinelle, sugli autisti… Gli assalitori erano armati solo di mazze, di coltelli da cucina, di arnesi da lavoro, pure la loro azione fu così improvvisa e risoluta da impedire che un solo colpo di moschetto partisse, e da obbligare i tedeschi a mettersi in salvo con la fuga, mentre i rastrellati – per loro parte – saltavano giù dai camion e si dileguavano anch’essi.
Lo stesso moto improvviso di rivolta e di pietà spingeva ad azioni simili in altre parti di Napoli, dal quartiere residenziale del Vomero all’estrema periferia operaia…

Aldo De Jaco


La battaglia al Museo

Passano sotto una tempesta di mitraglia e di bombe a mano gli ultimi carri armati tedeschi e il cerchio intorno al Museo si richiude: una carrozza tranviaria viene messa a sbarramento della Salita Santa Teresa e viene minato il marciapiede sotto la facciata del Museo per impedire una eventuale controffensiva dei carri Tigre tedeschi. Dal canto loro i tedeschi minano il ponte della Sanità per mettere fra loro e i partigiani e i sopravvenienti Alleati il profondo vallone del quartiere della Sanità e dei Vergini, e il disegno sarebbe riuscito se uno scugnizzo, calatosi come uno scoiattolo tra i ferri dell’alta ringhiera, non fosse riuscito a strappare la miccia pronta per l’accensione. Continuava intanto il tiro dei mortai tedeschi e uno dei proiettili entrò da una finestra del piano superiore della Pinacoteca senza esplodere e far danni…
Mi giunge da Paestum la notizia più inattesa. Il Maggiore Lawrence Cook dell’aviazione americana, architetto di professione, con un volto serio, chiuso, viene ad annunciarmi la scoperta d’una tomba a nord delle mura di Paestum, durante i lavori di scavo per l’impianto di un nuovo aeroporto. Penso ad una tomba greca o lucana e, invece, dalla pianta e dalla sezione che il bravo Maggiore disegna lestamente su un foglietto del suo taccuino e dalla descrizione sommaria dei vasi, comprendo che si tratta d’una tomba preistorica. Sono stupito… Che la vita preistorica della Paestum greca e lucana, attestata già da un deposito di armi litiche scoperto venti anni prima (…), tornasse ad apparirci proprio ora e per merito di un’opera di guerra?

Amedeo Maiuri

Legno, carne

Che disgrazia fu? Come si chiamava? Riuscii a interrogare un medico ma disse la prima malattia che gli venne in mente, scusate, egli aveva paura e voleva andarsene, come allora succedeva a chiunque in qualsiasi luogo. Eravamo tutti pazzi in quei giorni, pazzi i fatti e gli uomini, pazzi la terra e il mare, pazzi Dio e i Santi sugli altari. E niente serviva a niente, in ogni caso. Faccio un esempio, il medico scoprì Salvatore e ci mostrò il punto preciso per le cure, qui l’iniezione, qui ghiaccio e qui mignatte. Allora, una medicina allora! Ghiaccio a Napoli, allora: voi pagavate una bottiglia d’acqua cento lire, alle fontane che ancora davano un filo d’acqua la gente cadeva sotto le bombe degli aerei piuttosto che dover rifare la fila… Mignatte? Mignatte a Napoli in quei giorni? Il bambino peggiorava, lo capivamo benissimo, pensai di ferirlo e di suggere come una mignatta, ma sarebbe stata la stessa cosa? Trovammo un po’ di zucchero; gliene mettevamo ogni tanto un pizzico sulla lingua e così lo curammo finché morì. Frattanto sul Rettifilo, i tedeschi avevano ucciso un marinaio; il popolo scovò le armi, e sparava…

Giuseppe Marotta

 

Tedeschi di passaggio

Le sorti della guerra erano ormai note. Stavano nell’aria; ma forse proprio per questo motivo avremmo voluto essere meno indifferenti alla loro sconfitta e recare, a sollievo, una parola, una frase, un bicchiere d’acqua fresca. Allora tutti ignoravano la riserva demoniaca depositata nel fondo dell’anima tedesca, esplosa in ogni altra parte d’Europa e applicata come una scienza esatta. Il nostro sguardo era colpito solo dalle immagini decadute e stinte dell’uomo in guerra e in terra straniera, sperduto e smarrito, sporco e ridicolmente coperto di frasche mimetizzatrici. Oltre tutto, con gli Alleati alle porte e alle soglie del cielo – ogni mattino mandavano un piccolo aereo d’alluminio a perlustrare e a dar la caccia anche ad un solo soldato, s’intende, sbagliando il bersaglio e facendo per scherzo qua e là uno, due, mille morti, quanti furono quelli offerti dai nocerini alla strana causa di una misteriosissima guerra – sarebbe stato facile usare qualche cortesia a persone che non avremmo mai più rivisto.
Ma (…) a nessuno riuscì d’intavolare un discorso, di conoscere un nome o la storia di uno di loro: se erano padri o nonni, figli o nipoti; se erano convinti di fare una guerra giusta o se, come noi, sopportavano il malanno come un cataclisma le cui cause, del principio e della fine, sarebbero rimaste oscure…

Domenico Rea

Quel settembre, a Napoli

Le Quattro giornate (…) che videro l’improvvisa, caotica, appassionata ribellione dei napoletani al terrore nazista, sino all’arrivo delle truppe anglo-americane, sono le sole pagine della Resistenza nel Mezzogiorno, che passò in pratica direttamente dall’occupazione tedesca a quella degli Alleati, ma sono anche le prime pagine della Resistenza in Italia: e questo forse non è stato sottolineato abbastanza.
Il mattino del 28 settembre al Vomero, a Foria, a Materdei, a S. Erasmo e alla ferrovia, un po’ dappertutto, i napoletani uscirono dalle case armati chi d’un fucile, chi d’una rivoltella, chi con una bomba a mano e chi addirittura con una mitragliatrice (riserve d’armi in parte rastrellate nei sotterranei delle caserme e dei depositi sgomberati dai tedeschi nei giorni immediatamente precedenti e restati incustoditi, e in parte racimolate presso i soldati dell’esercito italiano che dopo l’otto settembre avevano abbandonato le caserme per raggiungere le loro case), e senza un comando o un piano di battaglia prestabilito cominciarono a sparare.
Nella mattina del primo ottobre, quando gli ultimi tedeschi lasciarono la città e le prime camionette della Quinta armata entravano a Napoli, erano caduti, fra combattenti e civili, trecentodiciotto cittadini, e un paio di centinaia erano i feriti…

Michele Prisco

Quindici in piazza Plebiscito

Tutt’a un tratto, uno sparo. Poi un altro. Degli urli. Scesi a vedere, uscii in via Nuova a Capodimonte. Gente d’ogni età correva verso la vecchia caserma dei carabinieri. Sul portone, un maresciallo distribuiva fucili, armi. Gruppi di uomini rovesciavano intanto vecchi tram sulla strada, rimuovevano i binari con picconi e accette. Qualcuno gridava che il re era alle porte di Napoli, a capo di un esercito di volontari. I volontari c’erano, sì, ma all’interno della città, e nessun re era alla loro testa. Alla loro testa c’era soltanto un antico, autentico furore popolare, esploso dopo la vergogna d’innumerevoli anni.
Ruppe l’aria un primo colpo di cannone. I tedeschi sparavano dal palazzo reale di Capodimonte, dove erano asserragliati. E da dove, il giorno dopo, ridiscesero in città sparando dai carri-Tigre. La resistenza che trovarono è ormai cosa nota. Cosa nota è anche come furono affrontati dai ragazzini di Napoli, che saltarono sui loro carri stringendo nelle mani bottiglie piene di benzina. È noto anche l’atteggiamento mentale e morale di chi, anni dopo, definì la storia di quei quattro giorni null’altro che una Piedigrotta. E fu invece la “rivoluzione allegra e veloce” di un popolo che aveva ormai finito di credere e di ubbidire, e che per quattro giorni aveva combattuto per ripulirsi la faccia dinanzi a se stesso… Qualche sera dopo, quando americani e inglesi entrarono nella città, videro molte macerie e infiniti lutti, anche una sterminata miseria d’ogni genere. Né potevano sapere che in qualche vecchia stanza di Napoli c’era anche qualcosa d’altro, un lungo elenco di ragazzi morti al di là della gloria ufficiale.

Luigi Compagnone

Gli scugnizzi

I bimbi di Napoli. Gli “scugnizzi”. Napoli è il più vasto vivaio di bambini del mondo. Appena fuori dalle fasce, eccoli subito per la strada. Imparano a camminare e a parlare nei rigagnoli. Molti sembrano viverci. Via via che il coprifuoco veniva spostato ad ora sempre più tarda, i bimbi di Napoli passavano le serate sui marciapiedi. Se dovesse rimanermi impressa nella memoria una sola immagine del caleidoscopio napoletano, sarebbe quella di un fratello e di una sorella di età inferiore ai dieci anni addormentati sul marciapiede nel sole, con un pezzo di pane nero rosicchiato accanto a loro. Qualche volta pensavo che a Napoli l’ordine che regna tra gli uomini e tra le api fosse invertito, e che i piccoli sostenessero e mantenessero i loro genitori.
Ricordo che tentai una volta di contare il numero degli “sciuscià” tra via Diaz e la Galleria Umberto. Non vi riuscii perché nuove cassette di sciuscià si aprivano alle mie spalle prima che io avessi percorso dieci metri. Quegli incredibili scugnizzi! Non erano bambini, ma saggi, mesti, beffardi folletti. Vendevano Yank e Stars and Stripes. Si appiattavano fuori dalla mensa per comperare le mie razioni. Facevano i mezzani per le sorelle che mi spiavano dietro il balcone del primo piano. Vendevano amuleti e distintivi divisionali nelle strade. Si improvvisavano imbonitori di dolciumi che sembravano ciambelle o frittelle ma avevano il gusto della cartapesta arrostita. Rubavano tutto con una destrezza, una furberia e una costanza che mi facevano pensare alle antiche favole arabe. Strillavano e si burlavano di me in un perfetto americano, un americano che sembrava imparato da qualche marinaio che, sdraiato in un rigagnolo, imprecasse all’inferno per levarsi un peso dal cuore. I bambini di Napoli erano decisi a non morire, con quella determinazione con cui i fagociti fanno massa per combattere il virus che li ha invasi. Possedevano la vitalità dei dannati. E ridevano di me, di se stessi, del mondo intero. Spesso pensavo che noi, l’esercito conquistatore, eravamo più deboli e sciocchi di loro. Amavo gli scugnizzi perché non mi facevo alcuna illusione sul conto loro…
A volte, quando stava per scoccare la mezzanotte, ricordo che una gran pace si stendeva su Napoli. Il calore metteva a punto i suoi ingranaggi per l’ora dell’alba. Solo allora il silenzio cadeva sulla inquieta città. Le stelle brillavano sopra il Vesuvio. Le Liberty nel porto dondolavano come anatre. Le lampade nei chioschi degli M.P. scintillavano nel buio afoso, come fari. Allora mi rifugiavo sotto la zanzariera.
Napoli?... La possiedo… o è lei che possiede me?...

John Horne Burns

Le mie quattro giornate
(Storia di un film che non è stato fatto)

Quando fui chiamato alla collaborazione – in casa Pratolini, da Loy, da Festa Campanile, da Franciosa, e dallo stesso Pratolini – era già stato raccolto un ampio materiale dai documenti editi e inediti, così come dalla aneddotica sparsa e dai vivi ricordi dei protagonisti (…).
Cinema. Menzogne che hanno il rigore morale della verità; verità che hanno tutte le sfumature della menzogna. E non m’accorgevo che quelle veritiere bugie facevano da pietoso velario alle incertezze della produzione, non ancora convinta se e quando il film si sarebbe potuto realizzare (…). Consegnai il mio lavoro; e su quello passò un fiume di mesi; mentre i copioni cominciavano ad andare e venire da casa mia a casa dei miei amici, sempre più snelliti (…). I copioni si moltiplicavano – sino a raggiungere il numero di undici (…). Decine di episodi di barbarie, di massacri in massa, perpetrati non nell’accecamento della lotta, ma a freddo, con geometrica spietatezza, fummo tuttavia costretti a tagliarli (…) per alleggerire il racconto dall’eccessivo peso della morte…
Con le “Quattro giornate” non abbiamo voluto colpire la Germania, ma esaltare lo spirito che animò il nostro popolo. Grazie a questo spirito oggi dovremmo poter differenziare gli eredi della grande cultura germanica dai nipoti e pronipoti di Hitler (…). Per quanto riguarda Napoli e i napoletani, io rimprovero invece ai miei compatrioti la facilità con cui hanno sepolto sotto l’oblio quei morti, quei sacrifici su cui si fonda oggi la loro libertà. Tanto che si fa fatica a ricostruire la cronaca di quelle gesta persino attraverso il ricordo dei testimoni.

Carlo Bernari

Una conclusione

Furono gli uomini (sebbene seguiti dall’appassionato impeto degli scugnizzi e degli adolescenti), quelli adulti e pensosi e consci e in grado di valutare le cose, che iniziarono e condussero le Quattro giornate (…). Queste furono, dunque, un’improvvisazione dal punto di vista organizzativo, non dal punto di vista del loro spirito animatore. Noi vedemmo prendere le armi, e talora soltanto una bottiglia di benzina, una pietra o un bastone, giovani, adulti e vecchi, civili e militari, soldati e ufficiali, avvocati, professori, sacerdoti, operai, ferrovieri, comunisti, cattolici, liberali, socialisti, azionisti, repubblicani: gente matura di senno, di esperienza, di dolore, ciascuno responsabile non soltanto verso se stesso, ma verso la propria famiglia, dei rischi ai quali si esponeva in piena consapevolezza (…). La concordia assunse accenti di fraternità nella lotta comune per il comune ideale, che prometteva, sebbene a durissimo prezzo, una nuova alba di vita civile.

Alfredo Parente

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2009