Settembre 2009

mezzogiorno, semenzaio di veleni

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Uscire dalla palude

Claudio Alemanno

 

 
 

Paese duale.
Nessuna sorpresa
se il Sud galleggia nel limbo delle
ultime istanze,
se lo si avverte
come non-luogo della modernità, depositato tra
gli anfratti
delle marginalità
europee.

 

 

 

Uffa, che noia queste lacrimose richieste dei meridionali. Sempre uguali, sempre riproposte come testimonianza di una diversità ingovernabile. I più scalmanati danno lezione di retorica esibendo un Partito del Sud in chiave contrattualistica. Il Mezzogiorno resta un dossier uggioso e controverso nella disputa sui grandi trasferimenti. Continua l’altalena tra la droga del debito (in aumento) e il metadone dei governi (in diminuzione). La disintossicazione è rinviata, ancora una volta rinviata, in linea con la tradizione dei nostri cicli storici ed economici.

In questo articolo, le bizzarrie e i prodigi della natura nelle xilografie del “Monstrorum Historia” di Ulisse Aldrovandi (1642).

In questo articolo, le bizzarrie e i prodigi della natura nelle xilografie del “Monstrorum Historia” di Ulisse Aldrovandi (1642).

Nel mondo ci sono tanti Sud, tutti uguali, problematici e melmosi. Perché dare attenzione al Sud italiano in una fase di recessione globale, quando le priorità passano per altri meridiani? Semplicemente perché è cambiato il quadro politico internazionale in questa parte del mondo. Forse moriremo cialtroni, ma dobbiamo sottolineare con forza che noi meridionali viviamo nel Mediterraneo, percepiamo il Mediterraneo come risorsa (Mare Nostrum), ma non abbiamo gli strumenti per essere attivi su questo versante. Mentre registriamo un mercato locale in sofferenza, segnato da smottamenti e linee di faglia insidiose (nella piccola e media impresa) e il persistere di una cultura di periferia che allontana il Sud dal circuito dello sviluppo globale.
Se la Germania ha avuto il muro di Berlino, l’Italia ha il muro di Firenze, un confine invisibile e arbitrario sempre rispettato da liberisti, conservatori, marxisti con ambizioni stataliste.
Per la quantificazione del divario Nord-Sud si rimanda alla lettura dell’ultimo Rapporto Svimez. A noi preme sottolineare due cose: il Sud con un terzo della popolazione produce un quarto del reddito; la quota di lavoro irregolare è sul 20%, quasi doppia rispetto al Centro-Nord. Due testimonianze della dis-unità, mentre ci accingiamo a celebrare il 150° anniversario dell’unità nazionale. Una dis-unità letta sempre come dovere risarcitorio dello Stato, mentre all’orizzonte spuntano spazi per serie riflessioni mercatiste. Oltre ad insistere sulle corde dell’abbandono e della rissosa disputa sui trasferimenti c’è la possibilità di svoltare l’angolo cercando nuova attenzione e nuove strategie.
Non servono proclami integralisti, occorre solo tenere d’occhio la crisi e fare tesoro dei varchi che apre con l’esaltazione del “globale” e del “locale”. Un impegno che dovrebbe essere avvertito soprattutto al Sud, sempre a corto di occasioni riabilitanti, di nuova filigrana politica.
La vecchia classe dirigente era riuscita a coniugare ascolto e programmazione, percezione dei problemi e attenzione di governo, anche se le decisioni obbedivano a rigorose spartizioni correntizie. Aveva assegnato obblighi precisi alle Partecipazioni Statali per gli investimenti al Sud e aveva disegnato un quadro di interventi straordinari di cui la Cassa per il Mezzogiorno era organo centrale di riferimento.
Il limite del meridionalismo tecnico-economico (anni Cinquanta-Settanta) sta nell’aver prodotto un’industrializzazione senza sviluppo, potenziando le fortune delle parentele invasive e le alchimie del comparaggio che hanno neutralizzato le spinte riformiste. Riserve tante sui patti scellerati tra moralismo ed etica pubblica, sulle procedure e sugli amministratori, non sulla purezza d’intenti dei Padri fondatori (Menichella, Saraceno). È questa stagione iniziale di forte impegno ideale e propositivo che adesso manca.

In questo articolo, le bizzarrie e i prodigi della natura nelle xilografie del “Monstrorum Historia” di Ulisse Aldrovandi (1642).


Si avverte la necessità di una riqualificazione dell’intervento straordinario, ma non si esce dagli schemi di un libro già scritto. Va ripensato il contesto in cui attivarla in era di globalizzazione, quindi la riflessione va portata prima sulle politiche, poi su risorse e amministratori, creando un fuoco di sbarramento verso l’eredità di un “secolo perduto”. Non desta sorpresa se in un Paese storicamente duale, stretto tra l’incudine del vincolo di bilancio e il martello di un welfare asfittico e sfilacciato, l’odierno Sud galleggi nel limbo delle ultime istanze. Se lo si avverte come non-luogo della modernità depositato tra gli anfratti delle marginalità europee. Senza analisi, senza programmi, senza prospettive, vissuto obtorto collo solo come buco nero della spesa. Mentre si assottiglia la capacità di tenuta dei territori sotto la pressione di crescenti inquietudini (immigrazione, smaltimento rifiuti, inquinamento). Mentre aumentano i cassintegrati, i disoccupati, i precari, i laureati migranti, i nuclei familiari indigenti, le proiezioni verso l’illegalità (rafforzate da un tragico paradosso, dal massimo del cavillo burocratico in nome della legalità unito al massimo del raggiro sociale delle regole).
Ritornano i fantasmi dell’economia della sussistenza, ma tra le ombre della precarietà si intravedono timidi raggi di luce. Vengono da un disagio politico territoriale (in Sicilia, in Puglia, in Campania, in Calabria) che va alla ricerca di un brand culturale, di una parola d’ordine che possa essere vissuta, non solo orecchiata.
Non c’è aria di vespro, non ci sono tentazioni separatiste. Nascono a macchia d’olio fondazioni, associazioni e movimenti, ma il loro percorso sfugge ad una chiara lettura prospettica. Sono meteore che valgono una stagione elettorale, qualche esperienza amministrativa, qualche angusto spazio di potere o rappresentano un serio incubatore di novità, un laboratorio progettuale per uno sviluppo di sistema pensato dal Sud? Lo sa il diavolo, ma vorremmo saperlo anche noi, abituati a vivere uno stato di perenne agonia, tra il vecchio che non muore e il nuovo che non nasce.

Adesso c’è lo spartiacque di una crisi che ha destabilizzato su scala mondiale i potentati economici e i loro schemi di potere. Si profila un nuovo ordine geopolitico al seguito di una globalizzazione che crea relazioni inedite. C’è un fervore internazionale lungo la via del risanamento che apre le porte a consistenti riaggregazioni settoriali supportate da investimenti che non vanno più da Occidente ad Oriente ma da Oriente, ad Occidente.
Tutto è destinato a cambiare e proprio la presenza sulla scena di nuovi protagonisti autorizza a guardare con fiducia ad un sistema Mediterraneo in cui il Sud italiano può assumere un ruolo importante nella valorizzazione delle economie di frontiera. Si tratta di mettere assieme ragioni sparpagliate di sviluppo e farle confluire sulle relazioni adriatiche (quadrante balcanico) e sulle relazioni africane (Paesi dell’Africa settentrionale). Queste ultime già consolidate da una forte proiezione di interessi verso l’Unione europea.
Si tratta di attivare le interconnessioni possibili e potenziare le operazioni di credito verso progetti di reciproco interesse (alcuni già da tempo sulla carta), vincendo in termini nazionali ed europei quei pregiudizi ideologici e di mercato legati ad una dominante visione europea nordcentrica.
Una tesi non nuova. A favore di una proiezione degli interessi italiani verso il Mediterraneo hanno lavorato con profitto Mattei, Andreotti, Moro, Craxi. Adesso si sente solo la voce di alcuni intellettuali di prima fila (Cassano, Viesti, Cacciari, Borelli, direttore di East, Caracciolo, direttore di Limes). In giugno, la Società Italiana di Diritto Internazionale ha organizzato a Bari un convegno su “Europa e Mediterraneo. Le regole per la costruzione di una società integrata”. In luglio, Milano ha ospitato il Forum economico e finanziario del Mediterraneo, con la partecipazione di capi di Stato e di governo, di rappresentanti delle istituzioni internazionali, dell’industria e del credito dell’area mediterranea.
Emerge l’idea di un Mediterraneo inteso come piattaforma di lavoro integrata volta a produrre una progettualità dello sviluppo capace di ridurre la disparità di reddito sulle due sponde, di creare integrazione tra le funzioni lavorative dei vari Paesi togliendo ossigeno ai flussi migratori di necessità. Di fronte al risveglio di una politica mediterranea, assecondata anche dalla Presidenza francese, colpisce l’indifferenza del nostro mondo politico e imprenditoriale, il cosmopolitismo provinciale che continua a dare ossigeno al rassegnato distacco con cui si guarda al Sud come area residuale.
Noi riteniamo che la “questione meridionale” adesso vada letta come “questione ponentina”. Si devono allargare confini e opportunità per ampliare politiche, mercati, convenienze nazionali. A questo appuntamento il Sud non è attrezzato. Non aiutano sistemi chiusi di governance, dove trionfa un mandarinato strapaesano formato nella cultura della spesa in deficit e sostanzialmente arroccato nella difesa dello status quo. Triumviri e quadrumviri si adoperano per moltiplicare i centri di potere (e di spesa) e guardano con sospetto ai cambiamenti alternativi, ai corrispettivi globali. Abbiamo le nuove province di Barletta e di Fermo, mentre avremmo bisogno di un Centro di studi globali e di una Scuola per le gestioni istituzionali. Si preferiscono metamorfosi confermative (un prodotto del riformismo delle convenienze trasversali) che rendono intangibili gli equilibri sistemici e servono ad impiumare il presente più che a costruire il futuro.

Nella grande palude in cui si svolgono gli esercizi di ritirata strategica non possono germogliare i padroncini del Sud né le nuove classi dirigenti che tutti vorrebbero ispirate agli insegnamenti di Montesquieu e Tocqueville. Scrigni vuoti, in assenza di humus ambientale. Sullo sfondo resta sempre il linguaggio criptico della politica nazionale. Con la navigazione a vista, l’arte di governo resta affidata alla consuetudine, perpetuando di fatto assistenza e protezionismo. Anche in Confindustria si respira aria di scetticismo attorno ad un sistema Mezzogiorno proiettato nel Mediterraneo. In termini di governabilità tutti guardano al mercato pre-crisi, ai bacini di utenza dello sviluppo intasato del Nord Europa. «È meglio assumere un sottosegretario che una responsabilità», era solito ripetere Leo Longanesi.
In una coriacea visione duale del Paese risiede il più insidioso gap culturale ed economico. Eppure il dualismo Nord-Sud può essere letto in positivo, come espressione del diverso atteggiarsi di una società complessa, ricca di diversità storiche e territoriali. Possono essere segmenti di sistema con compiti e obiettivi differenti se si sostituisce l’ideologia della contrapposizione (legata alle vicende interne) con la cultura della distinzione, di un proficuo sdoppiamento dei ruoli che nella sintesi riescono a fare convergenza, fortificando l’identità nazionale (tesi più attenta alle aperture internazionali).

In questo articolo, le bizzarrie e i prodigi della natura nelle xilografie del “Monstrorum Historia” di Ulisse Aldrovandi (1642).

Cosa possono fare i movimenti territoriali per dissodare questo terreno arso e mai arato non lo sappiamo. Sappiamo invece che al momento giocano una partita tutta verticistica, con alcuni Signori della debt economy impegnati in esercitazioni lobbistiche per ottenere più risorse. Un nuovo soggetto politico avrebbe comunque vita grama in quanto non ha radicamento sul territorio, sintonia emotiva con la base sociale. Il male oscuro del bisogno divide, non unisce. A ciò vanno aggiunti le differenti peculiarità territoriali e i diversi profili culturali che ostacolano la formazione di una società meridionale omogenea.
Un palinsesto leghista trova al Sud difficile   programmazione, mentre le spinte verticistiche finiscono per esaurirsi nell’abbraccio fratricida delle oligarchie dominanti. Di difficile praticabilità è anche il coordinamento delle politiche regionali per il differente grado di dissesto finanziario.
Per costruire una “Cosa Grande” si devono mettere in campo valori unificanti, deve passare l’idea di una casa comune. Lo esige la globalizzazione, che obbliga a creare sistemi e mercati con dimensioni territoriali adeguate. Lo esigono i segnali del vento nuovo che sembrano non coincidere con i registri della politica istituzionale. Bisogna aprire il Sud ai richiami della modernità che rivalutano i riferimenti geografici, indeboliscono le sovranità statali ed esaltano le identità locali. A noi manca l’identità Mezzogiorno, la capacità di trovare valori e progetti comuni al di là della rissa sulle spoglie della spesa statale.

Si comprende l’ansia dei leader in rivolta per evitare l’isolamento. Ma se il gioco resta tutto politico, all’interno della skyline esistente, è difficile immaginare aria fresca, un progetto nuovo e originale per una società meridionale unificata. È difficile volare più alto dell’angelo custode. Soprattutto quando apre un discount che guarda al Sud con stropicciata malinconia.
Esistono altre ragioni di speranza nel Paese del Forse. Tra differenti nuances di liberismo e sinistrismo, con il manuale Cencelli un po’ sbiadito e un Bignami del ricambio tutto da scrivere si aprono spazi eccellenti per movimentare la scena politica e gli apparati di potere, inserendo una “ricalibratura” degli interessi meridionali e della loro valenza politica.
A noi piace pensare al fronte del disagio come ad un contenitore di pragmatici scalpellini che lavorano per bonificare, per creare nuove leadership e nuovi mercati, aprendo un sistema chiuso e bloccato in ogni espressione di potere. Un salto di qualità possibile, confortato dall’arguzia di un antico motto inglese, “Non è il cane che muove la coda ma è la coda che muove il cane”. In ogni caso, un momento di concretezza politica in territori martoriati, dove si continua a piangere due volte, alla nascita e all’abbandono dell’oasi natia.

 

   
   
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