Settembre 2009

questione settentrionale - questione meridionale

Indietro

A Nord di Gomorra

a.b.

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

La questione settentrionale è diventata meridionale. Quel che una volta era considerato parametro, con la speranza di trovare nel Mezzogiorno tante Milano del Sud, si è ribaltato in un nefasto contrappasso. Il Nord si sta liquefacendo nel Sud: parola di Pietrangelo Buttafuoco, secondo il quale tutto il caldo sole del Mediterraneo aspettava di temperare i propri ozii e le proprie arretratezze nell’efficienza della macchina sociale del Nord, e invece è accaduto il contrario: non c’è città del Nord, oggi, che non somigli in qualche modo alle città del Sud. «Tutto il Nord sta diventando Sud, piazza San Babila sta diventando Scampia e con l’arrivo delle ondate migratorie tutto è diventato migrazione: Parigi sembra Palermo, dentro Londra c’è già Napoli, figurarsi cosa non accade nell’Italia della mancata Unità in cui lavorò il genio medico di Cesare Lombroso: mettere in armonia il cretinismo-pellagroso dei mangiatori di mais con la delinquenziale e malarica assuefazione al nulla propria dei cafoni sazi di pizza e pomodoro».

Ph. © Rosa Pugliese

Ph. © Rosa Pugliese

Ma chi analizzerà oggi i draghi spaventosi che si annidano nelle Chinatown toscane, piemontesi e lombarde, o i boss giunti direttamente dalla Tartaria, mentre Rimini non sembra essere più spiaggia di crucchi ubriaconi, ma alcova gigantesca del bordello ucraino e russo?
Il Nord squagliato nel Sud. In attesa che Matera diventasse una sorta di Mantova, o Bari una Porta del Levante come Venezia dei tempi aurei, è accaduto esattamente l’opposto di ciò che politica e sociologia assistenziali si aspettavano. I treni migliori sono solo al Nord, come gli ospedali e le scuole d’eccellenza, e come le Università con i loro gran professori. E chi, del Sud, aveva voglia di lavorare, in quel Nord doveva andare: non soltanto quelli dei treni della speranza, i contadini, i braccianti, i pastori persino, e gli artigiani che cercavano un salario e un pasto caldo al giorno, ma anche gli spiriti imprenditoriali che sotto la Linea Gustav non trovavano occasioni: come gli altri, erano costretti a raggiungere chi stava tra le risaie, le nebbie e le lagune. O nelle tetre viscere di terre lontane, come Marcinelle, dove quegli extracomunitari ante litteram che erano i minatori sopraggiunti dal Centro e dal Sud d’Italia per morire negli incendi nelle miniere di carbone o di silicosi in superficie erano chiamati sprezzantemente e sbrigativamente “musi neri”.
Sostiene Buttafuoco che il Nord è un’idea del Nord, che ci sono realtà al Sud che sembrano settentrionali, tanto funzionano bene: i vini, gli olii, le granaglie e gli ortaggi, ma anche gli arredamenti, le confezioni tessili, la pelle e il cuoio, la meccanica di precisione, la cantieristica, l’aeronautica. Anche alcune aule universitarie e alcuni centri di ricerca sono isole di Nord dentro il Sud.
Solo che tutto ciò che fa la qualità e l’eccellenza nelle terre di Gomorra è l’eccezione, mentre al di là dovrebbe essere la regola. Allora accade che la miniera di fantasia e di creatività del Sud a volte è stata spacciata come alibi per il lazzaronismo; ma al Nord anche i grandi imprenditori si sono dati da tempo alla questua, al meretricio con gli assessorati e con i ministeri, spegnendo le tensioni sociali con i dinosauri del capitalismo di Stato che avevano già da tempo rovinato il Sud.
La questione settentrionale, allora, non è una stagione neorealistica, non c’è terra che tremi, c’è soltanto una crisi planetaria dalla quale l’Italia più ricca vuole uscire a costo di bruciare definitivamente il Sud, con una politica liquidatoria basata sulla perdita dell’orgoglio imprenditoriale e ancor più sull’egoismo corporativo e sul localismo, che stanno minacciando le fondamenta delle uniche due cose che hanno saldato finora i territori di un Paese praticamente già scisso: la lingua comune e la religione cattolica.

La statua
di San Petronio, a Bologna, all’ombra della Torre Garisenda - Nello Wrona

La statua di San Petronio, a Bologna, all’ombra della Torre Garisenda - Nello Wrona

Ha scritto Vittorio Feltri, quando ancora dirigeva Libero: «Il nodo della questione non è ideologico, e nelle polemiche non c’entrano il razzismo e l’intolleranza fra le due Italie separate in casa. Né si tratta di incrementare i finanziamenti alle Terre del Sacramento, ma di investire meglio – possibilmente senza rubare troppo – quelli abitualmente versati da Roma allo scopo di servire i cittadini evitando dispersioni di denaro in attività poco istituzionali. Il problema meridionale non è altro che questo: trasformare le amministrazioni locali da slot machine per fortunelli raccomandati in enti seri in cui l’onestà non sia un’ospite occasionale, ma una dittatura ferrea. Campa cavallo…».
Eccola autorevolmente illustrata una sintesi strepitosa delle idiozie assurte a pregiudizio sistematico, e proprio nel momento in cui si scopre che il Nord ha sottratto al Sud 37 miliardi di euro dei Fas (Fondi per le aree sottoutilizzate), per finanziare progetti che fra l’altro riguardano l’Autorità europea per la sicurezza alimentare di Parma; la realizzazione degli interventi “concernenti la flotta aziendale” dei servizi pubblici di trasporto lacustre dei laghi Maggiore, Garda e Como; il risanamento dei deficit delle aziende dei trasporti e dei rifiuti di Roma; i disavanzi di bilancio di Catania e Palermo. Insomma, i fondi destinati a progetti di sviluppo del Sud sono diventati – come scrive Sergio Rizzo – una sorta di bancomat del governo utile per ogni evenienza. Mentre l’ineffabile Feltri – per il quale la nascita di una Lega Sud ad altro non sarebbe finalizzata se non ad una nuova «strategia dell’accattonaggio» – lancia l’appello ultimativo: «Lasciamo che il Mezzogiorno agisca come gli garba. Naturalmente con risorse ordinarie, cioè le sue»!

Intanto, il folclore leghista continua a tradurre l’immagine della “questione settentrionale” in scenari pari al buongusto dei protagonisti delle cronache contemporanee. Mario Borghezio (chi, se non lui?) fa pavesare di mutande, anche verdi, piazza San Babila, salotto di Milano, per un’oscena performance che dovrebbe essere emblematica della condizione di sfruttamento delle “partite Iva” del Nord. Mentre il Movimento Proprietà e Libertà vaneggia con un programma costituito da un unico comma, che prevede l’abolizione delle tasse e della spesa pubblica. Ma càpita anche di sentire il pro-sindaco di Treviso sostenere, minimizzando, che sì, «qualcosa si evade, ma come ovunque: l’evasione ci dà solo un piccolo aiuto»; anche se simultaneamente da Torino il sindaco Chiamparino tuona: «Premessa: al Nord l’evasione c’è, ed è troppa».
Pregiudizio per pregiudizio, e folclore per folclore. Bruciano ancora gli insulti di un giovinastro mandato allo sbaraglio in politica, ed eletto al Parlamento italiano e a quello europeo nelle liste leghiste: tal Matteo Salvini, che il 13 giugno, alla festa di Pontida, fra il tripudio degli astanti, cantava: – Senti che puzza / scappano anche i cani / sono arrivati i napoletani –. E subito dopo, sull’onda del successo, un altro picco d’eleganza: – Colerosi e terremotati / con il sapone non vi siete mai lavati. / Napoli merda / Napoli colera / sei la rovina / dell’Italia intera –.
È il personaggio che sulla maglietta preferita ha scritto un perentorio “Padania is not Italy”, mentre – evidentemente per tener fede ai suoi indici alcolemici abituali – sulla sua t-shirt spicca il proposito: “Più rum, meno rom”. Trentasei anni, e già così malconcio! Del resto, è stato uno spirito precoce. Aveva proposto di riservare le carrozze dei tram e della metropolitana ai milanesi doc, e aveva a suo tempo consigliato i tifosi napoletani in trasferta a San Siro, da lui omaggiati di sacchi neri colmi di pattume: – Portateli al vostro sindaco –. Le verginelle della Lega hanno manifestato flebilmente il proprio disagio.
«Napoli, ha scritto Francesco Merlo, è la grande cultura europea più la pernacchia. Salvini invece è solo la pernacchia. È l’infelicità di essere pataccaro senza essere terrone». E non finisce qui. Merlo sottolinea che i suoi canti sguaiati sono il documento di un’ossessione, con la birra che rimanda più ad atmosfere di dissoluzione antropologica che al putsch fallito della birreria di Monaco. Complotti da svaniti o frattaglie di umanità, feste come lugubri espressioni di quell’ideologia alcolizzata che è sempre stato il razzismo.

Jessica Niglio

Jessica Niglio

Questo legaiolo da stazzo ha dovuto optare per l’Europarlamento, ma la speranza è che prima o poi (meglio prima che poi) «i suoi sfortunati colleghi di Strasburgo lo rispediscano nelle bettole da cui proviene». Un grande Parlamento internazionale, di una civiltà imperiale che si candida a prendere il posto dell’America nel pianeta, non può ospitare senza farsene complice un ceffo come questo. Salvini infatti «non è un cialtrone, non è pittoresco, non è settentrionalista: è un razzista da osteria, che è il razzismo più gaglioffo, quello che non ha bisogno di “studi” genetici, di teorie moebiusiane, e neppure delle dotte corbellerie del professor Miglio sul popolo lombardo. Fosse davvero fatto così il popolo lombardo, bisognerebbe subito resecarlo come una cisti», e non solo dall’Italia, ma anche dall’Impadania, vale a dire dalla Non-Padania della Penisola.

La butta sulla punta di penna Tony Damascelli, terrone che senza dubbio staziona a nord di Gomorra. Folgorante l’incipit: «Una lagna. I meridionali immigrati, emigranti, itineranti, il Sud che piange davanti ai figli che partono, il Sud che si trascina tra sole, mare, vento, controra, sagre, tradizioni, la nostalgia malinconica, la memoria di tempi e volti smarriti, il profumo dei limoni e gli schiaffi del maestrale. Sembra che il fenomeno dell’emigrazione appartenga soltanto ai meridionali…».
No. Appartiene anche agli africani, agli asiatici, ai sudamericani. A tutti i popoli che abitano i cosiddetti “cortili di casa”, le colonie contemporanee, i mercati di consumo che assicurano l’opulenza dei mercati della produzione. E non basta la visione idillica degli artigiani meridionali sempre disponibili, e della cortesia dei meridionali, e dell’ospitalità dei meridionali, e via spumeggiando, a dissipare il sospetto che qualcosa non quadri nel discorso. Perché poi riparte la prosa barocca sul filo della memoria: «Eccoci con il lamento funebre dei lavoratori che risalgono il Paese alla ricerca della speranza perduta»; e ci si avventura nell’interpretazione tutta eccentrica del termine “terrone”, compresa la notazione sulla «paranoia della lontananza, del viaggio in terza classe fumatori, con il caciocavallo e i mezziziti dentro la valigia di cartone o, adattandosi ai tempi moderni, di una globalizzazione che riduce al minimo i valori e le tradizioni storiche, azzerati da Internet, dal cyberspazio e da tutte quelle balle lì».
Allora? E allora «la processione si rimette in moto, come accade, questo sì veramente, in quasi tutti i paesi del Sud, la Vergine incoronata e la banda comunale, i ceri accesi e le donne con il velo, ma se qualcuno preferisce gli happy hour o i rave party nordaioli, si accomodi pure…». Salvare il Sud? Non sia mai detto: «Il Sud non deve essere salvato, la vita non è altrove, il paradiso non esiste, la città è un miraggio di ipermercati, il pendolino collega un’Italia che è geograficamente quasi impossibile da legare, visitate alcuni rascard della Val d’Aosta, fate un giretto in alcuni budelli della costa ligure e poi spiegatemi dove sta la verità…».
La verità è che negli ultimi dieci anni sono stati costretti ad emigrare altri 700 mila terroni, tutti con diploma e con laurea, questa volta, oppure con specializzazioni tecniche di prim’ordine. Chissà come mai non devono eradicarsi quelli dei rascard valdostani o dei budelli liguri, al pari degli altri, delle calli venete o dei carrobbi lumbard, delle callaie piemontesi o delle redole toscane o dei ronchi furlan. Se una vicenda non ha conosciuto soluzione di continuità, è stata quella della fuga dal Sud. Per disperazione, e non per scommessa. Per fame, e non per gioco. Anche all’alba del terzo millennio dalla nascita del Signore.
Il Nord è il 40% dei professionisti italiani, due milioni e 850 mila imprese (la metà del totale nazionale), venti milioni e passa di abitanti. Il reddito delle aziende collocate sopra il Po è pari al 60% di quello di tutte le imprese italiane. Vi sono un terzo di tutte le autostrade nazionali e il 20% delle strade statali. Nella sola Milano si produce il 10% del Pil italiano, vi è circa l’8% degli occupati, e oltre il 13% delle produzioni sono destinate all’export. Nella sola Lombardia circolano 1.770 treni pendolari al giorno.
E se pure le ferrovie sono quelle che sono, restano comunque le migliori della Penisola. (Una curiosità amara: a Torino la società costruttrice di un passante per conto dello Stato ha riempito di cemento a presa rapida due gallerie storiche, quelle dove Pietro Micca e i suoi commilitoni combatterono contro i francesi che nel 1708 assediavano la città. «Errore di calcolo», ci si è giustificati. I transalpini in armi non riuscirono a distruggere quelle gallerie, perché furono fermati dalle polveri fatte esplodere da Micca. A fare l’impresa, a distanza di tre secoli, ci hanno pensato le Ferrovie dello Stato).
Allora, sommiamo e sinteticamente chiosiamo: strade intasate, ferrovie penose, infrastrutture insufficienti, sete di denaro, evasione, sprechi. Si è attizzata così la questione settentrionale, che ora tiene banco con una serie di dati unilaterali. Ai quali possono essere contrapposti dati speculari.
Ad esempio: stessa qualifica, stessa azienda, medesima anzianità, turni notturni analoghi; solo la busta paga è diversa, con uno scarto significativo. Il costo della vita nel Mezzogiorno sarà anche inferiore del 16,5% rispetto a quello del Nord, come ha certificato la Banca d’Italia, ma anche gli stipendi e i salari sono differenti, con quote maggiori al Nord, con buona pace della Lega. Verifica sul tamburo di due paghe industriali: operaio Fiat a Melfi, terzo livello e cinque scatti di anzianità, arrotondamento con turni notturni, salario mensile pari a 1.450 euro. Operaio Fiat a Torino, a parità di condizioni, salario mensile pari a 1.790 euro. Precisamente 340 euro in più. Secondo i calcoli di Cgil e Cisl, con cifre fornite direttamente dai lavoratori, l’operaio del Sud guadagna il 19% in meno rispetto al suo collega del Nord: quasi tre punti in più, rispetto al 16,5% calcolato da Bankitalia sul costo della vita che si presume meno caro nel Mezzogiorno. (E non si tiri in ballo l’affitto delle case, in un Paese in cui oltre l’80% delle famiglie la casa ce l’ha in proprietà. Oltretutto, lo sanno dalle parti del Po che l’affitto di una casa a Salerno è più alto di quello di un’abitazione delle stesse dimensioni e caratteristiche a Modena? E che i prezzi non scherzano a Lecce e a Bari, come a Pescara, o a Palermo, o a Reggio Calabria?).
Cause della differenza: le buste paga nel Sud sono più leggere perché mediamente la produttività è più bassa; gli incentivi alla produttività incidono molto in termini di guadagno per il lavoratore; e poi, a livello di contrattazione aziendale, al Nord c’è maggior margine: ci sono più poli industriali, e di conseguenza l’offerta di lavoro è maggiore rispetto alla domanda. Un dato per tutti: in 30 province del Settentrione la disoccupazione è pari a zero. Tutto questo, senza contare altre questioni: vogliamo paragonare la qualità e quantità dei servizi offerti nelle regioni del Sud con quelle del Nord? Non c’è partita, nell’Italia settentrionale si vive meglio.
Altro elemento non secondario: le famiglie sudiste sono ancora in gran parte monoreddito. In media, è occupato soltanto uno dei due coniugi, mentre al Nord di norma lavorano entrambi. Stesso discorso per i figli: al Nord, a 18 anni i ragazzi portano già a casa un salario e contribuiscono alle spese domestiche; al Sud devono parcheggiarsi tra le forze di polizia, perché solo una quota bassissima riesce a trovare un impiego e a percepire un salario. Oppure devono iscriversi all’università: e si tratta di altre, cospicue quote di reddito familiare del Sud che vanno ad impinguare i redditi del Nord: alla Bocconi di Milano, l’università più blasonata d’Italia, ad esempio, primi per numero sono ovviamente i lombardi, ma secondi sono i pugliesi, seguiti dai siciliani e dai campani.
E non basta. Una ricerca Nielsen ha rivelato che ai supermercati del Sud lo scontrino è più caro (sebbene il carrello sia più leggero): la spesa più costosa è in Calabria, in Sicilia e nel Molise; la Sardegna è al sesto posto della graduatoria regionale, la Puglia all’ottavo. L’indice dei prezzi del carrello (che ha preso in considerazione prodotti di largo consumo, cioè 120 articoli tra alimentari, bevande, igiene personale, pulizia casa, prodotti freschi confezionati) favorisce nell’ordine la Toscana, l’Umbria, il Veneto, la Lombardia, l’Emilia-Romagna, il Friuli-Venezia Giulia, il Piemonte e la Liguria. E gli impadani riportano a galla la tragicomica questione delle gabbie salariali. Ma dove vivono?

Nello Wrona

Nello Wrona


Scrive Dario Di Vico: «Ora è arrivato il momento di cambiar musica. Lasciare da parte i vecchi spartiti ideologici (o anche solo risorgimentali) e affrontare con pragmatismo le differenze che ci sono. Per governarle e non per farle esplodere. Per ridurre le spinte alla secessione e non farle crescere sotto traccia. Questa è la modernità (contraddittoria) con la quale è necessario fare i conti…».

Contraddittoria? Ma se si vuole restare in Europa, e avere un ruolo non subalterno, come la mettiamo con il cialtronismo di chi invoca bandiere regionali al posto del Tricolore, e test di dialetto locale per i professori del Sud che vanno ad insegnare nel Nord (dove il numero di docenti è del tutto insufficiente)? Qualcuno è informato, da quelle parti, che altrove nel Vecchio Continente si sostiene lo studio della musica, che è linguaggio universale, comprensibile in tutto il pianeta, mentre da noi si vorrebbe entrare nel futuro usando la caotica miriade di “lingue tagliate”, una per ogni valle, una per ciascuna insellatura montana, una per ogni città; o lo studio approfondito delle lingue straniere, per non restar muti con gli interlocutori di mezzo mondo?
Sostiene quel provocatore di Claudio Magris, in una lettera al ministro Gelmini apparsa sul Corriere della Sera: «Suggerisco di ispirare l’istruzione e la cultura del nostro Paese ai criteri presenti nella proposta della Lega di rivedere l’art. 12 della Costituzione, ridimensionando il Tricolore quale simbolo dell’unità italiana, affiancandogli bandiere e inni regionali. Programma peraltro moderato, visto che già l’unità regionale assomiglia troppo a quella dell’Italia che si vuole disgregare. Ci sono le province, i comuni, le città, con i loro gonfaloni e le loro incontaminate identità; ci sono anche i rioni, con le loro osterie e le loro canzonacce, scurrili ma espressione di un’identità ancor più compatta e pura».
È necessario promuovere iniziative del genere capaci di creare un’autentica identità locale, ironizza Magris. Come dire: la Letteratura dovrebbe essere insegnata soltanto su base regionale. Sicché nel Veneto, Dante, Leopardi, Manzoni, Svevo dovrebbero essere immediatamente sostituiti dal Moroso de la nona, di un Carneade di nome Giacinto Gallina, e questo dovrebbe valere per ogni regione. Galileo si studi in Toscana, il Cantico dei cantici in Umbria, e se proprio deve varcare i confini, finendo – poniamo – in Sicilia o nelle Marche, lo si traduca in dialetto siculo o marchigiano. Stesso comportamento per la Storia dell’Arte: si tengano pure i loro Giotti, i loro Michelangeli e i loro Leonardi, che cosa c’entrano, ad esempio, il Piemonte o la Romagna con costoro? E per la Musica: Verdi, Mozart, Puccini, Wagner, vanno bene, a patto che se ne stiano a casa loro, al modo degli extracomunitari. Perché è necessario rivalutare la cultura locale, magari persino rionale, come cellula di identità!
Chiosa, fuori dal gioco ironico, lo scrittore: «Finora abbiamo creduto che il senso profondo dell’Unità (d’Italia, N.d.R.) non fosse in alcuna contraddizione con l’amore altrettanto profondo che ognuno di noi porta alla propria città, al proprio dialetto, parlato ogni giorno ma spontaneamente e senza alcuna posa ideologica che lo falsifica. Proprio chi è profondamente legato alla propria terra natale, alla propria casa, a quel paesaggio in cui da bambino ha scoperto il mondo, si sente profondamente offeso da queste falsificazioni ideologiche che mutilano non solo e non tanto l’Italia, quanto soprattutto i suoi innumerevoli, diversi e incantevoli volti che concorrono a formare la sua realtà…».

Nello Wrona

Nello Wrona


Anno 2020, o forse 2050, riecheggia Dario Fertilio. Sui municipi e sui tribunali italiani sventola non il Tricolore, ma il Multicolore, con i venti simboli regionali, dalla rosa camuna lombarda ai quattro mori bendati della Sardegna. Nelle occasioni ufficiali, al momento dell’inno, Trieste opterà per la Marcia di Radetzky, Milano per La bella Gigogin, e Napoli rispolvererà le note borboniche di Paisiello. Disfatta l’Italia, resteranno disfatti anche gli italiani.

Lo scrittore Massimo Valerio Manfredi concilia l’amore per i dialetti ancestrali (il suo modenese venato di bolognese) con una solida affermazione di italianità: «Sono convinto che inno e bandiera, simboli unitari, non cancellino le identità locali. E questo è vero anche per l’Impero Romano, che ha sempre rispettato le diversità dei popoli e dei luoghi conquistati. Roma nasce multietnica: etrusca, sabina e latina».
Per lo storico piemontese Aldo Mola, invece, «occorre mettersi dalla parte degli allievi, bimbi o ventenni che siano, e conoscerne il mondo. Perché mai se ne potrebbero ignorare la storia, i costumi, la mentalità, la lingua?». Oltretutto, ricorda il Nostro, Vittorio Emanuele III, «che si sentiva ed era re dei “popoli d’Italia”, con Giolitti e Badoglio parlava in piemontese, con Diaz discorreva in napoletano, con Salandra in pugliese, con Luzzatti in veneto, e padroneggiava il romanesco come un “romano de noantri”». Un autentico poliglotta, insomma! Che avrà parlato in brindisino – immaginiamo – quando si rifugiò nella città nord-salentina, dopo esser fuggito da Roma, lasciando eroicamente allo sbando l’esercito e i “popoli d’Italia”.
E poi, un dialetto è “lingua”? Lasciamo perdere. Scrive Raffaele La Capria che un’identità forte è una finestra sul mondo, capace di includere in sé anche le altre. Se invece è debole, si limita a glorificare se stessa, rinchiudendosi nei confini del localismo. Esempio di identità forte, quella napoletana, che arriva fino a Vico e a Croce. Quelle padane sono soltanto deboli, compreso il veneziano, al modo delle altre dello stesso tipo che si incontrano – eccezion fatta per la Sardegna – scendendo lungo lo Stivale, fino alle Calabrie. Forte, per Buttafuoco, quella siciliana, sebbene il più bell’esempio sia stato quello di Verga, «che non cedette mai né al dialetto né al pittoresco».
Occorre farla finita con i «riti funerari fuori tempo», sbotta Edoardo Sanguineti, genovese cui il dialetto è stato sempre estraneo. Il cosiddetto recupero delle radici locali lo spaventa: «Per me sono reliquie passate, del tutto estranee al mondo moderno». E per Gianni Vattimo, «moltiplicare le identità locali, rendendole ufficiali, è insopportabile».
E il grammelot? Risponde Dario Fo: inventandolo, con gli innesti sulla mimica di spezzoni fonetici veneti e lombardi, si tenta di fare un’operazione di arricchimento culturale. E che dire delle radici latine del milanese? Tutte cose bellissime, «ma da studiare in proprio, senza creare accademie». Distinguere l’insegnamento obbligatorio tra classi per “foresti” e per stanziali: «Un’ira di Dio». Amen.

La questione meridionale è una questione nazionale e come tale va affrontata, ha scoperto recentemente il ministro dell’Economia. Che ha parlato anche di “discontinuità” rispetto agli strumenti esistenti, per dare il via a un piano di lunga durata, come fu quello varato nel 1951 con la Cassa per il Mezzogiorno di De Gasperi, Menichella e Saraceno, e che, ovviamente, non può prendere forma nello spazio di un mattino. Se poi il nome “Cassa” non è gradito, nessun problema: «Si trova un altro nome, l’importante è che ci sia uno strumento d’intervento nuovo» che eviti interventi a pioggia e concentri le energie sui grandi progetti infrastrutturali. «Magari, si può parlare di un’Agenzia», si sostiene: come se il cambiamento della denominazione sia qualcosa di diverso dalle mistificazioni che contrassegnarono l’attività dei “meridionalisti del principe” dagli anni Settanta del secolo scorso in poi. Più facile e vicino sarebbe, invece, il decollo di una Banca per il Sud, idea cara a Tremonti fin dal 2004, quando la lanciò dalle colonne del Corriere della Sera. Così a settembre è in programma lo sblocco del progetto, già contenuto in una legge del 2006 e poi ripreso nel decreto legge 112 del 2008, che prevede la creazione di una Banca con sede «in una regione del Mezzogiorno», con un azionariato «in maggioranza privato e aperto all’azionariato popolare diffuso».
In sintesi, lo Stato dovrebbe partire con il ruolo di promotore, prima di tutto con un road show presso gli investitori privati e poi con un apporto simbolico e temporaneo al capitale della Banca (5 milioni, che andrebbero restituiti allo Stato entro cinque anni). La Banca del Sud dovrebbe avere invece accesso ai fondi e ai finanziamenti internazionali destinati alle aree svantaggiate. Si dovrebbe porre così rimedio, secondo il ministro, all’anomalia che vede metà dell’Italia senza un suo istituto bancario: carenza che frenerebbe lo sviluppo del Sud e contribuirebbe a rendere più difficile e più cara (anche per il cosiddetto “rischio Sud”, pari a un punto percentuale in più negli interessi pagati per prestiti o mutui) l’erogazione del credito in quest’area.
Non sappiamo bene se le proposte confusamente stratificate in questi ultimi mesi (Banca per il Sud, Agenzia per il Mezzogiorno, ministero per il Mezzogiorno, Cabina di regia per il Sud...) servano in qualche modo a recuperare i capitali sottratti dal Nord alle regioni meridionali; o se ci si muove per promettere altri fondi, magari da utilizzare per altri fini, com’è accaduto; o per riciclare, come nuove, opere in lento corso d’esecuzione (la tormentata Salerno-Reggio Calabria), o già decise (il mitico Ponte sullo Stretto: che tuttavia sarà realizzato dalla Impregilo, megaimpresa del Nord, che – per la storia delle possibili infiltrazioni mafiose – concederà solo qualche piccolo appalto alle imprese del Sud).

Certo, dopo decenni durante i quali era colpevolizzato chiunque parlasse dei problemi del Sud, e dello stesso Sud come categoria storica o politica, economica o sociale, è importante che la “voce Mezzogiorno” sia tornata come tema non marginale nell’agenda politica. Ma attenzione: occorre diffidare di leggi speciali, di politiche speciali, di banche speciali, di agenzie o di cabine speciali, di finanziamenti speciali.
La politica per il Sud e l’azione della Cassa per il Mezzogiorno fra il 1945 e il 1965 – ha scritto Giuseppe Galasso – appartengono senz’altro alla migliore storia politica italiana. Ma già intorno al 1970, appunto, emerse che la “specialità” non giovava né alla politica italiana né al Sud: e si dovette liquidare in fretta (perché tardi) la Cassa. Poi si perse la bussola, «e oggi si cerca di ricostituire una Banca per il Sud, come banca del territorio, dopo aver lasciato dissolversi senza batter ciglio l’intero sistema creditizio del Sud».
Dunque, nessuna “specialità” di leggi, di enti e di risorse. Ma il massimo di Sud possibile nella politica generale di cui il Paese ha sempre più urgente bisogno, se non vuole arretrare nel futuro dell’Europa. Più servizi, più infrastrutture, più accurata gestione dell’economia. Più la politica per il Mezzogiorno sarà una politica italiana, meglio sarà per l’Italia e per il Sud. Il che significa vivere il problema del Sud come problema prioritario del Paese, come voleva il famigerato “vecchio meridionalismo”, che ha dato pensiero e indirizzi (inascoltati) al mondo politico-economico del nostro Paese.
E se nel frattempo si farà qualcosa, la si faccia nella prospettiva del 2013, quando non vi saranno più fondi europei; e la si faccia soprattutto costringendo le Regioni meridionali a lavorare sul serio in questa direzione: pensando al Sud «nel più pieno senso del termine», unicamente come Italia del Sud.

Nicola Adriano

Nicola Adriano

Per richiamare sommariamente la storia: la “questione” risale al borbonico “Regno senza strade”, dal Garigliano fino alla Sicilia. Fu a lungo dibattuta da studiosi eminenti, come Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Antonio De Viti De Marco, Napoleone Colajanni, Guido Dorso, Ettore Ciccotti, Antonio Gramsci, Pasquale Saraceno, Manlio Rossi Doria… Poi venne la “Cassa”, che operò al di sotto di una linea di confine che intersecava la Pontina, l’Appia, la Casilina, l’Autosole. In verticale, l’intervento si estendeva in tutto il Sud, fino al Salento, alla costa calabra, in Sicilia e in Sardegna, con alcune appendici a Nord (ad Ascoli Piceno, all’Isola d’Elba). Allora: perché ancora oggi la questione del divario Nord-Sud è immutata, e addirittura aggravata? Per vari impedimenti.
Primo: nessun impiego di capitale pubblico è efficace se si abbandona la cultura imprenditoriale in nome di quella clientelare, e in virtù della tendenza baronale a investire il plusvalore agricolo sulle piazze di Londra e di Parigi, o nei paradisi fiscali. Secondo: come aveva avvertito Giustino Fortunato, c’era di mezzo la «fatalità geografica meridionale», cioè l’aggrovigliata idrografia, aree montuose disboscate da secoli, colline di fragile costituzione geologica, con una percentuale di pianure pari al 18,3%, contro il 34,9% del Nord. Terzo: l’irriducibile propagazione di cartelli del crimine, piovre a volte in commistione con oligarchie politiche per interessi elettorali o affaristici, che non si sa, non si può o non si vuole sradicare. Quarto: il confronto senza sbocco risolutivo tra i meridionalisti autonomisti, convinti di una presunta superiorità del Sud, e gli unitari, per i quali proprio la debolezza generale poteva consentire al Sud un futuro solo grazie alla solidarietà della nazione. Quinto: la spaccatura del ceto politico meridionale, inchiodato alle sue responsabilità da chi condanna gli sprechi e le corruzioni e chi assolve tutto e tutti come bilanciamento di governi e di forze politiche pregiudizialmente anti-meridionali. Sesto: l’impazzimento subculturale di troppi responsabili della cosa pubblica, giunti a chiedere che la Banca per il Sud tratti gli affari in dialetto (sic!), senza rivolgersi le domande elementari se con il localismo più becero il Sud potrà mai sostenere l’internazionalizzazione delle sue aziende, o se la presenza di una nuova “Cassa” – organo necessariamente centralizzato – potrà mai conciliarsi con il federalismo prossimo venturo.

A un secolo e mezzo dalla sua costituzione in nazione e in unico Stato, l’Italia ancora discute sul senso e sulla forza della propria coscienza unitaria. Siamo una nazione? Siamo uno Stato con la consapevolezza del bene comune? L’urgenza del tema – afferma Biagio De Giovanni – nasce da un ritornante divisionismo, da un’incapacità di pensare insieme l’Italia, su due distinti versanti, che comunque si intersecano: quello del rapporto Governo-Opposizione, con un patologico e radicale disconoscimento reciproco, e quello della contrapposizione Nord-Sud, con i contenuti che hanno dominato gli ultimi quindici anni, dalla secessione al Sud sentito come peso parassitario, e con il Nord che tende a liberarsi di questo peso. Un’Italia doppiamente divisa, due Paesi contrapposti che si sfidano in una lotta per la vita o per la morte.
Non siamo stati mai Stato unitario e nazione politica sotto il fascismo – ribadisce De Giovanni –, ma neanche durante la Prima Repubblica, perché oltre lo sforzo della Costituzione si agitavano forze opposte e antagoniste persino sul destino del mondo, con un odio politico che minava la scena anche nella continua ricerca del compromesso. Sicché l’Italia si modernizzò, ma neanche questo servì a formare un destino comune. E quando l’intero sistema politico crollò, sotto i colpi congiunti del 1989 e di Mani Pulite, il disconoscimento si fece più duro, la disunione dominò, come domina tuttora la storia dell’Italia-nazione: «Non ha vinto la Lega, e neanche il suo secessionismo. La Lega sta vincendo perché è riuscita a far diventare coscienza generale un dato che nasce dalla storia profonda dell’Italia e dalla responsabilità di tutte le sue classi dirigenti, invase da divisionismo, dal fallimento del Sud, dalla mancata presa di coscienza – fatti salvi alcuni momenti – di una comune responsabilità della nazione verso la sua divisione originaria».
Sulle celebrazioni dei 150 anni, nel 2011, pesano questi macigni, influiscono questi odii inconcussi. Si può rivolgere un appello generale contro il divisionismo – conclude De Giovanni – ma la speranza è minima: «Il gioco delle parti continuerà, prevarrà la logica del nemico». La grande storia unitaria della nostra cultura non si è mai tradotta in Nazione.

Certo, c’è da riflettere sul perché i cittadini meridionali non abbiano saputo imporre nell’agenda politica di tutte le forze in campo la questione del proprio futuro. La percezione collettiva è che dopo la riforma agraria, dopo alcune grandi infrastrutture, dopo gli investimenti pubblici nel settore industriale di base (con il trasferimento di impianti di cui il Nord voleva liberarsi), dopo la Cassa per il Mezzogiorno, e via elencando, siamo tornati al punto di partenza.
Che tutto questo, e altro ancora, non abbia prodotto alcun mutamento antropologico, per cui ci si accontenta di sopravvivere con i cascami dello sviluppo del Nord? Ma questo non può essere un destino segnato. Non ci si può affidare alle braccia altrui. Nel Sud ci sono energie e intelligenze per lo sviluppo: imprenditori, aree industriali, centri di ricerca, università. E tanti giovani. Queste energie vanno liberate. E possono essere liberate solo da una decisa volontà politica.
Ovviamente, il contesto è difficile. Il Paese è impoverito. Molte famiglie hanno difficoltà nella gestione del quotidiano. Altre famiglie addirittura non nascono. Il problema di garantire un futuro ai giovani meridionali è drammatico. È anche chiaro che non tutto può esser fatto da un solo governo. I flussi economici mondiali passano sopra le teste dei governanti, di destra o di sinistra che siano. Un governo, però, fissa delle priorità.
Ho cercato inutilmente un gigante, e sia pure un gigante nano del pensiero meridionale, che a fronte della proposta decerebrata delle gabbie salariali (che esistono da sempre) o delle accuse delle promozioni con lode facili delle scuole di un Sud che è un vivaio di talenti, o delle truffe ai danni del Mezzogiorno perpetrate da chi quasi senza soluzione di continuità sgoverna il nostro Paese, abbia alzato la voce qualche decibel sopra una nota ovattata o una flebile eco.
Sappiamo bene che un moderno contesto non può essere creato soltanto dallo Stato; sappiamo anche che dobbiamo impegnarci tutti nel nostro modo di essere e di operare. Nel Sud – rileva Roberto Telesforo – le qualità individuali non mancano assolutamente: «Tutti i “sudisti” che vanno altrove a cercare fortuna in pochi anni si ritrovano in posizioni superiori alla media, spesso con ruoli di grande responsabilità. È la comunità (comunale, regionale, interregionale) che non riesce ad operare in modo organico, capillarmente qualitativo».
Che fare? La scuola dev’esser posta al centro della vita della comunità, anche con il contributo delle famiglie e della pubblica amministrazione. La magistratura, nel prendere un qualsiasi provvedimento interlocutorio, consideri gli effetti che esso determina in quanti nulla hanno a che fare con quel procedimento (che poi magari si estinguerà) e non addossi alla comunità stalli pestiferi. La Pubblica Amministrazione non solo operi bene nel “fare”, ma anche ottimamente nel relazionarsi con individui e aziende private, stimolandone iniziative e attività. Siano agevolati tutti i comportamenti virtuosi. Siano combattute senza tregua corruzione e concussione. Sia palesata quella civiltà che possediamo da gran tempo, ma che spesso è sottaciuta per timidezza o per paura, di fronte agli atteggiamenti arroganti o ai comportamenti malavitosi. Ciascuno pensi, nel suo quotidiano, ai propri legittimi interessi, ma anche a quelli della comunità di cui fa parte. Di una comunità di qualità ci avvantaggeremo tutti.
E non basta. Io non credo più che la distinzione tra statalisti e liberisti, che pure appartiene alla classicità dei dibattiti sul Sud, abbia ancora oggi lo stesso valore di un tempo perché, al cospetto dei disastri provocati dal regionalismo, vi sono almeno due modi differenti di essere statalisti. C’è chi, per atavica sfiducia nel mercato, vorrebbe affidare allo Stato il compito di allocare le risorse, selezionando i progetti e aumentando così il tasso di corruzione e le spese di transazione che le imprese debbono sopportare; e c’è chi, invece, ritiene che lo Stato debba preoccuparsi soltanto di creare il contesto, affinché gli investimenti nel Sud non siano penalizzati e i capitali respinti: di occuparsi realmente, e non come occasione per mobilitazioni o parate partitiche, della sicurezza contro le mafie, di creare infrastrutture e servizi al passo con i tempi, di sostenere il capitale umano e i centri di formazione d’eccellenza, che sembrano in via d’estinzione.
In questa prospettiva, è anche necessario prevedere i contrappesi affinché il federalismo divenga per il Sud un’occasione, senza risolversi in un’ulteriore degenerazione dei guasti provocati dalle Regioni, da una parte, e dall’altra in una politica di pure e semplici elargizioni clientelari per progetti senza strategia unificante. Si dice che una buona classe dirigente si forma nel fuoco dell’emergenza. Allora noi, al Nord e al Sud, terre e uomini sopravvissuti a tutte le emergenze, abbiamo le carte in regola perché nasca una classe dirigente motivata e di primissimo ordine.

Il Sud ha un interesse vitale a restare agganciato all’Europa. In caso contrario, scivolerà verso il caos e la povertà dell’Africa. E non può farlo, senza il Nord. Il quale, dal canto suo, ha un interesse non meno vitale ad accrescere il proprio peso nel Mediterraneo, bilanciando il vantaggio commerciale e culturale di altri Paesi europei nei confronti dell’Est o delle ex colonie nel Continente Nero. E non può farlo, senza il Sud. In sintesi: se guardiamo ai conflitti Nord-Sud inforcando i soli occhiali delle convenienze immediate e locali, rischiamo davvero di dilaniare la Penisola senza che nessuno tragga un reale vantaggio.
Guardiamo in faccia la realtà. Il Sud si sviluppa meno del Nord, ma questo accade in un’Italia che si sviluppa meno dei Paesi europei. Le università meridionali sono mediamente peggiori di quelle settentrionali, che a loro volta sono tragicamente in fondo alle classifiche internazionali. È stato messo in evidenza che «c’è un nesso stretto fra l’azzopparsi della corsa italiana e lo sciancarsi della marcia meridionale, e chi crede che liberarsi di un pezzo d’Italia sia utile a prendere velocità illude se stesso, e non sa far di conto». Cioè: chi ritiene che la meridionalità sia una sorta di marchio d’inferiore qualità, o d’autoctona particolarità, dimentica molte pagine di storia. Se ne propongono due, recentissime: nella guerra contro la mafia il Sud può vantare un uomo come Giovanni Falcone, mentre il Nord ha schierato Luciano Violante, che ha usato il suo potere contro Falcone; e la trama intera della finanza che ha retto lo sviluppo industriale del Nord ha avuto un regista meridionale colto e schivo, Enrico Cuccia.
I meridionali hanno senz’altro responsabilità immense, per il protrarsi oltre il tempo massimo della loro immutata questione. Abbiamo anche detto e scritto che il ricorrente atteggiarsi a plebe questuante è repellente; e che la mancata ribellione è una colpa. Ma non la si capisce pienamente se non se ne comprende la natura e si scivola in un antropologismo d’accatto, ove non si consideri il ruolo corruttivo svolto dalla spesa pubblica, per sua natura amministrata dai governi nazionali. Grazie a quella si è costantemente comprato il consenso elettorale del Sud, estendendo sempre di più l’economia assistita e le famiglie che campano di trasferimenti pubblici. Con quel consenso si è sostenuta una politica industriale e sociale a tutto vantaggio del Nord. Esempio: in tempi di crisi, gli ammortizzatori sociali pompano denaro verso la Cassa integrazione, quindi verso il Nord. Fare industria al Sud, del resto, è molto più difficile che al Nord, perché in tutti e due i casi lo Stato è pesantemente presente nell’imporre costi e procedure, ma nel Sud è latitante quando si tratta di garantire il rispetto della legge e la sicurezza dei cittadini e delle imprese.
Gli investimenti infrastrutturali sono in grandissima parte fermi da anni, (e non basta un Gran Ponte a pareggiare i conti col resto d’Italia), ma ne risente di più chi è maggiormente distante dai consumatori finali. Tollerando l’economia sommersa, inoltre, al Nord si recuperano margini di competitività, cancellando lo svantaggio di un fisco troppo esoso, ma al Sud si consegnano spazi di sovranità, perché si consente alla criminalità organizzata il controllo che sfugge allo Stato.
Tutto questo non è riconducibile al colore delle maggioranze politiche. Così fosse, basterebbe cambiarle per rompere l’incantesimo. Qualcuno, infatti, saprebbe spiegare se ci siano differenze fra Gava e Bassolino? O fra i dissesti sanitari della Calabria e della Liguria, o della Puglia e del Piemonte? Tutto questo accade perché in un’economia chiusa e in un sistema assistenziale il potere si conquista amministrando privilegi, diseconomie e favori. Se ti opponi, perdi; e il vincitore (sempre più cinico, sempre più corrotto, sempre più “Signor tot per cento”) torna a fare nel Sud quel che fece il predecessore.

Dunque: colpevolezza grave è non aver rotto questo meccanismo perverso. Ma a qualcuno risulta che siano diversi gli elettori veneti? O quelli delle “regioni rosse”?
Al Sud è cresciuto a dismisura il tumore della spesa pubblica improduttiva. Al punto che si è tentati di credere che sarebbe conveniente fermarla in qualche modo, per asfissiare le metastasi. Ma stiano attenti, gli spiriti acritici di tutte le latitudini: non si tratta di un problema esclusivamente meridionale, perché – in definitiva – il Sud ha bisogno delle stesse cose che urgono in tutta Italia, isole comprese: più mercato in economia, più Stato per far rispettare le regole, più merito, più competizione, più premi ai meritevoli. La rivoluzione necessaria è la medesima, e non sarà possibile farla gli uni contro gli altri, lasciando proliferare i profittatori. Che sono equidistribuiti in tutto lo Stivale. Come confermano le nerissime cronache quotidiane.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2009