Settembre 2009

Con l’irruzione del capitalismo asiatico

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A rischio i modelli
anglosassone e renano

Claudio Mulas

 

 
 

I rapporti tra
Stato e mercato non sono stati
un abito di taglia unica, uguale per tutti: ogni società, ogni area del
mondo ha avuto
il proprio sarto, che ha tagliato abiti su misura.

 

 

 

 

Una delle ragioni che rendono difficile capire dove porterà la crisi che stiamo attraversando (par di capire, nella sua ultima fase) nasce dalla fatica che facevamo fino a poco fa a metabolizzare la rivoluzione globale dello scorso ventennio. Se la rivoluzione industriale in un secolo ha cambiato l’Europa e le sue appendici oltremare, la “seconda globalizzazione” ha avviato, in due decenni, il superamento della “grande divergenza” tra l’Occidente e il resto del pianeta iniziata nel XVI secolo.
Stavamo pian piano rendendoci conto di quanto la storia avesse accelerato il passo quando è sopraggiunta la più grave crisi dopo quella dei primi anni Trenta, un fenomeno che ci ha trovato altrettanto intellettualmente impreparati quanto la globalizzazione, convinti come eravamo che le crisi fossero diventate per i Paesi ricchi e “finanziariamente evoluti” un relitto della storia.
Quale lezione per il futuro trarre dal guardare alla crisi nello specchio della rivoluzione del ventennio trascorso? Solo di prendere atto, condannandoli, degli eccessi della finanza, della scarsa lungimiranza dei grandi banchieri, degli squilibri, del mito dei mercati autoregolantisi? O non dobbiamo anche cercare di discernere meglio le novità create dagli anni Novanta che potranno dare forza e stabilità al sentiero che imboccherà l’economia mondiale dopo la crisi?
Ci sono diverse interpretazioni su quali suggerimenti e lezioni ci consegni il passato più o meno recente: uno degli effetti della crisi è quello di avere eliminato dall’immaginario collettivo un “pensiero unico” che, probabilmente, non è mai esistito. Al tempo stesso, la dicotomia manichea tra monetaristi e keynesiani si rivela inadatta a dare conto dei termini del dibattito in corso nel mondo.
Se è aumentato il numero di coloro i quali ritengono che la crisi vada combattuta con politiche monetarie e fiscali aggressive, quando si aguzza la vista verso un futuro lontano le diverse opinioni non si prestano a scontare codificazioni, in particolare quando la discussione verte sul sistema economico che emergerà (o sia auspicabile che emerga) proprio dalla crisi.

Svanita l’opzione anti-capitalista, tiene banco il dibattito sulle varietà dei capitalismi possibili. Molti prevedono, non sempre auspicandolo, un maggiore ruolo dello Stato rispetto al mercato, ma entro questa formula generale le previsioni (e gli auspici) sono diversi: c’è chi immagina uno Stato che spenda più ampiamente, chi uno che si limiti a un ruolo di efficace regolatore, chi propone uno Stato produttore.
A scompaginare la vecchia dicotomia tra il capitalismo anglosassone e quello renano, irrompe sulla scena planetaria il capitalismo asiatico. La stessa distinzione tradizionale tra destra e sinistra emerge alquanto sfumata, anche se non eliminata, dalle discussioni attuali. Queste testimoniano come la novità dei problemi che il mondo ha affrontato – dapprima con lo sviluppo che ha posto fine alla grande divergenza, poi con l’avvio di una crisi inaspettatamente profonda ed estesa – abbia prodotto riflessioni che escono dagli schemi canonici.
Non stupisce che la varietà degli approcci e delle sottolineature non conduca ancora a una sintesi condivisa, ma stupiscono l’immediatezza e la vivacità della reazione intellettuale ai grandi cambiamenti dell’economia e della società.

La quadriga sulla Porta di Brandeburgo, a Berlino. Orientati una volta verso Ovest, anche dopo l’abbattimento del Muro, i cavalli continuano a guardare verso Est. - Archivio BPP

La quadriga sulla Porta di Brandeburgo, a Berlino. Orientati una volta verso Ovest, anche dopo l’abbattimento del Muro, i cavalli continuano a guardare verso Est. - Archivio BPP

Non era scontato che dovesse essere così: la rivoluzione industriale non venne discussa, né tantomeno capita dai massimi economisti e intellettuali del tempo; la grande crisi degli anni Trenta fu interpretata con schemi preesistenti: capitalismo, marxismo, terza via fascista e, in politica economica, con le categorie del Gold Standard e dell’ortodossia finanziaria.

Manca ancora una proposta nuova, capace di creare consenso, come fu quella keynesiana negli anni Trenta. Forse non ci sarà. Forse non è desiderabile che nasca un nuovo pensiero unico su come riprendere lo sviluppo, su quale sia la forma di capitalismo più adatta. Ci rendiamo conto che la crescita economica che ha prodotto la radicale rivoluzione del ventennio trascorso non è stata il risultato di una sola ricetta istituzionale.
I rapporti tra Stato e mercato non sono stati un abito di taglia unica, uguale per tutti: ogni società, ogni area del mondo ha avuto il proprio sarto che, pagato un tributo formale a quello che riteneva essere il pensiero unico, ha tagliato abiti su misura.
Molti concordano sostanzialmente con la lezione della storia: nel lungo andare, il mercato è motore non sostituibile di innovazione e di creatività. Il dissenso consiste sul come impedire che questo motore proceda per strappi violenti, tali non soltanto da distruggere ricchezza, ma da creare cambiamenti nella distribuzione del reddito così rapidi e marcati da minare la società.
Su questo terreno il dibattito continuerà ancora a lungo, con le analisi progressive e comparate delle nuove grandi economie emergenti, soprattutto quelle della Cina, dell’India, del Brasile. Con gli occhi non distolti da tutto quel che accade in una Russia tesa alla riconquista di un prestigio e di un protagonismo dapprima perduti, poi appannati, e oggi nuovamente perseguiti con determinazione.

 


   
   
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