Settembre 2009

Dalla crisi al futuro

Indietro

Al di là del tunnel

Augusto Morelli
Eraldo D’Amore

 

 
 

Eccola, la speranza:
che il miracolo si ripeta,
che la luce aurorale
che sembra annunciarsi
oltre il tunnel
non sia un miraggio
.

 

 

Temo che la crisi non cambierà la psicologia dei risparmiatori. È più probabile invece che migliori i processi decisionali nelle istituzioni»: questa è la lezione che secondo il Premio Nobel per l’Economia, Daniel Kahneman, ci ha dato la crisi globale.
C’è una storia che questo studioso ama raccontare. Questa: un plotone di soldati svizzeri si smarrisce sulle Alpi. Dopo molti tentativi, costoro riescono finalmente ad orientarsi grazie a una mappa che portano con loro, e a ritrovare la via di casa. Quando vi arrivano, raccontano l’avventura al loro superiore, che li guarda esterrefatto: «Ma questa è una cartina dei Pirenei!...».
La storia, secondo Kahneman, che è uno dei fondatori dell’economia comportamentale, illustra un meccanismo psicologico che è stato decisivo per la crisi globale: la convinzione di possedere un modello valido della realtà, e l’aggrapparci ad esso anche quando la realtà tende a smentirlo.
Nel caso della crisi, le mappe sbagliate sono state utilizzate dagli investitori, dalle autorità che avrebbero dovuto vigilare, dagli economisti.

Confrontando gli andamenti di una decina di crisi, l’economista ha mostrato come l’ultima sia l’effetto di un contagio più rapido e virulento rispetto a quelle del passato. Si è realizzata in pochi mesi una discesa che nelle occasioni precedenti era stata molto più lenta. Allora: anche il rimbalzo sarà altrettanto rapido? Il primo segnale dell’alba è dato dalla Borsa, proprio perché essa è il regno per eccellenza delle aspettative, dove quello che conta è anticipare gli altri, in un diabolico gioco di specchi mentali. Soltanto qui le aspettative, se condivise, diventano velocemente realtà. Lo stesso non succede, ad esempio, per l’occupazione, per quanto la fiducia sia importante in tutte le sfere dell’agire umano.
Dunque, la prospettiva diventa quella del lungo termine, come indicano gli analisti, che esaminano una catena di eventi fatta di cicli soggettivi e oggettivi, che si succedono regolari. Se vogliamo sapere a che punto è la notte, forse ci può confortare anche la lunga catena di eventi che rivela un’inversione di tendenza rispetto a poco fa, oltre ai segni di ripresa che l’OCSE registra qua e là, e – per l’Europa – in Francia e in Italia: mercato immobiliare, liquidità, emissioni di corporate bond, e così via.

Il ciclone della crisi non è ancora finito, ma l’economia reale resterà abbastanza al riparo: «È tremendamente sbagliato paragonare la crisi finanziaria che colpisce gli Stati Uniti (e il resto del mondo) con quella del 1929. Allora le autorità commisero errori di politica economica molto gravi. Oggi quegli errori non sono stati ripetuti». Alberto Alesina, docente di Politica Economica all’Università di Harvard, è convinto che la crisi finanziaria americana avrà effetti contenuti sull’economia reale e non si propagherà a macchia d’olio, e per molti anni, come quasi ottant’anni fa. «Questo non significa che gli Stati Uniti avranno evitato la recessione, e se oggi dovessi fare una previsione sul Prodotto interno lordo statunitense farei ancora una revisione al ribasso della crescita».
Il sistema finanziario, dunque, sta complessivamente reggendo bene all’onda d’urto della crisi, perché esistono e funzionano alcuni strumenti di tutela del risparmio che nel ‘29 non erano neppure immaginabili. Un esempio è la Federal Deposit Insurance Corp, l’agenzia federale degli Stati Uniti che garantisce i depositi fino a 100 mila dollari nel caso di fallimento della banca. Nell’Unione europea le banche aderiscono al Fondo garanzia depositi, che garantiscono ai depositanti fino a 103 mila euro.
In ogni caso, sottolinea l’economista, «oggi le autorità politiche e monetarie hanno reagito, e continuano a reagire correttamente ai crolli, che sono stati sostanzialmente soltanto finanziari».

ICP Milano

Per quanto riguarda noi e il nostro Paese, c’è un precedente utile da richiamare. Chi non è più giovane ricorda certamente l’austerity della fine del 1973. C’era stata la guerra arabo-israeliana del Kippur, i Paesi arabi avevano chiuso i rubinetti del petrolio, e improvvisamente la nostra vita cambiò: per la prima volta venne imposta in Italia la domenica senza auto. La chiusura dei programmi televisivi fu anticipata alle 23, il TG passò dalle 20,30 alle 20, l’ultimo spettacolo al cinema fu fissato alle 22, furono ristretti gli orari di negozi, bar e locali. Un gigantesco coprifuoco si dispiegò in pieno tempo di pace.
Ora tutto è cambiato, e una modificazione delle nostre abitudini per decreto non è più immaginabile. Ma alcuni dei cambiamenti di allora sono rimasti nel nostro vissuto collettivo. Succederà anche ai nostri giorni, con una crisi ben più ampia di quella di trentacinque anni fa, in un contesto di consumi e di consuetudini del tutto diverso. Anche perché ci sono elementi di tenuta che noi italiani possediamo, e altri popoli no.
Siamo i più grandi risparmiatori del mondo (con i giapponesi), e siamo quelli che vivono di più in case di nostra proprietà (due su tre). Ci indebitiamo molto meno di francesi, inglesi e soprattutto americani, e consideriamo un’eccezione gli acquisti a rate. Meno di altri ci siamo fatti prendere dal gusto rapace dei titoli che si sono rivelati tossici, dei prodotti finanziari che in America e in Gran Bretagna (ma non solo) hanno portato enormi arricchimenti e subito dopo voragini di perdite, mentre il sistema sanitario-previdenziale che tante volte abbiamo criticato per la sua onerosità ci mette al riparo dai peggiori drammi sociali. Però abbiamo il peggior debito statale e un sistema produttivo fondato sulle piccole e medie imprese che conta sull’export. Il made in Italy deve percorrere una via carsica di cui non conosce i meandri e la reale lunghezza; e quando ne uscirà, troverà dei mercati forse molto cambiati per gusti e aspettative, oltre che per capacità di spesa.
La globalizzazione aveva portato a una specie di rotazione tra i mercati: l’America tirava meno, ma spuntava fuori la Russia con i suoi nuovi ricchi; la Germania si richiudeva in sé, ma Arabi ed Estremo Oriente garantivano nuovi affari. E tuttavia tante aziende si fermavano, altre chiudevano. Quanti sono, in realtà, i senza lavoro? E come va con la concorrenza?

Nello Wrona

Nello Wrona


La Spagna, che si era illusa di superarci come potenza economica, è entrata in una crisi tale per cui ogni mese caccia dalle fabbriche 200 mila persone. La Grecia è sull’orlo della bancarotta. La Polonia non vuole entrare nell’euro perché sa che diventerà più povera. In Italia i numeri e i dati sono certamente migliori, ma è insensato sperare di restare del tutto indenni. Il nostro superministro dell’Economia sostiene che siamo quasi fuori dal buio, grazie al grande sforzo (in buona parte ancora da fare) di opere pubbliche, volano di impiego, di sviluppo, di investimenti e di fiducia. Sarebbe il nostro New Deal. Ma intanto il Mezzogiorno continua a languire.
A bocce ferme, potremmo anche farci illuminare da un piccolo raggio di ottimismo. Ma resta il ragionevole dubbio che il mostro della crisi continui a cambiare le sue sembianze, e non sappiamo se ci aggredirà ancora, e da quale parte. Tuttavia, l’Italia ha sempre dato il meglio di sé nei momenti più difficili. Eccola, la speranza: che il miracolo si ripeta, che la luce aurorale che sembra annunciarsi oltre il tunnel non sia un miraggio.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2009