Marzo 2009

 

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Le Giravolte

AA.VV.

 

Percorsi per: a.b.
pierluigi mele
maria santoro
 
 

Questi sono i confini della democrazia, nel cui ambito la politica deve avere un’anima, questo è il più autentico patrimonio di un popolo, il presidio irrinunciabile del suo vivere democratico.

 

Due autori salentini

Uomini, libri e divagazioni

«Divagazioni», le ha definite. E forse l’evidente sobrietà (addirittura minimale) della definizione è in piena empatia con il suo temperamento mai tentato dall’urlo, dall’invettiva o dalla partigianeria. Glielo impedivano una profonda cultura, (cultura in atto, e coltivata senza soluzione di continuità), e una non comune sensibilità civica, che lo ha portato a servire il Paese con un impegno politico durato sei decenni.
In realtà, proprio questa naturale vocazione esclude che si tratti di pure e semplici digressioni o di romantiche evasioni letterarie. Percorrendo gli scritti di Storia e Storie.
Riflessioni su politica e società (1999-2006), di Giacinto Urso, volume che raccoglie quanto apparso negli appuntamenti domenicali in una rubrica sul “Quotidiano”, si coglie subito l’ampio spettro degli interessi dell’Autore, che dispiega a tutto campo esperienze dirette, attività pubblica, severo lavoro di ricerca per il superamento delle contraddizioni presenti nella nostra società. Sicché l’unitarietà del testo emerge dalla coniugazione di alcuni temi locali, del Salento e del Mezzogiorno, con quelli (ovviamente di gran lunga più numerosi) nazionali, e dall’interconnessione della politica con la storia (e con le storie), per politica intendendo la vita della polis, e di conseguenza le garanzie delle libertà e la tutela dei diritti del cittadino.
Deputato per cinque legislature, sottosegretario alla Pubblica Istruzione, presidente della Commissione Sanità alla Camera, poi presidente della Provincia di Lecce e di numerosi enti e istituzioni nazionali, a lungo difensore civico, infine ancora sindaco di Nociglia, Urso ha attraversato anni decisivi della vita nazionale con una militanza fondata sulla concezione di una democrazia permeata di valori forti e di profonde matrici umanistiche e cristiane percepibili in filigrana lungo l’intero percorso cronologico richiamato. Ecco dunque le voci della filiera di argomenti che hanno identificato l’arco storico: si va dal terrorismo ai disagi del Sud, dall’attualità della lezione di De Gasperi alla fine della Prima Repubblica e alle vittime della gogna – non soltanto mediatica – di “Mani pulite”, dall’indispensabilità dei partiti alla riforma elettorale, dalle considerazioni sulla droga alla devolution bossiana, da Bin Laden al Grande Fratello, dall’addio alla lira alla diaspora dei cattolici in politica, dai problemi della sicurezza a quelli del federalismo, dallo spoil system ai danni del giustizialismo, dalla lezione di Moro all’Europa allargata, da Nassirya al risveglio della religiosità, dalle stagioni di Berlusconi e di Prodi alla guerra civile delle parole…

Nello Wrona
Nello Wrona


Un grande e prezioso caleidoscopio, nel quale ricorrono memorie e situazioni d’attualità, lezioni di comportamento e testimonianze sulle storture che hanno condizionato la società italiana nel suo insieme e proiettato ai nostri giorni l’irriducibile dualismo Nord-Sud.
Materiale prezioso, utile soprattutto perché i giovani possano rendersi conto che il mondo contemporaneo in realtà preesisteva, aveva già piantumato gli alberi della modernità, era stato interprete di un’azione politica, di politica economica e di avanzamento civile, sociale e culturale che essi poi hanno ricevuto in eredità, non per contemplarlo come simulacro astratto, ma per coniugarlo ancora al futuro. Di qui, il valore di questi scritti e della loro non comune acribia storica: “Con profonda amarezza – afferma Urso – si assiste alla dispersione di documentazioni e archivi soprattutto politici. Diviene, perciò, salutare, pur nei limiti di considerazioni soggettive sul tempo affrontato, offrire una serie di fatti e di dati culturali finalizzati a conservare, ad approfondire, diffondere e valorizzare la memoria della storia e della cronaca, che, naturalmente, avrà bisogno di ulteriori confronti con altre voci e con altri personaggi”. Questi sono i confini della democrazia, nel cui ambito la politica deve avere un’anima, deve ispirarsi ad una genuina etica delle istituzioni e a un forte senso della legge: questo è il più autentico patrimonio di un popolo, il presidio irrinunciabile del suo vivere democratico. Emerge da queste pagine il principio secondo cui la politica deve avere una visione del bene comune, deve esprimere e comunicare dei valori, senza i quali non si possono fare progetti, e meno che mai realizzarli; e in assenza dei quali non si può infondere fiducia nei cittadini, o motivarli a impegnarsi nel pubblico e nel privato. Il servizio nei loro confronti è la sola giustificazione del potere. Di complemento, la buona politica deve fondarsi su un processo democratico la cui premessa è il riconoscimento reciproco tra le forze in campo, consapevoli che la loro legittimazione è il consenso popolare. In questo contesto, non bisogna stancarsi di tener fermo il sestante delle regole del buon governo, prima fra tutte quella – inderogabile – secondo cui il luogo privilegiato per l’incontro fra le forze politiche è solo ed esclusivamente il Parlamento, cuore della democrazia reso vitale dall’esercizio nel Paese della libertà d’opinione e da un corretto pluralismo dell’informazione.
In Parlamento si confrontano – non si fronteggiano per scontrarsi – maggioranza e opposizione, ciascuna con i propri diritti, in un dialogo che è l’essenza stessa della democrazia, il cui sale è la “concordia discors” tra le istituzioni.
È questo – ci sembra – il messaggio fondamentale che emerge dalla crestomazia di argomenti che formano trama e ordito di Storia e Storie. Non a caso: la formazione umanistica rende Urso consapevole che l’idea di democrazia parlamentare nacque nel Mediterraneo, e che da tre millenni quest’idea si è dimostrata la dottrina migliore per far convivere pacificamente le tendenze e le opinioni diverse che da sempre esistono nelle società e negli Stati. La democrazia è la base della prosperità dei cittadini e delle loro istituzioni. Senza democrazia, la stabilità è effimera, il progresso economico è una meta sfuggente, la libertà («la talpa che scava da millenni», come l’ha definita Hegel) e la dignità della persona sono valori astratti, disancorati dalla civiltà dei diritti umani. La lunga militanza politica, infine, esercitata con l’esemplare onestà, con la lealtà e con la passione che contraddistinguono gli autentici testimoni della Res publica, e riflessa in queste splendide pagine a loro modo “annalistiche”, rivela che il tempo non ha consumato la sua capacità di concertare emozione e ragione; non ha affievolito la schiettezza del suo stile narrativo; non ha smarrito le certezze dei suoi sentimenti e dei valori da condividere, che sono parte costitutiva dell’etica civile; non ha mutato le coordinate della sua propria vocazione. Semmai, gli fa sentire nella testa e nel cuore il dovere del ricordo: un dovere per se stessi e per le nuove generazioni, nella speranza che la forza della memoria aiuti a non esser costretti a rivivere storie che sono state più tragiche che grandi, e guidi verso un mondo più giusto, dove il coraggio del progresso prevalga sulla paura. Una lunga citazione, per riassumere in qualche modo l’humus variegato, fecondo, e per tanti versi profetico dei contenuti del libro. Riassumiamo da un articolo comparso nella seconda metà del 2005, d’una attualità sorprendente. Scrive Urso: «È accaduto anche a me, sprovveduto e curioso, di riflettere su quanto ho raccolto per iscritto e nei discorsi, rivolti al compimento dei miei 80 anni di età e di quasi 60 anni di attività pubblica. Per l’occasione, inevitabilmente, con la parola si è attraversata, in lungo e in largo, la memoria del passato, corrispondente in particolare al secondo mezzo secolo del Novecento trascorso». Gli argomenti citati dall’Autore: gli anni 1940-‘50 contrassegnati da una guerra perduta, dalla dissoluzione della Nazione, dalla fame, dalla caduta di un sistema dispotico, dal timido avvento della libertà e della democrazia; lo scontro ideologico tra le forze politiche dell’epoca; il richiamo ai livelli di rispetto e di tolleranza di quei tempi, la partecipazione popolare, l’ansia di imparare, gli incontri associativi, il controllo sociale collettivo (cioè la partecipazione della gente) basato sull’incontro, il raffronto, il dialogo e anche la critica; l’antico buon livello della politica dell’ascolto, della ricerca del bene pubblico; la saldatura del talento di chi aveva cultura con la fecondità di chi aveva istintivi pregi di buon senso.
Sostiene l’Autore: «Stranamente, questi e altri argomenti sono apparsi più che graditi alle generazioni di oggi, ricavando entusiasmo, riflessione, scambi di idee, curiosità, meraviglia, anche incredulità, confessioni di sconoscenza e ricerca di assimilazione. È sembrato, insomma, di scoprire una diffusa, anche se sconsolata, presa d’atto di cose perdute, che si vorrebbero ravvivate perché presenti nel sottofondo dell’anima».
Ed è questo “travaglio dell’attuale società” che, per Urso, (il quale lascia aperto un varco
alla speranza, valore, sì, politico, ma soprattutto profondamente umano e cristiano), va interpretato e affrontato, prima che sia tardi, tenendo conto che ora come ora seduce e attrae il non-bene, più che il bene, e l’apparire e l’avere più che l’essere; e che è su questo dualismo che si giocherà la partita decisiva per lo smarrimento o per la riconquista della ragione, del discernimento e della coerenza.
ltra ricostruzione storica, questa volta sotto il profilo più squisitamente religioso, o meglio, di un contenzioso religioso, che – caso forse unico al mondo – ha avuto come esito la creazione di una confraternita gemella di titolo analogo (per la Madonna dei Dolori), come conseguenza di una controversia in parte di chiara lettura e in parte di potenziali interpretazioni tra il Capitolo della chiesa parrocchiale e la Confraternita della Pietà, che con l’intervento determinante di alcune importanti famiglie locali realizzò la nuova Chiesa dell’Addolorata, rifondando in pratica la Congregazione della Pietà e dei Dolori. Storie di ordinari contrasti paesani, di conflitti di potere e di ricerca di libertà d’azione, si potrebbe osservare. Ma non nel caso della ricostruzione storica redatta da Tommaso Leopizzi (dell’Ordine dei Frati Minori d’Assisi), Autore che ha alle spalle un lungo e rilevante esercizio di ricerche storiche, che ci hanno consegnato testi pregevoli, da Matino, storia e cultura popolare, a Gente venutadalla Santa Terra di Ponente, (profili biografici di Missionari francescani del Salento nella Cina continentale nei primi decenni del Novecento), agli studi sul francescanesimo e sulla Chiesa di S. Antonio a Fulgenzio in Lecce, a quelli sulla presenza domenicana a Matino. L’Autore, infatti, al di là della cronaca pura e semplice, riferita con sereno distacco, grazie a specifiche documentazioni non solo in non pochi casi ha dato rigore storico e ristabilito verità oggettiva ad alcuni fatti e accadimenti oscuri o nebulosi, e ha prospettato ipotesi verosimili là dove non si sono rintracciate fonti consultabili o attendibili, ma ha anche allargato il discorso sulle caratteristiche architettoniche e artistiche dei due edifici sacri gestiti dalle Confraternite parallele (la Chiesa della Pietà, del XVII secolo, con l’incantevole Arco che è l’emblema direi aristocratico – non soltanto sotto il profilo strutturale – della città; e la Chiesa dell’Addolorata, oggi Santuario, del secolo successivo), e sulle manifestazioni in forma di “artigianato artistico-religioso” della devozione popolare espressa nelle numerosissime edicole votive (se ne sono contate più di sessanta) presenti nella città e nelle campagne circostanti. E proprio questo dà valore aggiunto al testo: ben oltre quanto Leopizzi aveva già scritto nella storia di Matino (sia nella prima che nella seconda edizione aggiornata), qui si illustrano le opere d’arte: le tele e gli affreschi, in modo particolare; poi le statue; ma anche strutture portanti, emblemi della fede e dei riti; e gli altari superstiti o dei quali si ha sicura memoria; e gli arredi sacri; e infine le stesse edicole, con accurate analisi esplicative, con ampie descrizioni dei soggetti, con notizie sugli autori delle opere d’arte. Ed è in particolare in virtù di questo lavoro esplorativo, prima ancora che descrittivo, che Leopizzi ci offre un panorama visivo, e quasi tattile, delle raffigurazioni pittoriche che impreziosiscono la fabbrica di Santa Maria della Pietà, capolavori pittorici francescani probabilmente attribuibili a un Giuseppe Guerra, nei quali «è racchiuso l’intero progetto salvifico di Dio per l’umanità operato dal Cristo uomo-Dio, nato dalla Vergine Immacolata attraverso la sofferenza e il dolore del Figlio e della Madre».

Statue in cartapesta all’interno del Museo di Sant’Antonio a Fulgenzio, a Lecce - Archivio BPP
Statue in cartapesta all’interno del Museo di Sant’Antonio a Fulgenzio, a Lecce - Archivio BPP

Mentre nel Santuario dell’Addolorata risplende la stupenda rappresentazione pittorica della Crocifissione, opera del francescano Raffaello P. Pantaloni, il quale volle che centro dell’azzurrata composizione fosse «Gesù dal cui volto si irraggia, degradante in circoli concentrici, la luce solare che illumina il cielo, gli Angeli, gli uomini e le cose – Egli che è il centro dell’Universo, il Re del creato – la luce del mondo».
Gradevolissima la lettura. Del resto, questo scrupoloso indagatore della storia locale ci aveva abituati alla disposizione alla scoperta. Non sorprende, dunque, la novità dell’estensione maieutica non alla semplice illustrazione, ma alla vera e propria critica d’arte: per il lettore, un aspetto sostanziale di arricchimento; per lo studioso, uno stimolo a nuove, probanti ricerche, grazie anche all’ausilio, che Leopizzi mette a disposizione, di una cospicua appendice, di una bibliografia e di un’ampia citazione delle fonti.

a.b.


Vorrebbe un padre nostro per dormire e svegliarsi un altro uomo. Il disertore vorrebbe urlare no, io non voglio più ricordi.

Stagioni d’amore e d’abitudine


Se torna il disertore

Stralune di Antonio Errico può essere scritto solo con lucida premeditazione. Sapendo che a trattare della memoria si finisce con il debordare, se non si calibrano tempi, ritmo, tono di scrittura. Perché «il ricordo si è spezzato come filo alla conocchia». Bisogna ricomporre quindi il filo. Allora forse il racconto è medicina, il racconto come confessione, supplica, specchio che riflette. Il racconto come flusso di coscienza, o sbronza liberatoria. Il racconto come resoconto. In Stralune il protagonista è un disertore.
Fugge da un fantomatico fronte per ritornare da quelli che ha amato, coloro da cui forse è stato amato più di quanto egli abbia saputo fare. È nel suo incontro con le figure di madre, figlia, padre, amante che inizia la guerra. Quella vera, senza trincea né tregua. Le figure che il disertore ritrova non hanno quasi un volto, né possono mostrarlo. Sono voci. Pure voci che si fiancheggiano e si escludono man mano. Voci che sulla ribalta del ricordo non recitano un copione. Sono voci di poema. Voci archetipo, nelle quali ripensarsi. Voci che straparlano e imprecano, per ritornare al buio da cui s’erano sottratte come talpe. Lo stesso buio che spetta al disertore, sorpreso a guardarsi dentro e intorno, a rincorrersi sul filo del destino, sino a congelare su una panchina, ormai sfiancato dalle voci.

Nello Wrona

Sono figure, queste voci. Ma figure concrete, che non giocano a nascondersi. Danno tutto di sé, tutta la rabbia e la dolcezza, tutto il rammarico e il vigore. Alcune, tra loro, si sono rifatte una vita. Non hanno ceduto alla tentazione di lasciarsi sfiorire. Altre sono rimaste isolate e disilluse, sono deserti. Come nei precedenti libri di Antonio Errico, le voci-figure sono corpo e respiro della narrazione.
E ancora si affrontano senza mai toccarsi, estranee alla fisicità. Hanno già tutto condiviso nel passato e ora, ritrovandosi, possono testimoniare dell’abbandono e dei reciproci pensieri. Voci, questa volta, più dense. Voci domestiche. Stavolta riunite in una sorta di staffetta del disertore, che traversa una città insonnolita, sprofondata nell’acquaneve, prigioniera del suo passato di fantasmi e
leggende, ma che qui appare solo in filigrana. Qui è un teatro nebuloso di parvenze. Una frontiera balorda, ora fosca, ora sospesa. Ancora una volta Errico elegge suo nume tutelare Giorgio Caproni. Il poeta delle figurazioni, dei viaggi posticci. Perché il disertore di Stralune conserva tutti negli occhi. Li ha tutti con sé, quelli da cui vagheggiava di allontanarsi. Sono tutti con lui, un tradimento dopo l’altro, da anni. Li aveva solo taciuti, prima di tornare da loro un’ultima volta. Prima di lasciarli parlare senza mai interruzioni. Il disertore aveva solo rinviato il momento. Finché ha potuto, finché le forze e l’incoscienza hanno retto. Perché ritornare, ritornare ai ricordi non è un giro di valzer. È la guerra che tutti disertiamo, inutilmente.

C’è un bellissimo film di Giuseppe Tornatore, Una pura formalità. Roman Polanski è lo scrupoloso commissario di una fatiscente caserma dove svolge un lavoro ripetitivo e misterioso allo stesso tempo. Le sue indagini, i riscontri, gli assistenti al suo fianco concorrono tutti ad una difficile impresa: soccorrere chi ha perduto i ricordi.
Chi, per paura, viltà, amnesia o finzione ha dimenticato ogni cosa, ogni affetto. Chi ha stracciato la sua identità. Gli ospiti che si succedono in quel tugurio di commissariato, sono accomunati dalla medesima “colpa” della dimenticanza. Una tazza di latte caldo li accoglie all’ingresso, una stretta di mano li congeda per consegnarli alla memoria ritrovata. Canta Gerard Depardieu nella canzone che chiude il film: «Ricordare, ricordare è un po’ come morire / tu adesso lo sai / perché tutto ritorna/ anche se non vuoi./ E scordare, e scordare è più difficile / ora sai che è più difficile / se vuoi ricominciare».
Ecco, il disertore di Stralune tornerà alla vita forse alleggerito, forse affannato, non si sa. Perché c’è un’ombra ad accompagnarlo per il racconto, un’ombra silenziosa che lo segue incessantemente. Un’ombra che sembra assolverlo, talvolta punirlo, quasi sempre confonderlo. Un’ombra che nell’epilogo il disertore finalmente riconosce, quell’ombra che s’accende in un accenno di sorriso, di un’imprecisata levità. Un’ombra che tornerà nelle pagine future di Errico. Da quelle anteriori non s’è mai separata. Si legge nel libro: «Adesso gli sembrava tutto chiaro. Adesso gli sembrava tutto vero. Come se tutto fosse stato sempre vero. Gli sembrò che l’ombra adesso sorridesse. Pensò che l’ombra adesso lo aspettava».
Non si sa con quale animo il disertore ritornerà alla vita. Di opposizioni è disseminata la sua strada. Di volontà e delirio, di resistenza e fiacchezza è fatto ogni suo desiderio. È il dissidio ad agitare ogni fase di Stralune. Il conflitto mai risolto fra reale e visione, oblio e ricordo, audacia e nostalgia. È una questione di fortuna mettere tutto al suo posto senza troppa e vuota pena. Fortuna se l’amarezza non schianta la gioia, se lo stupore vince sulla resa dei giorni. Fortuna se sopportiamo la solitudine del ricordo, lo sgomento in cui ci lascia il ritorno. Fortuna a reggere lo sconcerto di ritrovare stravolti quelli che avevamo lasciato. Fortuna, in fondo, a ritrovarli.
Stralune è un poema, composto con una tecnica ben precisa. Antonio Errico lascia parlare le voci, senza particolari descrizioni o distensioni proprie del romanzo. Lascia scorrere il torrente di parole che ogni voce teneva serrato. Lascia che ogni voce rompa gli argini del ricordo. L’autore amministra le coordinate di prosa e poesia. Sa che mescolarle non serve, si tratta appunto di amministrare. Quando le parole, da sole, sanno generare un’emozione. E quando occorre incastrarle nelle combinazioni lunghe, nelle antinomie. È la tecnica della composizione, in cui la guida maestra è la musica. E niente, come la musica, è più vicino a un poema.
Le voci-figure, quindi. I miti, o gli antenati, se preferiamo. Gli stessi a ritornare da millenni
nella letteratura, quelli a dirci sempre qualcosa di nuovo. Assumono tutte le volte nomi diversi, distinte sembianze, origini nuove. Ma sempre così fertili, tenaci, dirompenti. Ciò vale tanto per i miti della tradizione quanto per quelli familiari.
Questi ultimi vivono il quotidiano dei nostri occhi e delle nostre proiezioni. Bisognerà allora fingere di ignorarli, meglio ancora di renderli oggettivi, perché possano tornare a sorprenderci. Annota Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò: «Sappiamo che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai».
Si sa che solo certi punti fermi danno un senso a ciò che siamo. Solo chi e cosa ci circonda, o da cui siamo stati circondati. Chi scrive lo sa bene, esattamente quanto chi non scrive. Non è una scelta, ma una disarmante evidenza. Noi possiamo ritardare l’occasione in cui le nostre figure, alla pari dei nostri luoghi d’infanzia, si riuniscono a noi senza più mollarci. Queste figure, questi luoghi sembrano dirci: vai, fai il tuo viaggio e poi ritorna, torna qui da dove eri partito. Il disertore di Stralune fa un’estrema circumnavigazione. Sprofonda negli stessi baratri e chiarori che compongono il suo viaggio. Il tragitto che si snoda è segretezza e luce piena. Talora tutto questo il disertore lo
detesta. Avrebbe solo voglia di dormire, solo passione di scordare. Vorrebbe scomparire, disertare ma stavolta sino in fondo. Scordare le stagioni d’amore e d’abitudine. O quei monti d’Albania intravisti da ragazzo con il padre. Vorrebbe solo una preghiera che lo salvi dal disastro. Vorrebbe un padre nostro per dormire e svegliarsi un altro uomo. Il disertore vorrebbe urlare no, io non voglio più ricordi. Eppure non ha fiato, sembra dovere assecondare l’urgenza della memoria. Lui può solo ritornare a chi ha amato e chi tradito.
Il tradimento è il motore dei suoi ritorni. Non necessariamente l’inganno del corpo.


Semmai è il tradimento della memoria a bruciare, che lo ammutolisce e lo guida nell’inquietudine fonda della notte. È il dimenticare, che non si perdona. Né glielo perdona quell’ombra ignota attorno. Per questo, al termine del libro, l’ombra riappare ma tenera, come sfamata.
L’ombra ha vegliato sul compito assolto dal protagonista. Ora la battaglia non ha vincitori né vinti. Forse ora è tutto alla pari. Forse è l’ora buona per ricominciare. «Adesso puoi andare», dicono infine al disertore.

pierluigi mele




In un’ora
da non perdere a Lecce


Mi “ritrovai” a Lecce un giorno
con un’ora da “perdere”
in anticipo sul pullman che “mi va”
a casa dall’università e viceversa

Corro in piazza S. Oronzo... ora
mi guarda da lontano
di sotto rischiai la decollazione d’Otranto
con l’allungarsi del pomo di Eva
e il recidersi della cervicale

tutt’intorno un festoso cicaleccio
grembiulini colorati
file e file grandi e piccole
attaccate alle maestre

si sventagliano all’improvviso
come a mazzi di una danza

in cori e pari intenti “mi ritrovo”
a perdermi nel tempo
dell’Anfiteatro restaurato

Col pensiero dell’ora poi
credendo d’accorciare
evito le... maestre e
incappiata “mi ritrovo”
nel labirinto del Barocco

Lesto il piede e
tardo l’occhio e il senno
che “si perde” all’infinito
nelle ricche giravolte di...
fioriangelianimalivisi
tutti a guardia del sagrato di S. Croce e

nella comunione di piazze... e... vie
con quei balconi tutt’attorno d’alifiorianimali
a cui non sfuggi e
tutti chiusi alle due del pomeriggio
deserto




chiusa e sola
con la fifa che t’incalza

in croce e perduta ti ritrovi
con due extracomunitari
senza un cristo che t’aiuta

Abala mason cha!!!

con slarghi di sorrisi e
la mia bocca stretta stretta
nel corpo teso teso

e le mani imbalsamate
in mille croci del pensiero
ai piedi del mio Dio

Acc…! ma perché mi dissero…

Sono umani come noi… e più
mi convinco in quell’“incrocio”

E col petto che tutt’a un tratto
mi ribatte forte forte son mutata e

son sputata dalla bocca grande
grande
della Verità

su libri e giovani studenti e…
“mi ritrovo tutt’insieme” e
spensierati

in orario perfetto
in viale Taranto e

nel pulman che mi culla

dall’Università a casa e
viceversa.

maria santoro



Orizzonti arroventati


Orizzonti arroventati
Est Ovest
non demordono

S’arriccia e freme l’onda
un vento gelido sovrasta
trascina e ingloba catastrofi
annunciate

Bevo l’immenso amaro
e t’amo
mio Mediterraneo
arteria delle genti

Un fiele di schiuma
ti sovrasta

Mi ribolle nel capo
l’idea interrogante
ragioni non ragioni




Sbriglia i tuoi bianchi destrieri
sull’onde roventi
aggriglia egoismi e…

“Quando riprenderai Mare *
il tuo dominio…”
su queste amare coscienze

allora sarà l’Apoteosi
di un giorno nuovo

palme solleveranno l’azzurro

mio brillante Mediterraneo
integrante

 

 

 

*Verso ripreso in omaggio a
Vittorio Bodini.

maria santoro

   
   
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