Marzo 2009

UN PRETE VERSEGGIATORE TRA OTTOCENTO E NOVECENTO A TAURISANO

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Il sacro e il profano
di Papa Tore Casto

Gigi Montonato

 

 
 

Rude e disinibito. Spesso i suoi versi, anche quando hanno esiti pantagruelici con inni al vino e a polli arrosto, tradiscono un’amarezza di fondo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel panorama della poesia salentina, in dialetto e in lingua, fra Ottocento e Novecento, don Salvatore Casto di Alliste (1853- 1936) è uno sconosciuto. Nel 1983 pubblicai su “Presenza Taurisanese”, numero di dicembre, tre sonetti sotto il titolo rubricale I Salmi di Papa Tore. Con questo nome, nei primi anni Ottanta, lo ricordavano ancora le persone più anziane di Taurisano, di dove era originario per parte di padre e dove era stato parroco dal 1° luglio 1900 al 1° marzo 1914.
In quell’anno, come si legge in una sua nota sui “Parroci che hanno retto la Chiesa di Taurisano”, «fu accettata la rinunzia e si ritirò in Alliste sua patria». Lui stesso, in alcuni suoi appunti, chiama «mio avo» un certo Paolo Casto di Taurisano (1).
Due dei citati sonetti, tematicamente contigui, hanno un unico titolo “Il duello” e raccontano con toni comico-burleschi di una singolar tenzone, che doveva tenersi fra il duca di Taurisano, probabilmente Luigi Lopez y Royo, e un non identificato suo avversario, che di fatto però non ebbe luogo, perché l’uno “Dopo un’orribil notte […] / Avea la faccia smorta e i pannilini / Tuttiimbrattati…”, l’altro, per prepararsi alla pugna, sapendosi incapace di scherma, dopo essersi messo a menar fendenti in casa con una spada, colpendo mobili, sedie e pareti, “Cadde sfinito, e così fu trovato // Dai suoi padrini i quali con essenze, / Dopo averlo dal sonno richiamato, / Risero molto delle sue imprudenze…”. La vicenda si concluse con una pubblica bugia, “Scontro avvenuto senza conseguenze”, per non offendere i permalosi signorotti locali e per accontentare le attese della gente che aspettava l’esito del duello.
L’altro sonetto ha per titolo “Trasfigurazione”. Con chiaro intento dissacratorio e blasfemo, l’autore riferisce un curioso episodio di vita clericale. Un prete, che egli chiama ossimoricamente “pazzo regolare”, nel giorno della Trasfigurazione, cui è intitolata la Chiesa Madre di Taurisano, entrò in chiesa e, postosi di fronte all’altare, con la schiena rivolta ai fedeli, “…a due mani l’abito talare / Si alzò di dietro con l’inclinazione, / Il deretano posesi a mostrare / A tutta quanta la popolazione”; poi, rivoltosi al pubblico, ammonì: “Non dite a chicchessia ciò che vedeste”. Un modo stravagante per spiegare al popolino ignorante il senso della Trasfigurazione di Nostro Signore, ma allo stesso tempo un rovesciamento del mondo secondo l’antropologo Bachtin in una sorta di estemporaneo carnevale, salvo che il giorno in cui si celebra la Trasfigurazione è il 6 di agosto (2).

Don Salvatore Casto era un personaggio caratterialmente assai vigoroso, un prete tosto, rude e disinibito, dal volto beffardo e lo sguardo obliquo, come appare in un ritratto, che alternava slanci devozionali a cadute di incredibile volgarità, molto preparato e colto, autore versatile e all’uopo raffinato. Parroco in un paese difficile, lacerato da rivalità perfino all’interno delle stesse famiglie dei litigiosi signori del luogo, conoscitore di vita, morte e miracoli delle famiglie bene del paese, di cui ha lasciato schede assai interessanti; non estraneo alle beghe politiche paesane, lui parteggiando per la cattolicissima famiglia ducale e in particolare per Filippo Lopez y Royo. Battagliero difensore degli interessi della Chiesa, anche materiali, rivendicò il possesso della Cappella di San Martino contro lo stesso Duca; non meno che di quelli spirituali, scrisse un libretto con lo pseudonimo di Nescius per impedire la collocazione sulla facciata della casa di Vanini di una lapide con la famosa epigrafe di Giovanni Bovio (3).
Un personaggio che, a voler scomodare nomi importanti, ricorda vagamente Francesco Berni, di cui dice Mario Marti «lo tentavano […] i toni ed i modi di una poesia popolare e popolareggiante nelle sue manifestazioni più giocose e beffarde […], nei quali si appagava la sua esigenza di concretezza realistica e dialettale e il suo connaturato desiderio di polemica» (4). Don Salvatore doveva ben conoscere il Berni, come tutta la tradizione realistico-giocosa della nostra letteratura. Ma il mondo di Papa Tore era tanto più povero e privo di prospettive, sostanzialmente autoreferenziale.
Compose in latino e in italiano, in dialetto e in lingua, in poesia e in prosa, testi agiografici e celebrativi, canti liturgici, inni religiosi, poesie encomiastiche d’occasione, poemetti burleschi, brevi satire, scherzi, parodie, canti e brindisi da chierici paesani, non insensibili alla buona tavola, accogliendo fra i contenuti letterari persone e fatti di cronaca del paese, non sempre riconoscibili, compiacendosi di un impasto linguistico, una sorta di pastiche, ora aulico e classicheggiante ora realistico e sboccato ed esprimendosi sul piano formale nei metri più vari del repertorio popolare, dalle quartine giambiche in settenari misti di sdruccioli e piani, ai distici di endecasillabi a rima baciata, ai doppi senari e ai doppi quinari. Unici elementi di nobiltà poetica gli inni religiosi (per genere e contenuto) e i sonetti (per forma metrica), a parte gli esametri e i distici latini, in cui si dice eccellesse ma di cui poco o nulla sappiamo.
Ove si eccettuino i componimenti sacri, la cui destinazione si giustifica nel tema, gli altri scritti e specialmente i satirici e i burleschi non fanno pensare ad un pubblico cui erano specificamente destinati. Probabilmente l’autore li faceva conoscere e circolare fra pochi; alcuni, specialmente quelli più bonariamente scherzosi, li rendeva al dedicatario, quasi sempre qualche altro prete della parrocchia, della diocesi o del circondario, coi quali era in corrispondenza; la gran parte restava per la sua personale intima soddisfazione.
Dei testi da me visti e in parte utilizzati, solo “Il duello”, “L’iscrizione lapidaria per Vanini” e “La vita di S. Quintino” (5) sono a stampa; gli altri sono manoscritti su fogli d’occasione, con una grafia minuta e regolare, bella davvero, che denota un carattere intimamente fermo, paziente e deciso, con poche correzioni e varianti. Si tratta di foglietti sparsi, ritagli di stampati parrocchiali riusati sul retro, di difficile riordino, sì che è arduo se non impossibile ricomporre certi testi nella loro dinamica compositiva, nella loro completezza e organicità; molti sono frammenti, non definitivamente rivisti e corretti dall’autore, senza titolo e a volte privi di punteggiatura, oppure prove di testi presumibilmente definitivi. Una produzione, insomma, di approssimativa sistemazione conoscitiva e critica. In don Salvatore Casto m’imbattei per caso. Avevo assegnato ai miei alunni una ricerca sul primo dopoguerra nei loro rispettivi paesi. Una ragazza di Alliste mi riferì di questo prete, che era stato parroco a Taurisano agli inizi del Novecento, che aveva l’abitudine di annotare quanto accadeva nel paese. Allora ero alla ricerca di testimonianze e di documenti sul noto eccidio di Taurisano dell’8 dicembre 1905, quando nel corso di una manifestazione contro il trattato del governo del giolittiano Alessandro Fortis con la Spagna, detto Modus vivendi, con cui per esportare manufatti delle industrie del Nord si favoriva l’importazione di vino a danno dell’economia agricola del Sud, ci furono incidenti di piazza e la forza pubblica sparò uccidendo una persona e ferendone altre (6).
Mi feci indicare la persona che custodiva le carte di don Salvatore, nella speranza di trovare scritta la sua versione sui tragici fatti di sangue accaduti; e così mi recai ad Alliste.
Era un pronipote, Gino Cazzato, il possessore, il quale mi mise a disposizione quanto aveva di quel lontano prozio prete. Non trovai quel che cercavo, ma chiesi di poter avere in fotocopia un po’ di quel materiale. Scelsi quello che, ad una prima lettura, mi parve più interessante; e mi fu gentilmente concesso.
Speravo di trovare notizie su cose e persone tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, anche di dimensione nazionale, sulle imprese africane, sulla guerra e sul primo dopoguerra, sull’epidemia della spagnola, sull’insorgere e l’affermarsi del fascismo. Erano anni importanti e ricchi di avvenimenti, di lotte politiche accanite, che videro impegnati gli esponenti locali del feudalesimo residuale abbarbicato alla chiesa e a non più legittimi privilegi, dopo che erano stati aboliti con le leggi eversive della feudalità un secolo prima, nel 1806, e della borghesia terriera ed umanistica più aperta, di tradizione massonica e di idee liberali e socialiste. Da un parroco colto e un osservatore attento c’era da aspettarsi di più, invece niente; nulla che aiutasse a capire meglio quanto accadeva in quegli anni in Italia, nel Mezzogiorno, nel Salento, a Taurisano. Fa eccezione un riferimento indiretto alla conquista della Libia, che, secondo lo storico Fabio Grassi, fu accompagnata e salutata con entusiasmo anche dal clero salentino. Nella poesia di encomio a Filippo Lopez y Royo, chiamato affettuosamente Don Pippo, per la riconquista della carica di sindaco,Si vis pacem pete bellum, teorizza che a volte la pace conquistata vale la guerra fatta per conquistarla, riferendosi ai tragici fatti dell’8 dicembre del 1905, quando i fratelli Lopez furono in forte conflitto ed ora finalmente, secondo lui, potevano essere augurabilmente in pace. E, in analogia di situazioni, scrive: “Se gl’itali eroi – non fosser marciati / Con petti marziali – di fulmini armati / Sull’aride spiagge – del libero suol; // Tra il grande e civile – Re nostro Italiano / Dei barbari Turchi – e il truce Sultano / Non v’era la pace – regnata fra lor”.
È un riferimento importante, che rivela un’intima condivisione di quell’impresa ma non un programmatico impegno a propagandarla. A Taurisano forse la situazione particolarmente disgregata non consentiva proiezioni esterne significative, mentre in molti paesi della provincia c’erano state manifestazioni civili e religiose in favore della guerra di Libia. In quegli anni il clero, anche quello dei nostri paesi, i cosiddetti“parroci di campagna”, erano molto impegnati anche sul fronte politico e “diverranno presto i veri protagonisti delle elezioni a suffragio universale” (7).
Don Salvatore, di famiglia agiata anche se non ricca, era un conservatore convinto, uno strenuo difensore della chiesa e di chi la sosteneva; attento avversario di quanti ne minacciavano il primato educativo e sociale. Quelli erano anni in cui sempre più prepotentemente si acuivano le rivendicazioni proletarie, guidate dai socialisti, che conquistavano i ceti artigiani attraverso le società operaie di “Mutuo Soccorso” e i contadini con le Leghe. Non mancavano a Taurisano professionisti culturalmente più aperti, di idee liberali e qualche volta frammassoniche, come gli Stasi, i Corsano e i Pennetta, ma erano frenati nelle loro proiezioni esterne e sociali dai loro interessi di classe (8).

Taurisano (Lecce):Particolare della facciata della Chiesa della Madonna della Strada (XIII sec.). È uno dei più importanti esempi di architettura romanico-pugliese
del Salento. - Nello Wrona
Taurisano (Lecce):Particolare della facciata della Chiesa della Madonna della Strada (XIII sec.). È uno dei più importanti esempi di architettura romanico-pugliese del Salento. - Nello Wrona

Quanto alle lotte politiche locali, che si svolgevano fra le famiglie dei signori e qualche volta all’interno di esse, specialmente nel periodo taurisanese di don Salvatore, questi per prudenza preferiva tenersi da parte.
Solo nel 1912, col ritorno a sindaco di Filippo Lopez y Royo, nel tentativo di una pacificazione generale, si espose con una serie di componimenti encomiasticoadulatori, ma finì per rendersi ostile l’ambiente e di lì a due anni, nel 1914, preferì tornarsene nella sua Alliste. Dove morì nel 1936 all’età di 83 anni.
Nella difficile ricostruzione di un percorso culturale, latamente letterario, i cui materiali si presentano alla rinfusa, come se fossero di risulta in un cantiere abbandonato, non controllati né selezionati dall’autore, saccheggiati e comunque dispersi, lo studioso deve rimuovere preliminarmente un ostacolo di ordine morale e rispondere ad un quesito: fino a che punto è lecito violare la privacy di uno scrittore mettendo in pubblico prodotti letterari che forse lo stesso non pensava di far conoscere, sicuramente non in quello stato e in quella forma?
La risposta sta nella duplice esigenza di ogni autore, che per un verso è estremamente scrupoloso, fino a crearsi problemi perfino in presenza di un innocente refuso tipografico,
per un altro è altrettanto vanitoso e, a fronte di rimanere oscurato per sempre, preferisce affidarsi all’onestà dello studioso e confidare in ultima analisi nell’intelligenza del lettore. Nel parlare di don Salvatore Casto, nelle condizioni proibitive di selezione e di ricostruzione dei suoi testi, e nella consapevolezza dell’esiguità del materiale a disposizione, ho scelto la seconda opzione, ponendomi da tramite virtuale fra l’autore e il pubblico e “fidando” – io questa volta – nella comprensione dell’uno e dell’altro.
In un secondo momento lo studioso deve rispondere al ben più importante quesito di merito, ossia quale valore attribuire a dei materiali sostanzialmente grezzi, nella duplice ipotesi, di un progetto letterario o, più verosimilmente, di espressione di una condizione esistenziale. In un ambiente povero ed emarginato, come era Taurisano nei primissimi anni del Novecento, con un fortissimo tasso di analfabetismo fra la popolazione, superiore al 90%, dove non c’era un pubblico cui destinare un prodotto letterario qualsiasi, fuori da una ristretta cerchia di signori e di qualche artigiano autodidatta e fuori dal compito educativo-religioso, proprio di un sacerdote, io escluderei il progetto e parlerei senz’altro di una condizione; nello specifico di quella di un parroco colto, conscio che la sua capacità letteraria poteva essere opportunità di prestigio e di rispetto, soprattutto fra “gente altera”, per dirla con Francesco Petrarca, e che al più poteva servire alla causa religiosa. Ma anche, a leggere certi testi, si ha l’impressione che il suo esercizio letterario fosse una valvola di sfogo di un risentimento che si concretizza a volte in versi inspiegabilmente volgari e gratuitamente triviali nei confronti di un ambiente in cui non si sentiva compreso, in cui non si poteva realizzare appieno secondo le sue potenzialità, che avvertiva notevoli e importanti.
Il rischio che si corre, tuttavia, è di dare un’immagine falsata o ridotta di un personaggio, che merita, invece, la massima considerazione. Ma va da sé che uno storico parla per documenti, fonti e testimonianze, che quanto sostiene è calibrato solo su quelli; che l’esistente utile per qualsiasi analisi può essere poco o molto, ma deve essere sempre certo.
Lo studioso non può fare congetture e perfino quando utilizza fonti orali non documentabili, i tacitiani rumores, lo deve fare con estrema cautela, cercando riscontri attendibili. Nel caso di don Salvatore il materiale è poco, indiscutibilmente parziale e leso; perciò resti in chi legge una legittima riserva e speri che venga fuori altro materiale, per completarne o arricchirne la conoscenza, o chissà, per correggerne il profilo.
Qui si parla di ciò che si sa; e non è che una piccolissima parte.
A cavallo fra Ottocento e Novecento, il tempo di Papa Tore Casto, ci furono in tutto il Salento molti poeti dialettali. «La vita cittadina – scrive Donato Valli – con i suoi problemi di fine secolo, con il suo riassetto edilizio, con i primi segni di una pressante e controversa modernità (il gas, la luce elettrica, il tram), con i suoi contrasti politici ed ideologici tra destra e sinistra liberale, con i funambolismi e trasformismi del notabilato locale, con i conflitti tra presenza intellettuale laica e invadenza ecclesiastica, con la sua vita minuta nelle antiche piazze o nelle osterie, con le sue serate nei teatri o nelle incipienti prove del cinematografo, con le chiacchiere e le maldicenze dei circoli o delle associazioni, con i suoi chiaroscuri di miseria e nobiltà, di povertà e di beneficenza, di malattia e di fame, con le sue feste e i suoi funerali, forniva inesauribile materia di esaltazione o di disperazione, di rimpianti o di speranze, di nostalgia o di tristezza. Così la società di fine Ottocento e di primo Novecento entrava a pieno titolo nei versi dei poeti dialettali fondendo il realismo proprio nella matrice popolareggiante con un’iniziale vena di malessere esistenziale soggettivo, condito di ironia e di amaro sorriso» (9).
È, questa che dice Valli, una poesia dialettale importante, che, secondo il critico tricasino, aveva in Lecce, Ostuni e Gallipoli, le aree di produzione, dove si svolgeva una vita politica,
culturale ed economica vivace e produttiva. Questi poeti avevano una coscienza letteraria e perpetuavano una tradizione lungo una necessaria evoluzione tematica, stilistica e lessicale. Ma ve n’erano altri, verseggiatori più che poeti, ingiustamente trascurati, pur dotati di una certa cultura, che, per trovarsi in luoghi ancor più periferici, di scarse risorse
culturali e di nessuna tradizione letteraria, si esaurivano nel bozzetto, nello scherzo, nel racconto cronachistico in versi, spesso al solo scopo di testimoniare qualcuno o qualcosa o per far divertire chi poteva ascoltarli. Si può dire che in ogni paese ce ne fosse uno, quasi figura canonica di cantore, immancabile in tutte le occasioni, nascite, battesimi, cresime, matrimoni e morti, accanto a quella del medico e del prete; una specie di mestiere aggiunto non retribuito. Essi non sempre avevano un’adeguata coscienza letteraria né la consapevolezza di poter svolgere una funzione sociale importante; non c’era quasi nessun collegamento né fra di loro né con l’esterno, erano tagliati fuori da ogni circuito culturale; molti risultano ancora completamente o pressoché sconosciuti.
Papa Tore era uno di questi, solo perché si trovò a vivere a Taurisano e ad Alliste, dove non c’erano né risorse importanti né stimoli. Conosceva molto bene la poesia classica, greca e latina, e quella italiana; di alcuni autori aveva assimilato la versificazione; dei comico - realisti e dei giocosi in particolare. Gli studi in seminario gli avevano fornito dimestichezza nell’innologia; la sua innata verve polemica si era nutrita della lettura dei satirici. Echi del Giusti sono presenti nei suoi versi giambici, in doppi quinari e doppi senari, negli endecasillabi in distici a rima baciata, che nel poeta pistoiese trovavano altra soluzione strofica. Negli inni e nelle preghiere si sente l’aria del Manzoni; nei testi più gravi è forte la presenza del Carducci. Nei testi giocosi e parodistici, dissacranti e blasfemi, sono avvertibili gli echi dello Stecchetti e del Cavallotti. Le agili quartine in settenari gli consentono di esprimere sentimenti e modi popolareschi.
Aveva una spiccata inclinazione al verso e alla rima, che a volte, però, sembrano prevaricare i contenuti piuttosto generici e deboli, che funzionano a sostegno di una verbosa colloquialità. Ecco, per esempio, una serie di zeppe nell’epistola in versi “Mio Parisi e Tronocari”: “Or sentite la questione / Poi direte s’ho ragione // Era il dì di San Giovanni / Quand’io stretto nei miei panni // Silenzioso contemplava / La giornata che passava // Ecco piomba all’impensata / Una lettera garbata // Apro leggo e senza noia / Manifesto la mia gioia”.
Fra i compiti che finisce per avere un verseggiatore di paese c’è quello che lo rende popolare quanto una volta il dottore (medico) e lamammana (levatrice) e don Salvatore si prestava anche a comporre epigrammi e madrigali per nozze e nascite. Ricordi famigliari vogliono che egli fosse in corrispondenza in latino con altri sacerdoti salentini e pugliesi e addirittura con la curia pontificia.
Può darsi che si tratti di esagerazioni, ma un fondo di verità è riscontrabile in qualche suo componimento in latino, a conferma della sua versatilità. Cosa riferisse nelle lettere sarebbe dato saperlo solo in presenza di un loro rinvenimento e lettura, che al momento si può solo ipotizzare. Mancò totalmente in lui, per pessimismo o ingenuità, la consapevolezza di poter essere un giorno letto e criticato e pertanto non si curò di apparire nei modi più convenienti.

Nello Wrona
Nello Wrona


L’approccio che don Salvatore aveva con la poesia, ma ancor più la sua produzione, pur con le riserve e le cautele già espresse, consente di definire la sua una poetica della paesanità: ora è grave nei temi e classicheggiante nella forma (è il caso di quella sacra); ora è greve, giocosa e popolare (è il caso di quella comico-burlesca). Sia l’una che l’altra mancano di autentica ispirazione, rispondono a necessità immediate, a volte importanti, come le composizioni religiose, a volte frivole e d’occasione, sfuggono a criteri letterari.
Don Salvatore non tratta i temi canonici della poesia, come l’amore, il dolore, la nostalgia, la fede; né temi sociali, come la famiglia, l’educazione, la morale, la giustizia, l’emancipazione, la solidarietà; e neppure intimistici, come la solitudine, l’emarginazione, la noia; non ha una concezione civile della poesia, non crede che essa possa servire alla crescita del popolo, che anzi, per il bene generale, ritiene debba rimanere nell’ignoranza e nella sottomissione; né affida a lei il compito di testimone privilegiato di un’epoca e di un ambiente umano e sociale. Perfino il suo rapporto stesso con la poesia appare di odio-amore. La considera una risorsa, che, però, non gli frutta che una condizione di amarezza: non soldi, non prestigio, non fama, non un pubblico a cui rivolgersi e dal quale essere apprezzato. Spesso i suoi versi, tematicamente circoscritti, anche quando hanno esiti pantagruelici con inni al vino e a polli arrosto, tradiscono un’amarezza di fondo, come in questa epistola dialettale in versi all’amico Leone (Nino) Trono, prete come lui: “Quannu te ssetti an taula / Nferrate lu bicchieri / Saluta tutti e chiamali / Signori e cavalieri. // E di’: allu Simminariu / Aggiu studiatu sulu / E mo alla facce voscia / Stu nziddu me lu sculu”.
Già ci sarebbe da riflettere sul fatto che l’orizzonte di un poeta, della cultura e dell’impegno di Papa Tore, si limiti ad inni sacri e a libagioni profane, pur in una cornice di
impegno sacerdotale e di sincera solidale amicizia.
Relativamente ai testi che abbiamo, escludendo quelli in prosa e in latino e comprendendo testi in dialetto e in lingua, nella produzione poetica di don Salvatore Casto possiamo definire quattro aree tematiche: la religiosa, la giocosa, l’encomiastica, la polemica, tutte collocabili in una cornice di socialità paesana. Nella prima comprendiamo gli inni e le preghiere ai santi, in impegno sacerdotale e devozionale; nella seconda gli scherzi e le burle, in allegra gaudenza; nella terza i peana al potente locale di riferimento, in comunanza
di fede e in sudditanza sociale; nella quarta polemiche quasi sempre interne al mondo ecclesiastico. Ad ognuna di queste aree si riconducono termini delle corrispettive aree semantiche, benché non sempre con motivazione e rigore, per improvvise e inattese cadute e dissonanze.
Nell’area religiosa abbiamo solo testi in lingua, quasi che l’autore non ritenesse il dialetto adeguato ad esprimere sentimenti religiosi e lo considerasse buono solo per lo scherzo poetico. Si era lontani dalla poesia dialettale riflessa e sostanzialmente estranei, nel caso di don Salvatore, ai temi e ai bisogni più diffusi e avvertiti dalla società. È, quella religiosa, l’area più coerente e sentita, in cui l’autore stabilisce il rapporto fra Santo e paese, in una sorta di campanilismo devozionale: “Di Cristo atleta acerrimo / Difendi Taurisano / Dall’oste e a larga mano / Porgi favori ognor. // […]. // Al Dio supremo ed unico / Sciogliam di gloria un canto / Ché Stefano gran Santo / In pegno a noi lasciò” (Inno a Santo Stefano).
Negli inni – ne abbiamo per Santo Stefano e San Vito – il legame santi-devoti è stabilito dall’autore in chiave feudale, su basi di una totale subordinazione-dedizione “Santo- paese” in una sorta di profano parallelismosignori-popolo. Straordinario identico approccio si nota in alcuni componimenti encomiastici del Nostro nei confronti del sindaco Filippo Lopez y Royo. Nell’ Inno a Santo Stefano si legge: “Ai pié del nostro Stefano / Fidenti ricorrete / Voi che da Dio volete / Sollievo ed ogni ben”. E nell’Inno a San Vito don Salvatore è corale nella richiesta di protezione: “Vito accorre ai furiosi / Da’ soccorso ai tribolati / Fuga i demoni spietati / Salva i ricchi e bisognosi”. Stessa coralità per Don Filippo: “Una in tutti sia la mente / Una in tutti sia la voce / E nel bene dolcemente / Don Filippo salutiam” (Et nunc cur tibi).
È anche, la produzione sacra, formalmente la più riuscita, lessicalmente la più efficace, ritmicamente la più musicale, come conviene al genere dell’inno sacro, concepito per essere musicato e cantato.
Le altre tematiche sono meno coerenti e attraversate tutte da un disagio che a tratti si fa incontrollato risentimento quando trova sfogo in un turpiloquio rivoltante più che in un lessico licenzioso. Nell’area giocosa, che è la più vasta e la più congeniale all’esprit curieux del nostro prete, troviamo componimenti sia in dialetto che in lingua. In genere sono brindisi per augurali libagioni alla vita povera ma allegra, in compagnia di altri prelati, nella tradizione dei clerici vagantes medievali, ma limitantisi nel Nostro alla mangiata e alla bevuta. Altre volte sono brindisi augurali a degli sposi: “Prosit, e il sacro vincol benedetto / Sia lieto e per lunghi anni in pace stretto”; “Prosit… e presto fia che ai vostri piedi / Danzino a coppia fortunati eredi”; o brevi blason: “Nata d’ignoti / Fusti d’amore / Sono Consiglia / Maria Belfiore”.
Un giocoso Inno alla miseria rivela nel Nostro momenti di partecipazione popolare e di bonaria quanto rara denuncia sociale, nel tentativo di devitalizzare la protesta e ricondurla nella cristiana rassegnazione resa gradevole dallo scherzo letterario intenzionalmente ludico col refrain “Miseria crudele…” fra strofa e strofa: “L’inverno se ne viene, / Le scarpe son bucate, / Son tutte rattoppate, / Non voglion più entrar. // Miseria crudele, / La prendi con me; / Miseria crudele, / Mi fa delirar. // Ho preso un gran catarro, / Sapete voi perché? / Per l’acqua che mi entra / Per buchi trentatré”.

[1. continua]

(1) - CASTO don Salvatore, Parroci che hanno retto la Chiesa di Taurisano, dal 1661 al 1914, in “Carte inedite” (Archivio Storico di Presenza, d’ora in poi ASP). Don Salvatore era figlio di Pasquale, a sua volta figlio di Paolo da Taurisano. Questi era suocero del Conte Francesco Castriota Scanderbeg (Napoli 1841-Taurisano 1905), che ne aveva sposato la figlia Rosa, dopo aver convissuto con la stessa per molti anni. Don Salvatore era perciò nipote del Conte Francesco.
V. LAPORTA Alessandro, Il Conte Francesco Castriota Scanderbeg: un Sindaco garibaldino in un comune del Salento, in “Lecce e Garibaldi”, Cavallino, Capone, 1983.

(2) - BACHTIN Michail, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale (1975), Torino, Einaudi, ed. 2001, pp. 524.

(3) - NESCIUS [CASTO don Salvatore], L’iscrizione lapidaria per Vanini. Una Lucciola fra splendidi Pianeti ossia Dialogo fra un Clericaletto ed un Vaniniano in una riunione di altri Vaniniani (in Lecce), Lecce, Tipografia Cooperativa, via Giuseppe Palmieri, 1908, p. 16.

(4) - MARTI Mario, Francesco Berni, in “I minori”, Milano, Marzorati, 1960; poi in Dal certo al vero, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1962, pag. 215.

(5) - La vita di S. Quintino Martire. Estratta dalle Opere del Padre G. Croiset. Stampata per cura del Sacerdote Salvatore Casto – ad uso dei Divoti del miracoloso Santo - Protettore di Alliste, Matino, Tipografia Donato Siena 1930, p. 6 n.n.

(6) - PONZI Luigi, Taurisano, 8 dicembre 1905, Immacolata di sangue, “Presenza Taurisanese”, Dicembre 1983, pagg. 5-7; MONTONATO Gigi, Il sangue del Sud. Cento anni fa gli scontri di Taurisano, “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 9 dicembre 2005.

(7) - GRASSI Fabio, Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, Bari, Laterza, 1973, pagg. 17-21.

(8) - DE MARCO Mario, Profili biografici di Massoni Salentini. Testi e documenti, Lecce, Edizioni del Grifo, 2007.

(9) - VALLI Donato, La poesia dialettale nel Salento, in “La poesia dialettale pugliese del Novecento”, Atti del Convegno di San Marco in Lamis, 18 gennaio 1999, a cura di Giuseppe De Matteis, Foggia, Edizioni del Rosone, 2000, pagg. 66-67.

 

 

   
   
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