Marzo 2009

RIBALTA PER GIOVANNI BERNARDINI

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I bruchi ovvero il ragazzo
in fonDo al mare

Luciano Graziuso

 

 
 

Profondo mare. Un’infiorescenza marina fra due scogli, mossa dalla corrente delle onde, può benissimo accostarsi alla chioma fluente di un ragazzo: nasce e si sviluppa tutto da qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per chi, e io sono fra questi, ben conosce da vicino Giovanni Bernardini e tanti particolari della sua vita, tutt’altro che burrascosa, e del suo modo di pensare e di comportarsi («da gran signore dei tempi antichi»), molto godrà, leggendo questo libro (I bruchi ovvero il ragazzo in fondo al mare, Manni editore), nel comparare realtà e invenzione.
Perché, indubbiamente, delle verità ci sono, ma da queste “partenze reali” la fantasia d’un tratto s’impossessa e deforma la realtà di prima e divaga e dilaga, quasi l’Autore non fosse più coi piedi per terra e si facesse portare dal suo amato “ippogrifo”, a suo esclusivo piacimento.
Non c’è una data, ma queste sono quasi tutte riconducibili al nucleo centrale degli anni della Seconda guerra mondiale (1940-‘45) e partono dal 1923, che è, per chi non lo sapesse, l’anno di nascita del Narratore. Non troviamo indicate località geografiche, anche se facilmente ci si può accorgere che la città degli studi non può essere che Firenze e che il fiume non può essere che l’Arno, e così via.
Chi gli è stato più vicino identificherà in qualche modo e per qualche tratto il figlio del Generale o la collega di studi, Tea, o gli parrà d’intravvedere qualche illustre docente del tempo (tacendone sempre la disciplina d’insegnamento o cambiandola).
Rivedrà forse la piazza delle esercitazioni (Piazza del Carmine) o qualche momento del “Campo d’Arma” degli Allievi Ufficiali sulle pendici dell’Appennino tosco-emiliano. Rivedrà la pasticceria nei pressi dell’Università, dove si mangiavano sei dolcetti e se ne pagavano, mentendo, solo tre o quattro.
Si accenna, nel libro, a due pittori, e, per chi è al corrente sulla materia, non è difficile riconoscerli: Modigliani e Pignatelli.
Ma poi il lettore salirà anche lui sull’ippogrifo e si farà condurre, per lungo e per largo, nel tempo e nello spazio.
Sono questi i momenti, assai frequenti, di chiara impronta surrealistica, intorno ai quali ironicamente sorride compiaciuto il Narratore, ma anche noi con lui, e, se ci fosse vicino, gli chiederemmo: «Giovanni, ma cosa dici mai?».

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Nello Wrona


Così, per esempio, non può sfuggire il primo – clamoroso – travestimento, che apre la strada a tutti gli altri, quello dell’essersi dovuto chiamare Anselmo, “elmo di Dio”; presagio smentito – ironia della sorte! – al primo fantomatico scontro armato, da cui egli, nonostante il nome, esce con la testa rotta. Quest’ironia fa strage irriverente di miti e personaggi ad ogni piè sospinto: con la caricatura del Fascismo (mai chiamato col suo nome); col ritratto di Sua Maestà, chiaramente visibile in un Generalissimo nanerottolo; col Generale, padre dell’amico Pepe, il cui specifico vanto consiste nell’aver bevuto piscio di cammello; la guerra “guerreggiata” viene evocata infinite volte col suo immancabile fardello di immani disastri e inutili sacrifici.
Un’ironia pacata, però, quasi sorridente, mai sarcastica e sprezzante; in fondo... quelli erano i tempi e quelle erano le persone. Queste cose e molte altre sembra capirle, anche se a modo suo, lo “zio scemo”, che in una società di pazzi che si credono saggi è – lo “zio scemo” – il più saggio di tutti. Dei vari personaggi minori del libro, ci vorrebbe sull’argomento un lungo e articolato approfondimento; ma questo – lo zio – è uno dei meglio tratteggiati.
Passiamo ad un’altra costante del libro, quella delle ossessioni, già anticipate nel doppio titolo, a sua volta oggetto di precedenti prove narrative: i bruchi, ossia, e il ragazzo in fondo al mare.
Questi bruchi sono il male dell’universo e come tali ce li troviamo sempre accanto e di fronte o dentro di noi, nel nostro stomaco addirittura, a torturarci di continuo. Bruchi sono quelli che in dialetto chiamiamocannedde e che anche in dialetto possono per metafora assumere il significato di “pensiero che rode fisso”, come giustamente avverte il Rohlfs.
Con esagerato senso di surreale ironia saranno stati certamente i bruchi a rosicchiare, far crollare e dissolvere nel nulla tutt’intera una galleria ferroviaria sull’Appennino, che i nostri avrebbero dovuto sorvegliare e difendere. Potenza dei bruchi!
E quel ragazzo in fondo al mare? È un lavoro di fantasia, cui – a forza d’insistere – si può finire col credere: quanti scogli hanno preso il nome di qualcosa che loro assomiglia (tipo “Le due sorelle” di Torre dell’Orso); quante volte abbiamo raccolto un ciottolo in riva al mare, perché assomigliava a questa o a quella forma?
Un’infiorescenza marina fra due scogli, mossa dalla corrente delle onde, può benissimo accostarsi alla chioma fluente di un ragazzo: nasce e si sviluppa tutto da qui. Altra ossessione che attanaglia il Nostro è la sua modesta statura; se ne fa un cruccio continuo (almeno così pare, leggendo), cui cerca di rimediare con una serie di stratagemmi diversi, per noi uno più curioso dell’altro. Qui si tratta di autoironia, fenomeno piuttosto raro, perché, come Esopo insegna, sulla pelle degli altri ci piace ridere e scherzare, ma sulla nostra la cosa non è tanto gradita.
Giovanni invece inventa addirittura un contrappasso a tale suo deficit di altezza, perché i suoi due gemelli della fantasia sono – ahimè! – degli spilungoni, troppo alti, e forse anche loro, ma per il motivo opposto, risultano parimente angustiati. Ma un’altra domanda ci proponiamo, leggendo:come mai la presenza insistita e come voluta di tante voci, che i ben pensanti potrebbero giudicare come “triviali”? Diciamo intanto che quest’aggettivo, come si sa, deriva da trivio, “incontro di tre strade”, e perciò luogo di confluenza e di scambi e di diverse voci. Con fregio di nobiltà erano dette del trivio le prime tre arti del sapere medioevale: grammatica, retorica e dialettica (le altre erano dette del quadrivio); ma in seguito l’aggettivo derivato triviale venne come rifiutato dalle arti e assunto nel significato deteriore, che tuttora permane.
Anche l’aggettivo volgare ha una storia più o meno consimile: volgare era semplicemente la lingua del volgo che non conosceva il latino, la lingua per eccellenza; ma poi si lasciò da parte la contrapposizione latino/volgare e il significato peggiorò e tale rimane anche oggi. È chiaro che le parole volgari, usate da Dante e nel suo tempo, erano volgari sì, ma solo perché erano diverse dal latino.
Ciò premesso, precisiamo anche che alcune delle parole sotto processo nel lessico bernardiniano possono essere assolte perché le ha usate Dante nel suo divino poema (Inf. XXI, 139; Inf. XVIII, 133; e Purg. XXXII, 149; Purg. VI, 68).
Ma tutte le altre? Ci saranno dei motivi forse a noi sconosciuti? Certamente possiamo affermare che Giovanni non è affetto da coprolalia, né usa a caso le parole; anzi, certe volte pare che le distilli con molta accortezza.
Se usa quindi spesso tali voci sarà perché egli non sa sottrarsi al richiamo del realismo letterario (quello dello spirito, più che quello storico), per cui le cose vanno dette, anche sulla pagina, così come “corrono” sulla bocca dei parlanti (di alcuni parlanti e in alcune occasioni): sarà anche perché egli con le parole, come con i personaggi e le diverse situazioni, vuole divertirsi.
Quest’armamentario lessicale è risorsa e riserva per un particolare divertissement, come aveva già notato Ennio Bonea, che nell’introduzione a Parapagliapiglia faceva il nome di Palazzeschi. Che egli poi sappia scegliere e distinguere tra parola e parola con lo stesso significato ci dà più di una volta prova: nel più esplicito dei modi egli lo fa a pag. 75, a proposito delle varie espressioni per indicare il luogo dove... si va a deporre. Lontano, in questi casi, dall’annoiarci con dotte disquisizioni, come invece sogliono fare i linguisti (noi... linguisti!).
Indubbiamente un gusto ludico permea tutte le pagine; in questo gioco molto ci sarebbe da dire sull’invenzione di nomi propri, cognomi e soprannomi; scelta o invenzione, come quelli di ipotetici comitati rionali che firmano: Silòche o Scùmmari, Strùmmoli, Strovèri, Picùni... Se non annoio, dirò che Silòche nel Dialetto dei soprannomi salentini (sempre del Rohlfs) indica le vedove e il loro vestito e nel si-loche (si loca) è suggerita la disponibilità della vedova (libera, come un’abitazione) a cambiare stato civile. Scùmmari è la voce dialettale per l’italiano sgombro, un pesce; Strùmmoli sono in dialetto le more; Picùni è cognome calabrese e indica il piccone; Strovèri non so bene individuarlo... (pag. 145).
Si può anche ricordare, sempre in questo campo, il nome dell’infermiere, uno degli infermieri dei Coppi Rossi: Lord Strunz: che poi tanto inverosimile non pare, se così si chiamava davvero qualche anno fa un calciatore tedesco: Strunz, proprio così, se ben ricordo.
Brutto, ma vero! Meno probabile mi sembra che l’Autore si sia servito di tali voci per seguire la moda; perché oggi, televisione insegna, tutti ormai ne fanno largo uso, anzi guai ad astenersene. No, Giovanni Bernardini non è un conformista e rifugge da tali atteggiamenti e comportamenti.
Io, per conto mio, non le avrei usate, proprio perché penso che se ce ne sono tante in giro, un po’ di... astinenza non farebbe male, almeno sulla pagina. Ma io non sono uno scrittore, e questo è un altro discorso. In contrapposizione c’è però anche da osservare che compaiono voci ed espressioni dotte o altamente qualificate sotto il profilo linguistico: fantolino, per esempio, pulzella, ancillare, propinquo, nascimento, inseminato, defungere, reperto, voluttuoso... Ma anche in queste dotte occorrenze il tono ironico non sfuggirà all’attento lettore.

Una voce letteraria, ormai desueta, è consobrina (al maschile consobrino, dal latino consobrinum), che vuol dire, semplicemente, cugina; ed è da notare che uguale etimo latino conserva l’analoga forma del dialetto salentino, crussupinu, anch’essa ormai poco usata. Destino delle parole! Le sfaccettature linguistiche sono molteplici: vi confluiscono altri dialetti, con il latino (motu proprio e ante omnia, per esempio), un po’ di francese, un approssimativo africano (dei Pellineri!), l’indefinibile giargianese, già incontrato in Carmine Cucigliato. I ricordi dai classici fanno anch’essi capolino: da qualche richiamo virgiliano (Didone) a Dante, Boccaccio, Machiavelli, fino ai più moderni Ungaretti e Palazzeschi (Garofalo e Bavecchi/Vetri, cristalli e specchi, p. 131); in qualche passo la memoria ci fa pensare per un momento al Deserto dei Tartari di Buzzati o a Le libere donne di Magliano, di Tobino...
Questo e altro; che dire, poi della sua prosa scorrevole, limpida e armoniosa, specie in certi incipit ed explicit di alcuni capitoli?“Una lezione di stile” e, forse, così è detto tutto.
Grandi amici salentini a Firenze eravamo in tre: siamo rimasti vicini anche dopo; purtroppo
Michele Tondo, passato a Bari in quella Università, è morto da qualche anno e non si è potuto deliziare leggendo quest’ultima fatica dell’amico Giovanni. Ma qui si coglie l’occasione per ricordarlo caramente.

   
   
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