Marzo 2009

L’ANTICO CHE PLASMÒ IL MEDIOEVO

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La Puglia matrice
della lingua figurativa

Tonino Caputo
Cesare Carabellese Franco Maggi

 

Coll. Ferruccio Dimitri
Olindo Rea
Gerardo De Sena
 
 

È sugli esempi della classicità che poggia le sue fondamenta la lingua figurativa degli italiani; quella che dopo Giotto porterà a Masaccio a Piero della Francesca, a Raffaello, a Tiziano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Castel del Monte, che corona la Puglia, è l’ottagono più affascinante (e misterioso) del mondo, con il suo corpo turrito che svetta in cima alle colline che degradano verso il mare. A volerlo così imponente e così classicamente armonioso fu il “Puer Apuliae”, Federico II Hohenstaufen, Re e Sacro Romano Imperatore. Gli anni di Federico – il sovrano che parlava tutte le lingue del Mare Nostrum, oltre al tedesco; che si circondava di un esercito che concedeva l’onore della retroguardia a un manipolo di fedeli pretoriani saraceni; che amava il Sud della Penisola, e in particolare la Puglia e la Sicilia; che si occupava di Diritto Romano, di Scienze Naturali e di tutte le Arti, ma anche di cavalli e di falconi addestrati per la caccia– furono splendidi per il Mezzogiorno. Il classicismo federiciano (l’idea laica, coltivata dallo Svevo, di una romanità da onorare e da recuperare; lo stile figurativo che ha avuto le sue manifestazioni più rilevanti nel cantiere di Castel del Monte, ma anche a Capua e nella Palermo trilingue, dove si parlavano latino, greco e arabo) sta alle origini del Rinascimento toscano, e poi italiano.

Un particolare
della facciata della Cattedrale di Trani (XII secolo).
Un particolare della facciata della Cattedrale di Trani (XII secolo).


Come insegna la vicenda di Nicola Pisano, autore nel 1260 del pulpito nel Battistero di Pisa. Infatti, la prima formazione di questo grande artista, più volte citato come “de Apulia” (fu originario di Bitonto?) era avvenuta nell’ambiente culturale, programmaticamente antichizzante e classicista, di Federico II. Si può dire che in Nicola Pisano «il classicismo o il sentimento dell’antico non contraddice ma si sviluppa di pari passo con il modernismo o il sentimento drammatico del presente» (Argan).
Di fatto, con Nicola Pisano e con il fiorentino Arnolfo di Cambio (plasticatore, ma anche architetto: suoi sono i progetti del Palazzo Vecchio e di Santa Maria in Fiore) la lingua figurativa degli italiani può dirsi formata e ha già una sua riconoscibile identità. All’inizio nella scultura e nell’architettura. Più tardi anche nella pittura. È una lingua che nasce dalle ceneri della civiltà classica, che si lascia contaminare e plasmare dagli idiomi romanici e protogotici di Francia, che sceglie di essere naturalistica aderendo con pronta determinazione alla rappresentazione del vero visibile, senza tuttavia dimenticare quei criteri di ordine, di proporzioni, di decoro formale che rimarranno caratteri distintivi nella storia artistica dell’Italia.
Riepiloghiamo, analizzando. “Pisano” è denominazione comune di quattro scultori attivi nei secoli XIII e XIV. In ordine cronologico, Nicola fu il primo. Operò in Toscana e in Umbria nella seconda metà del 1200, e fu iniziatore della scuola pisana. Quando, nel 1260, egli iscrisse il nome sul pulpito del Battistero (…hoc opus sculpsit Nicola Pisanus…), si dimostrò già maestro grande e originale,sicché la data della sua nascita sembrerebbe porsi intorno al 1225. Oltreché “Pisanus” o “de Pisis”, due volte si disse anche“de Apulia”, dunque fu oriundo pugliese. Infatti è stato sottolineato come nell’Italia meridionale, nell’epoca di Federico II, la scultura avesse raggiunto un alto grado di vigore plastico, con forme fortemente ispirate a modelli classici (le sculture di Castel del Monte o della Porta di Capua), che possono sembrare persuasivamente come precedenti dell’arte di Nicola.
Allo stesso modo è stato messo in rilievo che la struttura dei pulpiti meridionali (ad esempio, di Salerno o di Sessa Aurunca) si avvicina molto di più a quelli di Nicola che non a quella dei pulpiti toscani. Ma in nessuna di queste sculture meridionali si riscontrano l’impulso rinnovatore, l’originalità d’interpretazione dei modelli classici, che fa così grandi e nuovi i pulpiti di Nicola. E del resto, in Toscana stessa non mancavano né le sopravvivenze di opere classiche né opere recenti che ad esse si ispirassero: quali i rilievi della porta del Battistero di Pisa. E per di più – circostanza fondamentale – il Nord era stato recentemente teatro del gran fiorire dell’arte romanica antelamica, che aveva parzialmente investito anche l’area toscana, in particolare Lucca. Mentre proprio in Puglia si era diffuso un particolare stile romanico, che aveva sostituito la pittura con la scultura, con l’esempio insuperato della Cattedrale di Ruvo.

Rivolto ad Est, di fronte al punto in cui sorge il sole in coincidenza degli equinozi di primavera e d’autunno, il prospetto principale
di Castel del Monte (Andria). - Archivio BPP
Rivolto ad Est, di fronte al punto in cui sorge il sole in coincidenza degli equinozi di primavera e d’autunno, il prospetto principale di Castel del Monte (Andria). - Archivio BPP


L’arte di Nicola, che emerge con forme nuovissime, si mostra tuttavia nutrita di un’alta aggiornatissima cultura, per cui si giustifica che siano state viste nel suo stile conoscenza e assimilazione di forme classiche, analogie con la scultura meridionale federiciana, rapporti con l’arte romanica lombardo-toscana, intriganti echi perlomeno mnemonici dell’abilità operativa (in architettura, ma soprattutto nella scultura) diffusa dagli artisti-artigiani autori degli “exempla” romanico-pugliesi; ma in definitiva è da vedervi una piena e precocissima partecipazione alla nascente civiltà gotica: la figura di Nicola, dunque, sta all’apertura dell’età gotica in Italia con soluzioni di colpo mature e originalissime, da cui prenderanno le mosse tutti gli artisti, pur grandi e ricchi di personalità, che verranno dopo di lui, primi fra tutti gli altri Pisano, Giovanni, Andrea e Nino, oltre allo stesso Arnolfo di Cambio.

Il Pergamo del Duomo di Siena.Realizzato tra il 1265 e il 1269, è considerato uno dei capolavori di Nicola Pisano. - Archivio BPP
Il Pergamo del Duomo di Siena.Realizzato tra il 1265 e il 1269, è considerato uno dei capolavori di Nicola Pisano. - Archivio BPP


Il pulpito è la prima opera documentata di Nicola. Seguì, dal 1265 al 1269, il pulpito del Duomo di Siena. Sicuramente documentata è anche la Fontana di piazza di Perugia, ultimata nel 1278 in collaborazione con il figlio Giovanni. In precedenza, Nicola si era impegnato a rifare un altare per il Duomo di Pistoia, del quale non rimangono più tracce. Ma anche per altre opere è stato fatto il nome di Nicola: le sculture del portale sinistro della facciata del Duomo di Lucca, o l’Arca di San Domenico a Bologna. Dopo il 1278 non si hanno più notizie di lui. Un documento del 1284 lo cita come il quondam maestro Nicola. Il pulpito del Battistero pisano è esagonale, poggia su arcate trilobe, è retto da sette colonne, tre delle quali sorrette da leoni simili a quelli dei protiri delle cattedrali romaniche, altre tre direttamente piantate nel terreno, e la settima al centro, su un gruppo ispirato ai bestiari. Il parapetto è costituito da cinque formelle scolpite, divise da colonnine a fascio. Il tipo delle modanature, profilate con energico risalto, gli archi trilobi, la ricchezza dei capitelli a foglie gonfie e accartocciate, provano che lo scultore aveva familiarità con le forme del gotico francese; ma la compattezza della massa del pulpito e le sue proporzioni robuste rivelano un gusto tutto italiano. Nelle sculture, poi, che ornanole cinque formelle, l’apporto delle reminiscenze francesi è pressoché nullo: chiaramente visibili sono invece quelle romaniche, insieme con una forte meditazione sui modelli classici.

Un particolare del Pergamo del Duomo di SienaRealizzato tra il 1265 e il 1269, è considerato uno dei capolavori di Nicola Pisano. - Archivio BPP
Un particolare del Pergamo del Duomo di Siena - Archivio BPP

L’artista si è ispirato per la composizione del bassorilievo e per i tipi delle figure ai sarcofagi dell’antichità. Ciò appare evidente. Ma li ha trasformati con gran vigore. Il modo con cui trae le figure dal fondo è tutto diverso: esse per certe parti se ne staccano con prepotenza, e per altre vi si perdono, rimanendovi incluse. Esse sono ammassate, senza spazio intermesso, solo con pochi solchi d’ombra, e urgono in primo piano. Scalpellate a larghi piani, la loro possanza plastica si sprigiona come da blocchi; i loro reciproci rapporti di proporzioni dipendono dall’importanza del personaggio:è sostituita “alla misura fisica la misura morale”; da qui, la loro dignità, che è grandissima, e il loro carattere solenne e profondamente religioso. Ma, anche, un’evidenza corposa, un’energia espressiva e, nel folto comporre, un fraseggiare così largo e intenso,«che un’umanità più piena se ne libera e s’impone». (A. Griseri). Questo carattere nel pulpito (questa volta ottagonale) di Siena si accentua. In cinque anni lo stile di Nicola evolve in modo impressionante. Nella Fontana perugina ci fu l’apporto di vari collaboratori, compreso il figlio Giovanni, mentre per le sculture del Duomo lucchese e per l’Arca petroniana i pareri degli studiosi, fino a poco tempo fa discordi, sembrano riconciliati, in considerazione dei dati cronologici, dall’emersione potente delle caratteristiche artistiche, dalla persuasione che l’ideazione appartenne a un Nicola, che in qualche modo mise mano ad alcune parti di queste opere d’arte.
Secondo la tradizione, Nicola fu anche architetto. Nessun documento lo conferma, ma il fatto che anche il figlio Giovanni e Arnolfo di Cambio siano stati architetti, corrobora l’ipotesi. Delle numerose costruzioni che gli attribuisce il Vasari, l’unica che con un buon fondamento può supporsi sua è la chiesa di S. Trinità a Firenze.

Un grifone della
Cattedrale romanica di Ruvo di Puglia (Bari), XII-XIII secolo. - Archivio BPP
Un grifone della Cattedrale romanica di Ruvo di Puglia (Bari), XII-XIII secolo. - Archivio BPP


Certamente, dalla bottega di Nicola uscirono i maggiori scultori toscani della generazione successiva. Una tradizione si costituì a Pisa, organica e ricca di sviluppi, che informò di sé la maggiore scuola italiana di scultura della seconda metà del XIII secolo e della prima metà del XIV, detta – per l’appunto – Scuola Pisana.
Fatto è che sotto il nostro cielo l’Antico non era mai morto. Viveva nelle arene e nelle basiliche, nelle colonne e negli archi di città che mai avevano dimenticato di essere romane. Viveva nel Corpus iuris che i glossatori commentavano nelle università per piegarlo alle esigenze moderne. Viveva nella cultura classica preservata dalla Chiesa.
Una mostra – la prima del genere – in Castel Sismondo di Rimini, inaugurata un anno fa, ha voluto raccontare proprio questo. Ha voluto raccontare cioè la nascita della nostra civiltà artistica, che prese forma all’alba del Duecento sui modelli antichi e gradualmente si realizzò nella scoperta del vero, nell’intuizione dello spazio misurabile, nella rappresentazione, direbbe Vasari, «delle attitudini e degli affetti».
Protagonisti, i maestri federiciani di Castel del Monte, di Capua, di Lucera, di Bari, il prodigioso miniatore del De arte venandi cum avibus, Nicola e Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio, i pittori romani Pietro Cavallini e Jacopo Torriti che declinarono ladignitas antica secondo criteri di iconica sacralità.
Il punto d’arrivo di questa grandiosa rivoluzione fu Giotto di Bondone, come dirà ogni manuale di storia dell’arte. A Firenze, alla fine della sua vita, Giotto venne incaricato di progettare il campanile della Cattedrale che porta il suo nome. Non riuscì a vederlo realizzato neppure in piccola parte. Fece però in tempo a fornire i disegni per i rilievi che fasciano il primo ordine del campanile con le rappresentazioni simboliche delle arti. Uno dei rilievi raffigura l’«invenzione della scultura». Andrea Pisano, esecutore dell’idea giottesca, rappresenta Fidia che, paludato al modo di un sapiente antico, è in atto di modellare una statua a tutto tondo. Questo capolavoro (prestato dall’Opera di Santa Maria
del Fiore) stringeva in emblema la filosofia che governava e giustificava il titolo dell’Esposizione: Exempla. È sugli esempi della classicità liberamente e modernamente interpretati, però vissuti come riferimenti irrinunciabili, che poggia le sue fondamenta la lingua figurativa degli italiani; quella che dopo Giotto porterà a Masaccio («Giotto rinato», come scriveva Berenson), e dopo di lui a Piero della Francesca, a Raffaello, a Tiziano.
Rimini, con i suoi monumenti identitari (l’Arco di Augusto, il Ponte di Tiberio), è città romana. Sigismondo Malatesta, che si considerava novello Augusto, legislatore e fondatore, stirpe degli Scipioni, autocrate di una città tornata “antica”, volle da Leon Battista Alberti una chiesa-mausoleo ispirata a modelli classici. È la chiesa che tutti conosciamo come Tempio Malatestiano. Nessuna città meglio di Rimini poteva dunque ospitare un’Expò che ci facesse capire “per exempla”, appunto, la meravigliosa persistenza e la feconda vitalità dell’Antico.

Arnolfo di Cambio, “Cristo e l’Animula della Vergine”. Museo dell’Opera del Duomo, Firenze. Il classicismo di Arnolfo si riveste di una particolare sensibilità religiosa, che si incarna nella severità delle espressioni e delle forme.
Arnolfo di Cambio, “Cristo e l’Animula della Vergine”. Museo dell’Opera del Duomo, Firenze. Il classicismo di Arnolfo si riveste di una particolare sensibilità religiosa, che si incarna nella severità delle espressioni e delle forme.


Un Antico rimesso in gioco da un genio “de Apulia”, e che ripeteva il miracolo già fiorito con l’invenzione del “volgare”, anch’esso di matrice federiciana, nato con la poesia di corte in Puglia e in Sicilia, e poi, anticipando l’itinerario della scultura, emigrato inToscana, a farsi scaturigine della nostra splendida lingua.
Non sarà che senza l’intelligenza creativa – magno-greca e siceliota – degli uomini del Sud non ci sarebbero state mai un’Italia, una lingua letteraria e una lingua artistica dell’Italia, una cultura e una civiltà italiane, scuola del mondo?

   
   
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