Marzo 2009

LE RISERVE DI PALAZZO KOCH

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Oro d’Italia

Duccio Montefoschi

 

 
 

Riserve in campo. L’idea di utilizzare le riserve delle Banche centrali non è esclusiva dell’Italia, dove pure il debito pubblico è uno dei più giganteschi del mondo.

 

Il Gran Tesoro c’è. Non in via XX Settembre, dov’è il Ministero dell’Economia, (somma degli ex dicasteri del Tesoro, delle Finanze e del Bilancio), ma alcune centinaia di metri più in là, al numero 92 di via Nazionale, custodito dall’imperforabile caveau di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia. Come i tesori di tutte le fiabe manda bagliori e risplende magnificamente perché è tutto d’oro: oltre 2.000 tonnellate di lingotti bene allineati, in non pochi casi stoccati da decenni, e in alcuni casi contrassegnati dai marchi della storia: la falce e martello dell’ex Unione Sovietica, l’aquila americana, la svastica nazionalsocialista… Tutti insieme, i lingotti hanno un valore di oltre 45 miliardi di euro, secondo le stime dello stesso Istituto di emissione. Vanno aggiunti altri 25 miliardi delle riserve costituite dalle attività in valuta della stessa Banca nei confronti di residenti e non residenti nell’areaeuro. Complessivamente, le riserve sono pari a 70 miliardi di euro, una massa enorme di risorse.


Per legge, questi beni sono di proprietà della Banca d’Italia, che li conserva «a salvaguardia della credibilità del sistema europeo delle Banche centrali»: ma non tutti, soltanto una parte. Un’altra quota rilevante viene da riserve residuo di altre stagioni, essendo state costituite a difesa della lira. Ma dal momento che ora la lira non circola più, c’è chi si chiede se abbia ancora senso conservare inerti tutti quei miliardi, o se piuttosto non sarebbe opportuno utilizzarli in modi più produttivi per il sistema-Paese.
La proposta di mettere a frutto le riserve della Banca d’Italia non è nuova. Come un fiume carsico, appare e scompare nel dibattito economico e politico, tagliando trasversalmente
destra, centro e sinistra, tra favorevoli e contrari. Si inabissa nei momenti in cui nel nostro Paese si spera di avere imboccato la via virtuosa del risanamento dei conti pubblici, e rispunta quando l’emergenza torna a mordere. Allo stato, siamo senza alcun dubbio in questa seconda fase, con gli indicatori fondamentali dell’economia interna e internazionale che volgono verso il brutto: crisi finanziaria mondiale, prezzi delle materie prime instabili, inflazione dell’area euro intorno al 4 per cento, crescita italiana bloccata, se non addirittura in calo, consumi quasi al palo, produttività anemica. È in questo scenario che la proposta di attingere alle riserve nazionali è tornata di attualità, rispolverata e arricchita da commentatori ed economisti, anche brillanti.
L’idea di utilizzare le riserve delle Banche centrali, in realtà, non è esclusiva dell’Italia, dove pure il debito pubblico è uno dei più giganteschi del mondo. È già stata tradotta in pratica, tutto sommato senza grandi clamori, in altri Paesi del Vecchio Continente, dalla Francia all’Austria, che hanno messo a frutto le riserve per finanziare grandi progetti di ricerca e sviluppo, e anche dalla Spagna che, invece, ha preferito destinare quelle risorse all’abbattimento del debito. In Italia uno dei primi politici a lanciare timidamente una proposta analoga fu Romano Prodi, ai tempi del suo primo governo, tra il 1996 e il 1998; ma di lì a poco il progetto venne riposto nel cassetto. Si riprovò alcuni anni dopo dalla sponda del centrodestra, con un emendamento alla Finanziaria 2003 preparato d’intesa con il Servizio Studi della Camera: emendamento sbrigativamente considerato inammissibile e accantonato. Cambiata maggioranza, nel luglio 2007 il progetto fu nuovamente tirato fuori col progetto di un sottosegretario all’Economia: la proposta venne inserita in una risoluzione votata dalla Camera e dal Senato, ma anche in questo caso non se ne fece nulla. L’emendamento del 2003 avrebbe voluto usare le risorse a riduzione del debito pubblico, il progetto 2007 mirava invece ad incentivare robustamente la ricerca e l’innovazione.
Ma anche gli oppositori sono numerosi, tanto in uno quanto nell’altro schieramento. Due anni fa un economista, capogruppo finiano in Commissione Bilancio di Montecitorio, Mario Baldassarri, parlò di «vero e proprio assalto», mentre l’economista Tito Boeri – abbastanza vicino allo schieramento opposto –, l’editorialista Francesco Giavazzi e Lamberto Dini – tra l’altro, ex direttore di Bankitalia – sostennero all’unisono che con quel sistema non si sarebbe risanato un bel niente. «Il problema vero» dissero «casomai è la capacità o l’incapacità politica di attaccare la spesa corrente rimasta a livelli patologici nonostante tutti i tentativi di riduzione». E Angelo De Mattia, uno dei più ascoltati collaboratori dell’ex Governatore Fazio, scrisse che l’idea di utilizzare le riserve, pur non essendo un dramma, avrebbe richiesto modifiche costituzionali e comunque non poteva essere imposta, ma eventualmente poteva essere frutto di una scelta autonoma della Banca centrale. Bankitalia, però, è sempre stata contraria a toccare le riserve, che considera uno dei pilastri a sostegno della propria autonomia. Fazio liquidò a suo tempo la faccenda come un’«idea balzana» e, citando William Shakespeare, arrivò a dire che c’era «del metodo nella follia» di chi proponeva di metter mano al Gran Tesoro. Più recentemente, a difesa delle riserve italiane si è espresso il presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, il quale con ruvidezza inusitata ha parlato addirittura di tentativi di «esproprio».
Nel nostro Paese, inoltre, quando si affronta il discorso sulle riserve, c’è da considerare un elemento in più, quello della proprietà. Perché quelle risorse sono sì della Banca centrale, che negli ultimi decenni le ha fatte levitare con oculatezza; ma la Banca d’Italia a sua volta è posseduta non da azionisti pubblici, bensì privati, banche in particolare (30,3 per cento Intesa San Paolo, 15,7 per cento Unicredit, 6,3 per cento Banco di Sicilia, altrettanto Assicurazioni Generali, 6,2 per cento Cassa di Risparmio di Bologna, 5 per cento Inps, 4 per cento Banca Carige, 2,8 per cento Banca Nazionale del Lavoro, 2,5 Monte dei Paschi di Siena): istituti sempre rispettosi al massimo grado dell’autonomia della Banca governata da Draghi, ma i cui manager devono rispondere del loro operato agli azionisti, (alcuni sono stranieri), i quali, com’è più che ovvio, difficilmente sarebbero entusiasti all’idea di perdere parte del patrimonio.

   
   
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