Marzo 2009

SOMMERSO

Indietro

Le radici occulte
della crescita

Monica Marano
Giulio Faretti
Carla Stagno

 

Coll.: Andrea Morelli
Francesco Regis
Gianna Frisullo
 
 

Black money. Il denaro controllato dalle mafie ha raggiunto una cifra da cartone animato: 3,8 trilioni di dollari, il 9 per cento del Pil planetario.

 

Capita che una mattina all’alba la Guardia di Finanza varesina becchi un imprenditore il quale, grazie a un complesso sistema di sovrafatturazioni, era riuscito a sottrarre al fisco 16 milioni di euro in sei anni, tutti depositati poi in terra elvetica. Un paio di giorni dopo, può accadere che i Carabinieri di Perugia blocchino un consulente del lavoro e 13 aziende agricole, accusati di avere evaso 400 mila euro di contributi grazie all’impiego di braccianti in nero. Passano appena altre quarantott’ore, e a Catania succede persino che un ispettore dell’Agenzia delle Entrate si imbatta in un negozio di alimentari molto frequentato, ma mai registrato alla Camera di Commercio.
Sono storie di “normale” cronaca italiana, ma in grado di testimoniare, se qualcuno non se ne fosse ancora accorto, che le vie della Penisola sommersa sono veramente infinite: e che il loro impatto sui conti pubblici, soprattutto in termini di gettito fiscale mancato, rischia di essere devastante.
A ricordarlo non una, ma due volte, gli esperti, i quali hanno ipotizzato una quota di economia “in nero” pari al 22 per cento del Prodotto interno lordo italiano. Se più o meno così è, visto che il Pil nazionale è stato pari nel 2007 a 1.356 miliardi di euro, si tratta di una cifra mostruosa: circa 295 miliardi di euro sottratti al fisco, pari ai ricavi delle prime otto aziende italiane messe insieme, oppure, per restare in campo pubblico, a una decina di leggi finanziarie “pesanti”.

Angelo Mangione -  Associazione Obiettivi. www.associazioneobiettivi.it
Angelo Mangione - Associazione Obiettivi. www.associazioneobiettivi.it


Senza questo sommerso, o con una quota di sommerso fortemente ridotta, l’Italia cambierebbe volto: ci sarebbero alleggerimenti del carico fiscale per tutti i contribuenti, più investimenti, più benessere sociale. Banale? Forse. Certo è che in Italia la quota di “economia informale non osservabile”, (definizione ufficiale coniata dall’Istat nel 1992, quando per la prima volta la contabilità nazionale ha unificato le stime di evasione, di riciclaggio, di lavoro nero e di finanza criminale), ha superato da tempo i livelli di guardia: in meno di quindici anni, il dato del sommerso è praticamente raddoppiato, crescendo con una progressione quasi geometrica. «Se da almeno tre lustri l’economia illegale cresce a tassi doppi o tripli rispetto a quelli messi in mostra dal Pil ufficiale, significa che il problema non sta solo nelle cifre, ma anche nelle teste», taglia corto Roberto Pessi, ordinario di Diritto del lavoro e preside della facoltà di Giurisprudenza alla Luiss.
In effetti, a giudicare dai numeri, la situazione italiana non sembra avere rivali nel panorama occidentale: ai campionati mondiali del sommerso battiamo di molte lunghezze la Francia (8,5 per cento del Pil), la Germania (8 per cento), il Regno Unito (6 per cento) e gli Stati Uniti (4 per cento), piazzandoci anche ben al di sopra della media europea complessiva (intorno al 10 per cento). Non hanno dunque torto i ministri italiani dell’Economia, dello Sviluppo economico e del Welfare, che negli ultimi mesi hanno firmato vari provvedimenti tesi a stanare le irregolarità fiscali e contributive, chiarendo a più riprese come una vera lotta al sommerso, al di là dei risultati di immagine, ci consentirebbe di presentarci a Bruxelles con fondamentali un po’ meno deboli di quelli esibiti attualmente.
Una teoria che trova conferme anche al di fuori del mondo politico. Ogni punto percentuale di Pil sottratto alla clandestinità – sottolineano gli esperti di contribuzione pubblica – comporta in media uno 0,4 per cento di entrate fiscali in più e un saldo di crescita compreso tra lo 0,2 e lo 0,6 per cento. Non è poco, per un Paese che tra il 2007 e il 2009 registrerà tassi di crescita intorno allo zero, se non addirittura negativi.
Pil a parte, anche altri aspetti dell’economia reale beneficerebbero di un recupero accentuato: uno studio di specialisti ha recentemente stimato che una scomparsa totale del
nero porterebbe a una riduzione della pressione fiscale di almeno dieci punti, lasciando così nelle tasche di cittadini e imprese qualcosa come 65 miliardi in più ogni anno: somma più che sufficiente a ridare fiato a consumi e investimenti di qualsiasi altro Paese occidentale.
Individuare i fattori che fanno dell’Italia la Mecca del sommerso non è poi tanto difficile.
«Leggi e controlli sono più o meno gli stessi in tutto il mondo occidentale. Quello che cambia, in Italia, sono le condizioni ambientali», sostiene Donato Masciandaro, direttore del Centro studi sulle regolamentazioni finanziarie “Paolo Baffi”, della Bocconi, e autore, nel 2007, del saggio Black money: «Da noi le aliquote sui redditi sono più alte della media europea. In più, la maggior parte del gettito fiscale arriva da lavoratoriautonomi e piccole imprese, soggetti strutturalmente deboli che in caso di difficoltà sono più propensi a ridurre i costi facendo ricorso al lavoro nero e all’evasione».
Per quanto difficile da accettare, insomma, in Italia il sommerso continua ad esser vissuto
come una leva da azionare per restare competitivi. «E questo non significa che sia giustificabile», scrivono quasi concordemente gli economisti. «Vuol dire solo che la lotta all’evasione dovrebbe essere accompagnata anche da altri strumenti. Quello che serve è un cambio di passo, che garantisca alle imprese non soltanto una fiscalità più bassa, ma anche la certezza di poterne godere per un tempo prolungato e in un contesto che non sia quello burocratico e soffocante di oggi». Concorda Pessi, il quale precisa:«Per lungo tempo è passata l’idea che il sommerso non fosse poi così male, soprattutto per alcune realtà come le start-up o il Mezzogiorno, dal momento che consentiva di aggirare la nostra rigidità amministrativa. Si inizia come irregolari, poi ci si irrobustisce, e alla fine si diventa regolari».
Ma la crisi economica in atto, con la sua dote di stretta creditizia, di calo dei consumi e di aumento dei disoccupati, rischia di interrompere anche questa spirale: «Per questo occorre che la politica intervenga al più presto, partendo proprio da iniziative in favore della piccola e media impresa del Mezzogiorno, tradizionalmente la più esposta al rischio di contaminazione da sommerso». Un primo segnale è arrivato alla fine di settembre 2007, con la creazione delle Zone franche urbane: si tratta di 24 aree, quasi tutte situate proprio nel Sud, dove le microimprese nate a partire dal 2009 godranno di agevolazioni finanziarie e fiscali. È una formula già sperimentata con successo in Francia, e capace di sostenere la nascita o l’emersione di nuova imprenditorialità nelle zone più a rischio. Per ora, sono stati
messi a disposizione 50 milioni di euro, ma l’intenzione è di rinnovare il contributo ogni anno, fornendo così un’alternativa al sommerso concreta e prolungata nel tempo.
Nel 2008 il saldo tra i pasti consumati nel nostro Paese e il numero di ricevute emesse è stato negativo per il 66 per cento: bar e ristoranti, in pratica, hanno battuto uno scontrino ogni tre consumazioni. Nello stesso arco di tempo, i capitali italiani scoperti nei paradisi fiscali sono passati da 1,9 a 3,8 miliardi di euro, con un incremento del 100 per cento.

Nello Wrona
Nello Wrona


Anche un altro dato è cresciuto: quello delle realtà imprenditoriali completamente sconosciute al fisco, che hanno toccato quota 180 mila, rispetto alle 163.801 dell’anno precedente. Qualsiasi governo intenzionato a dichiarare guerra al sommerso dovrebbe partire da questi dati.
Il fenomeno dell’evasione continua a crescere, nonostante i decisi passi in avanti registrati negli ultimi anni sul piano del contrasto. Stando agli ultimi dati disponibili, nei primi nove mesi del 2008, per esempio, la Guardia di Finanza ha scovato redditi non dichiarati per 21,6 miliardi, mentre i recuperi di Iva non versata hanno toccato i 3,6 miliardi.
La lotta all’evasione comincia a riflettersi anche sul bilancio dello Stato, se è vero che nello stesso arco di tempo considerato, secondo l’Agenzia delle Entrate, il gettito fiscale è cresciuto del 3,5 per cento. Ma per colpire più duramente gli evasori occorre un ulteriore cambio di passo. Una delle soluzioni ventilate è quella di ampliare i poteri di controllo dei Comuni. Idea abbastanza valida, visto che in molti Paesi il rapporto centro-periferia consente controlli più rapidi e mirati. E il federalismo fiscale dovrebbe spingere gli enti locali a controlli più rigorosi. In un Paese nel quale il 54 per cento dei contribuenti dichiara un reddito lordo inferiore ai 15 mila euro, e addirittura il 27 per cento dei contribuenti non subisce alcun prelievo, l’occhio ravvicinato dei Comuni potrebbe rivelarsi molto utile.

Archivio BPP
Archivio BPP


Perché un sistema come questo funzioni, tuttavia, occorre ripensare anche gli strumenti.
Al ministero dell’Economia vorrebbero rispolverare l’idea del “redditometro”, la banca dati capace di scovare incongruenze tra i dati dichiarati al fisco e la disponibilità di imbarcazioni, di auto, di abitazioni. Ma la vera piaga dell’economia italiana si nasconde alla fonte del processo produttivo:è, appunto, il lavoro nero.
Per comprendere le difficoltà di individuare a fondo le situazioni, è sufficiente scorrere il Rapporto stilato nel gennaio 2008 dalla Direzione ispettiva del ministero del Lavoro, secondo il quale dal 2005 al 2007 il 61 per cento delle aziende esaminate ha messo in mostra irregolarità sul fronte del lavoro dipendente. Soltanto nel 2007 i lavoratori irregolari
scoperti sono stati più di 355 mila. Ma quelli in circolazione sarebbero molti di più: circa 2 milioni, secondo il Censis, che stima anche che il 13 per cento di costoro sia impiegato in realtà del tutto sconosciute al fisco. Senza contare le decine di migliaia di immigrati in settori come l’industria del falso, l’edilizia e l’agricoltura.
Gli incentivi all’emersione, invece, segnano il passo: dal 2003 al 2007 sono state sanate appena 19 mila posizioni. Ma il dato non tiene ancora conto della sanatoria chiusa alla fine del settembre 2007, con la quale i datori di lavoro avevano la possibilità di far emergere i contributi evasi dal 2005, senza pagare sanzioni aggiuntive.

Maria Ada Pisa
Maria Ada Pisa


Evasione e lavoro nero: l’identikit dell’Italia sommersa è tracciato. Combattere il fenomeno è un dovere, eliminarlo del tutto è impossibile. Anche perché, per farlo, occorrerebbe agire anche sulla zona grigia, quella dove il “nero tradizionale” incontra e si incrocia con l’economia criminale. È questo l’altro segno distintivo dell’Italia sommersa. La “Malavita SpA” è l’impresa più grande e più dinamica del Paese: lo scorso anno, per la prima volta, i suoi ricavi hanno superato i 100 miliardi di euro. Se si trattasse di un’azienda vera, i suoi manager occuperebbero le copertine a colori dei grandi settimanali. Invece, dobbiamo accontentarci delle foto segnaletiche, visto che i business si chiamano droga (giro d’affari pari a 40 miliardi l’anno), prostituzione (14 miliardi), racket (16 miliardi). Quattrini esentasse. A livello globale la black money controllata dalle mafie, secondo gli esperti, ha raggiunto una cifra da cartone animato: 3,8 trilioni di dollari, il 9 per cento del Pil planetario. E la criminalità italiana è senz’altro la più brillante: «Al netto di quanto speso per mantenere in vita le organizzazioni», stima Masciandaro, «i margini di ritorno sono pari al 75 per cento. Poco più della metà viene fatta emergere, mentre il resto è reinvestito in nuove attività illecite». E proprio per questo la giostra del sommerso non si ferma mai.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2009