Marzo 2009

STATISTICA A PARTE

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Il Pil, oggetto sconosciuto

Dimab

 

 
 

Pansindacalismo. Contratti uguali per tutti, nel pubblico impiego soprattutto, ma stipendi da fame al Nord e richieste in massa di trasferimenti al Sud.

 

Sparare sulla Croce Rossa non è mai una cosa buona, ma certamente l’immobilità e la polverosità dei nostri sistemi statistici sono sotto gli occhi di tutti. Lo si deduce, fra l’altro, da un progetto di ricerca, finanziato con denaro pubblico, sulla costruzione e sull’analisi del Prodotto interno lordo a livello comunale. Sommerso, inflazione e adesso anche il federalismo fiscale: tutti si lamentano della mancanza di dati precisi su questi problemi che angustiano il cittadino e ne inquinano il rapporto con lo Stato. E tutti sparano ad alzo zero contro l’Istat.
L’Istituto di statistica in Italia (in compagnia, a dir la verità, di molti altri sistemi statistici europei) è ancorato al vecchio modo di rilevare dati per lo Stato centrale. Nella trabeazione dell’aula magna del palazzo Istat di Roma troneggia un’enorme scritta: “In numerum fondamentum rei publicae”. Principio sacrosanto, ma il fatto è che con il nuovo assetto costituzionale italiano che va verso il federalismo occorre mettere sullo stesso piano di analisi anche il territorio regionale e quello comunale.
È vero che l’Istat produce anche dati territoriali, ma ricordiamo subito che nel momento
in cui crolla la finanza mondiale, noi disponiamo dei dati di valore aggiunto per provincia e per sistemi locali del lavoro (una sorta di distretto di Comuni limitrofi) solo fino al 2005! Per non dire che questi dati sono costruiti come derivati dalle informazioni nazionali. E questo è un punto cruciale: i dati territoriali sono elaborati dopo la costruzione del dato nazionale, come un sottoprodotto. Questo significa che l’apparato di rilevazione – potremmo dire la significatività del sondaggio – funziona soltanto a livello nazionale, e quindi la conoscenza del dato non è garantita a livello locale.
Chiariamo. Nel preparare un campione per la rilevazione di un fenomeno, diciamo i consumi alimentari delle famiglie, viene stabilito che devono essere estratti a sorte (cioè in maniera casuale), per esempio, dieci Comuni fra i 10 e i 20 mila abitanti, e in ciascun Comune si fanno 500 interviste. Si totalizzano in questo modo i 5.000 questionari che sono rappresentativi del fenomeno a livello nazionale. Ma è chiaro anche ai non addetti ai lavori che quei dieci Comuni scelti a caso non potranno mai essere rappresentativi dei consumi a livello regionale, per la semplice ragione che in Italia ci sono 20 Regioni, dunque ci sono più Regioni che Comuni estratti. Servono allora metodi di elaborazione successivi, con i quali si tenta di colmare la mancanza originale di dati, anche utilizzando indicatori indiretti per ricostruire ex post le informazioni a livello territoriale. Ecco le ragioni dell’eccessivo ritardo: e si ha il diritto di chiedersi a cosa serva, attualmente, per metter su una legge finanziaria per l’immediato futuro, sapere come unica base di riferimento gli andamenti dell’anno di grazia 2005! Neanche sulla rappresentazione dell’inflazione riusciamo ad essere accurati e tempestivi. A parte il problema del paniere, che può essere scientificamente valido, ma sempre a livello nazionale, c’è un problema diverso che abbiamo nascosto sotto il tappeto da troppo tempo. È il problema delle differenze territoriali dei prezzi, e specialmente dei servizi. Partiamo dal dato che tutti conoscono: un hamburger da McDonald’s ha un costo uguale in tutto il mondo (aggiustato per il tasso di cambio locale) e i grandi economisti del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea amano citare questo fatto a riprova della globalizzazione. Tuttavia, un taglio di capelli da uomo al centro di Milano costa 40 euro, al centro di Roma 25 euro, in provincia di Lecce al massimo 10 o 12 euro. Ebbene, l’Istat sarebbe attrezzato per rilevare le variazioni nel tempo di tutti e tre i prezzi, ma non per misurare le differenze del costo della vita nel territorio, che poi è il dato cruciale.
Come mai?

Facchino
della Serenissima. Un “mozo de cuerda”, a Venezia, in una stampa del Seicento.
Facchino della Serenissima. Un “mozo de cuerda”, a Venezia, in una stampa del Seicento.


Le ragioni nascono da lontano: quando le spinte sindacali premettero per abolire le cosiddette “gabbie salariali” (siamo nel 1968), fu ritenuto politically correct anche smettere di misurare il fenomeno. C’è poi chi dice che sia difficile misurare le differenze di costo della vita tra territori diversi. Ma si tratta di una certa scuola statisticoeconomica che altri considerano ipocrita, perché da una parte afferma una cosa, ma subito dopo accetta invece la misurazione della povertà. Secondo questi ultimi, dobbiamo capire che la misurazione del costo della vita per un “povero”, diverso da quello per un “ricco”, è la stessa cosa che costruire il costo della vita per un “milanese” diverso da quello per un “romano” o un“leccese”. Quindi, è la cultura del pansindacalismo degli anni Settanta che ha distrutto la conoscenza delle differenze territoriali. E i risultati li conosciamo: contratti uguali per tutti, soprattutto nel pubblico impiego, ma stipendi da fame (per via del costo della vita e dei servizi) al Nord, e richieste in massa di trasferimenti al Sud.
Ci si chiede: che cosa c’entrano le statistiche territoriali con il problema dell’economia sommersa che non emerge? Spiegato in maniera schematica ma chiara: non c’è niente di “sommerso” nel sistema di fatturazione di una grande o grandissima impresa, mentre ci sono molte probabilità di trovarlo nelle attività stagionali, per esempio in quelle del turismo sulle belle spiagge di tutta l’Italia, peninsulare e insulare. In effetti, i dati Istat (fermi al 2006!) propongono una stima del lavoro irregolare (connesso al sommerso) nell’industria pari al 3,7 per cento, e nel commercio e nei pubblici esercizi pari al 18,9 per cento. Ebbene, la tesi prevalente è che il sommerso è concentrato nelle attività che sono locali e connesse al territorio, assai meno che in quelle riferibili alle attività nazionali e internazionali. Sicché ancora una volta emerge la necessità di un ripensamento generale della produzione statistica, per arrivare vicino al territorio.
Ma per snidare il sommerso, che fare? Certo, non si può chiedere quanto lavoro irregolare
abbia un cittadino, perché la verità non la si otterrebbe in nessun caso. In alternativa, occorre impostare un sistema di rilevazione a livello micro-territoriale, ad esempio, sugli utilizzi degli ospedali e delle cliniche, delle scuole pubbliche e private, sulle proprietà, sulle vacanze, anche a costo di limitare, ai fini del bene pubblico, la privacy. Solo in questo modo ci potremo riappropriare della conoscenza del nostro Paese.

   
   
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