Marzo 2009

GLOBAL VIEW. LA CRISI DEL CAPITALISMO BORGHESE

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In casa con gli spettri

Claudio Alemanno

 

 
 

Se è inevitabile l’alternanza ciclica dei mercati, non è naturale che la scienza economica resti inerte rispetto alla necessità di rendere morbido l’impatto con la modernità.

 

Tra i danni indotti della crisi economica viene passato spesso sotto silenzio l’effetto psicologico. I titoli tossici hanno prodotto tossicodipendenza, forme di idolatria per gli esercizi speculativi della finanza creativa. Il quasi-ricco ritrovatosi quasi-povero nell’arco di una notte è ancora soggiogato dai meccanismi che lo hanno stritolato. Vive il dramma di una solitaria e inespressiva rivalsa che si aggiunge alla solitudine della sua quotidiana routine.
Situazioni già viste più volte. Basta ricordare che agli albori del cristianesimo la folla ha salvato Barabba e crocefisso Gesù. Pesano come macigni i silenzi dei vertici della piramide. Autorità istituzionali, economisti, gazzettieri e ciambellani del Principe qualche dubbio dovrebbero averlo sulla loro capacità di leggere gli eventi e sulle loro virtù nel sostenere le architravi del sistema. Non potevano non sapere, per usare il ritornello accusatorio della nostra infinita tangentopoli. La conclusione è disarmante: l’omologazione al potere paga meglio della sua contestazione.
Noi alcune domande abbiamo il dovere di porle, per il rispetto che abbiamo verso le grida di dolore che si levano dalla base della piramide. Chiediamo in particolare se, oltre all’attivismo politico necessitato dalla gravità del momento, il pensiero economico non debba riflettere sul significato della sua autonomia, non debba dialogare e confrontarsi, saltando gli steccati accademici, con filoni di ricerca contigui (sociologia, tecniche e tecnologie della comunicazione). Per chiare ragioni di necessità, imposte dalle analisi complesse sui comportamenti dell’homo oeconomicus contemporaneo e dai doveri generali d’informazione e di trasparenza chiesti dal sistema, in primo luogo ai consiglieri del Principe.
Se in presenza di una domanda di lavoro rarefatta, l’offerta non debba essere riqualificata e riorganizzata in era di economia digitale, tenendo conto dei tumultuosi processi di riorganizzazione industriale e di disaggregazione e riaggregazione sociale su scala locale e planetaria. Se gli squilibri provocati dal picco rialzista dei beni alimentari di prima necessità (grano, frumento, ecc.) non debbano sollecitare studi strategici sulla produzione e sulle priorità d’impiego dei prodotti, prima d’invocare la semplice calmierazione dei prezzi.
Se i miti della Illusione finanziaria e del Consumo facile e facilitato, abbastanza radicati nelle società opulente, non debbano venire a patti con l’istinto più intimo dell’uomo, incardinato sui valori della Stabilità e della Sicurezza.
Se la sollecitazione delle emozioni, che tende ad elevare indiscriminatamente la soglia del rischio economico, non debba convivere cum iudicio con la narrazione biblica della qualità della vita e dell’ambiente.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che non esistono percorsi evolutivi legati in astratto a modelli econometrici elaborati da scuole di pensiero autoreferenziali (nella fase acuta della crisi l’ottimismo degli economisti era sovrano, con qualche eccezione mal sopportata– Paul Krugman, firma prestigiosa di questa Rassegna, è stato prima messo alla gogna, poi rivalutato e insignito del Premio Nobel per l’Economia).
Come dovrebbe essere chiaro che bisogna effettuare opportune distinzioni tra società chiuse e mercati chiusi. Le prime, rianimate dalle dissepolte logiche nazionaliste (compaiono sempre quando c’è da tirare la cinghia). I secondi, destinati ad operare lungo il viale del tramonto, poiché anche le restrizioni più significative (contingentamenti all’import, barriere tariffarie, politiche di sostegno del cambio) diventano anacronistiche e pericolose per chi le adotta, di fronte alla convulsa e inarrestabile circolazione delle persone e dei capitali.
Le domande poste sottolineano al momento uno stato di paralisi. Il groviglio di ritardi e di contraddizioni in cui è impantanata l’economia internazionale inceppa i meccanismi di amplificazione dei segnali dello sviluppo, producendo effetti scarsi sulla tenuta e sulle prospettive di crescita di ciascun Paese. Assistiamo invece a Paesi “ex poveri” che hanno facile accesso ai mercati di Paesi “ex ricchi”, fino a conseguire rilevanti partecipazioni nei loro settori strategici (fonti energetiche, partecipazioni bancarie, ecc.).
Il vuoto della Politica viene riempito dalle logiche dei poteri forti che in alcuni casi rischiano di condizionare le politiche locali e regionali e gli orientamenti delle relazioni internazionali. Il programma di regole, garanzie e controlli per il Governo dell’economia globale resta sui tavoli di lavoro, vaga nei meandri oscuri della politica politicante, affidato a dichiarazioni di buona volontà esibite nelle vetrine di maggiore risonanza internazionale.

Archivio BPP
Archivio BPP


Si fa ancora una grande confusione tra creazione e distribuzione della ricchezza. La creazione appannaggio della “scienza di destra”, la distribuzione appannaggio della“scienza di sinistra”. E nella confusione dei dati e delle lingue non riusciamo ad avvertire la voce della scienza pura, senza complementi di specificazione. Con la conseguenza che siamo diventati tutti strabici, convinti che sia la redistribuzione a produrre ricchezza. Un’illusione ulteriore e pericolosa che sottintende un deragliamento grave dei princìpi della produzione della ricchezza, del valore del risparmio, dei criteri virtuosi dell’equità distributiva. Non basta predicare le virtù taumaturgiche del denaro, soprattutto quando al vertice della piramide si danno esempi poco edificanti.
E allora? Per quanto tempo siamo condannati a vivere sull’orlo del precipizio, sotto i riflettori che irradiano saltuariamente timidi fasci di luce fredda? Per quanto tempo dovremo preoccuparci dei silenzi più che delle dichiarazioni di economisti e autorità istituzionali? Dovremo affidare la nostra salvezza alla speculazione, come sostiene Piero Ostellino? Al momento sembra l’unica via di uscita. La vocazione globale dei mercati muove ogni giorno le sue pedine nella giungla silente delle convenienze. Mentre la finanza opera in tempo reale (non è casuale l’intreccio sempre più fitto tra gli asset proprietari delle Borse), la politica sembra appagata dalle assicurazioni fornite alla stabilità del sistema finanziario. Peraltro assicurazioni di caratura diversa, secondo gli spazi di manovra che hanno i Governi nazionali. Nella sostanza, un fattore di squilibrio ulteriore, perché fa emergere le contraddizioni tra l’azione modesta dei Governi nazionali e la dimensione globale dei mercati.
Dunque la globalizzazione portata avanti dai poteri forti continua indisturbata a creare i suoi eroi, le sue vittime, i suoi fantasmi. Non vediamo grande differenza tra gli effetti prodotti dalla distruzione creativa del capitalismo liberale con l’up and down dei cicli economici e gli effetti prodotti dall’implosione delle economie pianificate. In entrambi i casi si ottiene l’avvicendamento delle oligarchie dirigenti impoverendo il ceto medio e le classi meno abbienti.
Sulle macerie e sui lutti dell’ultima bolla occidentale si aprirà certamente l’alba di un altro ciclo economico. Ma se è inevitabile la naturale alternanza ciclica dei mercati dovuta all’esaurimento di un modello di consumi e all’affermazione delle forze d’innovazione, non è naturale che la scienza economica resti inerte rispetto alla necessità di rendere morbido l’impatto con la modernità. Interventismo statale e protezionismo economico tornano ora impetuosamente alla ribalta, determinando nuove rigidità nelle politiche monetarie e di bilancio. Un altro fattore di disturbo nei percorsi della globalizzazione.
Certamente andiamo incontro a una riorganizzazione mondiale dell’economia che ridimensiona il potere del dollaro e dell’industria americana, rendendo più sfumati e incerti gli scenari sul modello centrale di riferimento. È entrato in crisi irrimediabilmente un modello di business. Si tratta ora di realizzare una rivoluzione silenziosa. Portare il Signor Qualunque fuori dal ghetto degli equilibri cristallizzati, fargli assaporare il gusto dell’alternativo virtuoso rispetto agli stereotipi della finanza creativa e dei facili consumi, ancora sospesi sulle nostre teste. Reintrodurre il concetto di sobrietà e riportare alla crescita il ceto medio sono gli imperativi categorici del momento.
Sul proscenio convivono poche lezioni metabolizzate e molte lezioni imparaticce. Registriamo un clima culturale sostanzialmente ripiegato su se stesso, che accentua le distanze tra upper class e middle class, tra i figli della gallina bianca di ieri e i figli della gallina nera di oggi. Un clima con molte aspettative su una gestione nuova del rischio sistemico e sul controllo delle variazioni cicliche. Tematiche che non possonoessere più feudo esclusivo della scienza economica.

   
   
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