Marzo 2009

BCE E UNIONE EUROPEA

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Per una Maastricht 2

Romano Casati

 

 
 

L’isola che non c’è. È necessario abbandonare la sindrome di Peter Pan; si tratta di passare a regole per persone adulte, dunque sagge e lungimiranti.

 

L’Unione economica e monetaria è nata nei primi anni Novanta sulla base di due“princìpi fondatori”: la stabilità finanziaria dei bilanci pubblici e la stabilità dei prezzi. Questi due princìpi sono stati stabiliti con numeri precisi: il deficit pubblico non può superare il 3 per cento del Prodotto interno lordo, il debito pubblico deve tendere al 60 per cento, l’inflazione deve stare sotto il 2 per cento. Oggi, dopo oltre quindici anni di Maastricht e dieci anni di euro, questi princìpi e questo rigore appaiono quasi delle “tare genetiche” che bloccano l’economia europea. Come mai, allora, due princìpi sacrosanti possono essersi trasformati addirittura in elementi bloccanti?
Partiamo dal Trattato di Maastricht. Diciotto anni fa si trattava di mettere un corsetto rigido ai bilanci pubblici per contenere drasticamente i deficit e garantire la stabilità del rapporto debito/Pil. Ecco allora l’espediente aritmetico: si dette per scontato che l’Europa crescesse a un ritmo del 3 per cento reale all’anno; con il 2 per cento di tetto all’inflazione
garantito dalla Banca centrale europea, questo significava che il Pil nominale sarebbe cresciuto del 5 per cento all’anno. E così si fece la moltiplicazione: se il rapporto debito pubblico/Pil deve tendere al 60 per cento e il Pil cresce ogni anno del 5 per cento, ne consegue che il deficit massimo deve essere il 3 per cento (60% moltiplicato 5% uguale 3%). Passiamo alla stabilità dei prezzi. Questo obiettivo è stato assegnato alla Bce come“unico ed esclusivo” compito statutario. La Bce lo ha interpretato alla lettera, applicando nei fatti la vecchia teoria quantitativa della moneta che ebbe non poche responsabilità nel causare la Grande crisi del ‘29. Questa teoria dice che, se il valore reale del Pil è dato fisso e se il numero di scambi di una stessa moneta (velocità di circolazione)è anch’esso fisso, controllando la quantità di moneta si controlla il livello dei prezzi, cioè l’inflazione.
Ebbene, la chiave vera per capire come mai i due sacrosanti princìpi sono diventati tare genetiche bloccanti sta proprio qui. In entrambi i casi (Maastricht e Bce) si è creduto che la crescita economica potesse essere un dato esogeno, indipendente dalla finanza pubblica e dalla politica monetaria. L’equilibrio finanziario e la stabilità dei prezzi sono diventati così obiettivi finali, invece che essere strumenti fondamentali per avere solide basi di sviluppo.
La crescita economica è stata quindi lasciata, sul fronte interno, alle cosiddette politiche strutturali (infrastrutture, ricerca, innovazione tecnologica, formazione scientifica, tutte cose anch’esse sacrosante, ma che possono avere effetti significativi soltanto dopo cinque, dieci o ancora più anni) e, sul fronte esterno, totalmente dipendente e succube...
del resto del mondo.
Ma purtroppo, per i vari adoratori di totem superati e sepolti dalla teoria e dalla storiaeconomica del secolo scorso, la politica di bilancio pubblico e la politica monetaria hanno effetto sulla crescita. Non solo: ma addirittura, se bilancio pubblico e politica monetaria frenano la crescita economica (cioè consumi e soprattutto investimenti produttivi), si determinano maggiori squilibri di finanza pubblica e più alta inflazione strutturale.

Siviglia,
Plaza del Triunfo. - Giovanni Coluccia
Siviglia, Plaza del Triunfo. - Giovanni Coluccia

Non si tratta certo di tornare alle illusioni devastanti dei deficit e dei debiti pubblici, o delle svalutazioni competitive, con conseguenti ondate inflazionistiche travolgenti. Si tratta di abbandonare la sindrome di Peter Pan, che preferisce vivere nell’isola-che-non c’è; si tratta di passare a regole per persone… adulte, dunque sagge e lungimiranti. Ecco perché è pericoloso “allentare” i vincoli di Maastricht sul deficit pubblico e basta. Occorre invece passare da Maastricht 1 a Maastricht 2. Per dare una valutazione sull’impatto che il bilancio pubblico produce sull’economia, infatti, non è sufficiente limitarsi al solo “saldo finanziario” che è il deficit. Si deve cioè valutare quali siano la composizione e il livello della spesa e delle entrate pubbliche, i due addendi e non soltanto il saldo.
Circa la “composizione”, infatti, si può avere un Paese con un deficit pubblico totale al 3 per cento del Pil dovuto a un deficit tra entrate e spese correnti del 3 per cento e a zero investimenti pubblici, oppure un Paese che ha lo stesso 3 per cento di deficit totale, ma magari come risultato di un avanzo corrente del 2 per cento e investimenti pubblici pari al
5 per cento. È fin troppo evidente che i due casi sono radicalmente diversi in termini di effetti reali sull’economia. Ecco allora che Maastricht 2 deve basarsi sulla parte corrente del bilancio pubblico, che deve essere portata in avanzo corrente, aggiungendo a questo risultato un “premio”, e cioè per ogni 1 per cento di avanzo corrente si può fare un 2 per cento di investimenti pubblici. Circa il “livello delle spese e delle entrate”, anche a deficit e debito zero, occorre tener conto che “sotto il 40 l’Europa campa, e sopra il 40 l’Europa crepa”. Si tratta cioè di sapere che il livello della pressione fiscale, quando supera il 40 per cento del Pil, esercita un freno sulla crescita economica. Pertanto, quando in Europa si parla tanto di “armonizzazione” dei sistemi fiscali, occorre dire con chiarezza qual è la meta finale: più tasse per tutti, o meno tasse per tutti? Infatti, il deficit può essere portato a zero tagliando la spesa e tagliando le tasse, oppure aumentando la spesa e aumentando ancor di più le tasse. Solo che nel primo caso si ottiene più crescita,nel secondo caso meno.Sul fronte della Bce, l’Europa ha accettato supinamente il super-euro, lasciando che la moneta unica passasse da un cambio inferiore alla parità rispetto al dollaro (0,85 a inizio
2002), a un picco che ha sfiorato il rapporto 1,60 dollari per euro nell’estate 2008. Per capirci meglio, è come se la vecchia lira fosse passata da 2.225 a 1.225 lire rispetto al dollaro e proporzionalmente si fosse apprezzata anche verso lo yuan cinese, che si è agganciato al dollaro per decisione politica di Pechino e non per valutazione dei mercati!
Come si può pensare che riforme strutturali e capacità imprenditoriali possano determinare
aumenti di produttività del 50 per cento in quattro anni solo per compensare il 50 per cento di apprezzamento dell’euro? E tutto questo, sull’altare di un preteso rigore antiinflazionistico di fronte a un’inflazione da costi di materie prime in gran parte incontrollabile attraverso gli strumenti della politica monetaria e valutaria. Di fatto, l’apprezzamento dell’euro, più che combattere l’inflazione, ha frenato la crescita economica europea. Il trade-off che emerge per il periodo 2003-2008 è che per ogni 1 per cento d’inflazione in meno si è ottenuto un 2 per cento di crescita in meno.
Ecco allora che il combinato disposto di due princìpi sacrosanti, mal gestiti e trasformati in due totem ottusi, ha determinato e determina uno schiacciamento della crescita economica nell’intera area euro. D’altra parte, quelle stesse autorità di politica economica europee (Commissione e Bce) non smettono di redarguire i governi circa la necessità delle
riforme strutturali. Ma quelle autorità pensano sul serio che per costringere i governi europei a fare le riforme strutturali sia meglio da parte loro costringere tutta l’Europa a crescere, se tutto va bene, all’1 invece che al 3 per cento? Ritengono che fare le riforme strutturali da parte di qualunque governo sia più facile quando l’economia è a crescita zero o sottozero, oppure quando, con più solide e intelligenti politiche di bilancio pubblico e politiche monetarie e valutarie, potrebbe crescere almeno al 3 per cento e indipendentemente dal resto del mondo? Sanno che dal 2003 al 2008 il super-euro è costato all’Europa circa 600 miliardi di euro di Pil in meno? Sanno che due terzi delle possibilità di crescita di ogni Paese europeo dipendono dalle loro decisioni, e soltanto un terzo dipende da quelle dei governi nazionali?
E come agisce il super-euro sull’inflazione, ora che il petrolio è calato sotto o intorno ai 40 dollari al barile?
Ecco allora il nodo istituzionale e politico per chi vuole essere sul serio europeista: fare un salto di qualità forte per costruire gli Stati Uniti d’Europa e chiarire che la politica economica non è una faccenda tecnico-burocratica, ma è politica, anzi è l’essenza della polis.
È la politica che deve decidere sulle tasse dei cittadini e sulle spese pubbliche che possono
e debbono essere fatte con quelle tasse, senza far pagare alle future generazioni l’illusione che esistano oggi pasti gratis (cioè il finanziamento a deficit e a debito pubblico), ma anche con la consapevolezza che la polis deve costruire condizioni di opportunità e sviluppo, senza le quali equità e giustizia sociali sono solo affermazioni furbesche e ipocrite perché, se prive di risorse vere, si penalizzano proprio le fasce più deboli e le nuove generazioni.

   
   
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