Marzo 2009

CORSI E RICORSI STORICI

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Dalla crisi al futuro

Ennio Rebaudengo Pierfrancesco Severi

 

 
 

Dobbiamo dunque arrenderci all’avvento del peggio, malgrado la storia mostri il frequente risorgere dei popoli che hanno attraversato le prove più dolorose?

 

In un celebre discorso a Indianapolis (12 aprile 1959), John F. Kennedy fece notare come il termine cinese weiji, tradotto con “crisi”, fosse composto da due ideogrammi che indicavano, rispettivamente, “pericolo” e “opportunità”. E aggiunse che, di fronte ai crescenti progressi tecnologici e scientifici dell’URSS, era necessario reagire al rischio di un’imminente perdita di terreno spronando gli americani a vincere la sfida per la conquista dello spazio e a utilizzare l’energia atomica, l’automazione e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione per sconfiggere dovunque la povertà.

L’ideogramma cinese che indica la parola “crisi”: pericolo ma anche opportunità
L’ideogramma cinese che indica la parola “crisi”: pericolo ma anche opportunità


Da allora, questa parola cinese è stata variamente citata per accreditare la tesi del capovolgimento delle situazioni di crisi in preziose occasioni di risanamento. Peccato che – come hanno osservato alcuni esperti di lingua cinese – wei designi effettivamente “pericolo”, ma ji indichi il “punto cruciale” e non (o non tanto) “opportunità”.
Se, sotto il profilo filologico, la spiegazione del nesso tra wei e ji non è del tutto vera, certo è ben trovata e, come artificio retorico, può risultare abbastanza efficace non solo nel sorreggere le speranze e nel mobilitare le energie collettive a venir fuori da situazioni di grave difficoltà, ma anche nell’individuare a posteriori le cause della crisi. È stato sottolineato che la distorta interpretazione dei due ideogrammi non è stata casuale. Oltre a ricalcare l’ambiguità del greco krisis in quanto capacità di distinguere e decidere in un modo o nell’altro, essa si adatta spontaneamente alla nostra forma mentis e alle nostre tradizioni. In particolare con la dottrina della redenzione (che offre anche al peggior peccatore la possibilità di risollevarsi dopo ogni caduta) e con il Credo nella resurrezione dei morti, il Cristianesimo ha costituito la premessa maggiore di questo atteggiamento. Sul suo tronco si è innestata poi, nel XVIII secolo, la teoria del “ringiovanimento” dei popoli dopo ogni fase di declino. Da qui, fra l’altro, le espressioni ottocentesche “Rinascimento” (termine coniato da Michelet e ripreso da Burckhardt) e “Risorgimento” (si trova nell’Alfieri, ma cambia senso con la pubblicazione nel 1847 dell’omonimo giornale di Cesare Balbo e del Cavour).
Il primo e più strenuo assertore di questa idea è stato Herder, che si serve del topos della decadenza di Roma per esaltare il rinnovamento portato dai popoli del Settentrione. In un mondo «snervato, disfatto, deserto d’uomini, abitato da esseri senza vigore», i giovani virgulti delle tribù germaniche, trapiantati nelle terre meridionali, introducono fresca linfa. Quelle che noi chiamiamo “invasioni barbariche” (e i tedeschi, non a caso, “migrazioni di popoli”) per lui hanno prodotto una transizione virtuosa dal Decline and Fall of the Roman Empire alla nuova Europa. L’implicazione celata in simili posizioni è che l’iniziale regresso da una civiltà più raffinata a una più grezza costituisce il prezzo della rigenerazione. Si tratta di una concezione ripresa più tardi da quanti, rimpiangendo l’assenza di una Riforma protestante in Italia, hanno riconosciuto la fecondità della relativa rozzezza di Lutero rispetto alla colta, ma spossata eleganza delle corti papali di Leone X e di Clemente VII. Georges Sorel, infine, ha applicato questo schema alla rivoluzione socialista: i nuovi barbari, i proletari, cancelleranno alcune conquiste delle civiltà precedenti, ma strapperanno l’umanità alla stagnazione e al declino.
Nel periodo della massima fioritura di tali convinzioni, Holderlin difende in versi la tesi secondo cui ogni popolo «con la morte ritorna all’elemento / dove per una nuova giovinezza, come in un bagno si ristori. Agli uomini / la grande gioia è data, che in se stessi / trovan la forza di ringiovanire». E afferma perentoriamente che «là dove cresce il pericolo / cresce anche ciò che ti salva».
Quando si tocca il fondo, non si può dunque che risalire? Già, ma, tornando al presente abbiamo davvero toccato il fondo dell’attuale crisi finanziaria ed economica, oppure quella che conosciamo è soltanto la punta dell’iceberg? Si riuscirà, inoltre, a costruire – a livello mondiale – un sistema di regole in grado di imporre dei limiti ai mercati finanziari, senza soffocarne il dinamismo? La Fine del laissez-faire prevede ampiamente nel 1926 le forti resistenze che si incontreranno a modificare i presunti meccanismi di autoregolazione del mercato: voler convincere la City di Londra in vista del
bene pubblico – dice Keynes – è come discutere con un vescovo sulla bontà dell’Origine delle specie di Darwin.
Bernard-Henry Lévy ha sostenuto che l’attuale crisi finanziaria mondiale è «l’equivalente, fatte le debite proporzioni, di quello che fu per il comunismo il crollo del Muro di Berlino». Se è così, anche le scosse di assestamento per stabilizzare i mercati saranno piuttosto prolungate e provocheranno il trasferimento di interi blocchi di potere: in termini comparativi, si assisterà forse al progressivo declino economico degli Stati Uniti e dell’Europa, finora i maggiori detentori della ricchezza del pianeta, rispetto alla crescita dei Paesi emergenti.
L’insicurezza fa parte della condizione umana, solo che oggi la percezione e la consapevolezza dei rischi (intesi, con Ulrich Beck, quale messa in scena e anticipazione di possibili catastrofi) sono enormemente aumentate in un mondo globalizzato, le cui parti sono interconnesse, ma dove la comprensione dei processi è diventata più opaca e i pericoli sono diventati meno calcolabili. Dobbiamo dunque arrenderci all’avvento del peggio, malgrado la storia mostri il frequente risorgere dei popoli che hanno attraversato le prove più dolorose? Si pensi solo all’Italia: nel Rinascimento, periodo in cui è saccheggiata da eserciti stranieri e lacerata da interne divisioni politiche, alcune sue parti riescono a innalzarsi alle vette della cultura umana; essa trova poi la sua riscossa dopo la disastrosa sconfitta di Caporetto, e si risolleva infine, rapidamente, nella fase della Ricostruzione, dopo che il 65 per cento del potenziale industriale era stato distrutto dalla Seconda guerra mondiale, e quando il salario medio ammontava (nel 1945) a circa la metà di quello del 1939.
Possono, da soli, questi esempi, avere effetti sulla realtà attuale? La fede e la volontà difar credere producono, senza dubbio, mutamenti decisivi. Suscitano grandi speranze che, in campo politico, tendono però a estinguersi gradualmente qualora non si intravedano scadenze ragionevoli per la loro realizzazione (a meno che non vengano manipolate e ridotte a dogmi da un’ideologia armata).

Nello Wrona
Nello Wrona


Norberto Bobbio riteneva che l’etica del laico non dovesse basarsi sulla speranza, ma sulla responsabilità. Una certa dose di fiducia sulla nostra attitudine a sfidare i pericoli è benvenuta se funziona da anabolizzante, da artificiale ormone della crescita. Ma non basta, perché il futuro dipende dalla grande politica, dalle circostanze e dalla capacità di ciascuno di incidere, per quanto possibile,sull’elaborazione delle scelte collettive.
Yes,we can?
Almeno, proviamoci!
Chi vive in un’epoca di crisi è portato a misurarne la durata sui tempi brevi della vita umana: il raccolto di quest’anno è andato male, ma un altr’anno andrà meglio; è difficile,
pensano tutti, che peste, grandine, gelate e inondazioni capitino per più stagioni consecutive; profeti e politici rischiano l’impopolarità se avvertono che forse la crisi non finirà l’anno prossimo. Più lo sguardo degli storici si sposta verso il passato, invece, e più la crisi diviene la chiave interpretativa di intere epoche: come quel secolo terribile, a cavallo fra Medioevo e modernità, che i manuali scolastici indicano con il titolo“La crisi del Trecento”. Eppure, guardandolo da vicino viene da chiedersi se quella di crisi non sia, almeno in quel caso, un’etichetta fuorviante, capace di evocare disastri e sofferenze, ma non di far cogliere le novità che emergevano dalle convulsioni di una società traumatizzata.
Sul piano congiunturale, il Trecento ne ha viste abbastanza da farci rallegrare di non esserci nati: è allora che si stabilizza la formula dell’Apocalisse, “peste fame guerra”, da cui per secoli gli europei pregheranno d’essere liberati. Prima, la peste era soltanto una malattia di cui si parlava nei libri, nella Bibbia o nei romanzi su Troia, e per immaginare che potesse tornare ad ammucchiare i cadaveri nelle strade di un mondo fervido di iniziative e traboccante di ottimismo com’era quello medioevale ci voleva la fantasia di un moralista visionario: come quell’anonimo pittore che affrescò il “Trionfo della Morte” nel Camposanto di Pisa, ben prima che la peste facesse la sua apparizione in Europa. Ma quando venne davvero, nel 1348, offrendo fra l’altro al Boccaccio la cornice per il Decameron, aprì tali vuoti nei quartieri sovraffollati delle città industriali da alimentare l’idea, certamente esagerata,che metà della popolazione soccombesse in pochi mesi.
Perfino uno shock di quelle dimensioni, tuttavia, poteva essere riassorbito da un’Europa giovane e vitale, la cui struttura demografica era simile a quella odierna del Terzo mondo: ma da allora la peste si ripresentò implacabilmente ogni dodici o quindici anni, impedendo ogni ripresa, sicché all’inizio del Quattrocento gli esattori delle tasse (è grazie ai loro registri che conosciamo questi dati!) trovavano ovunque che il numero dei contribuenti si era dimezzato rispetto ai tempi d’oro.

Nello Wrona
Nello Wrona


Ma il Trecento è anche un secolo di guerre crudeli e logoranti, per una combinazione micidiale di fattori. Esistono ormai Stati organizzati, capaci di perseguire una politica di espansione e di conquista, come l’Inghilterra, che per oltre un secolo continuò ostinatamente a illudersi di poter conquistare la Francia, o quello Stato Visconteo che da Milano sembrava avviato a unificare l’Italia sotto il segno della tirannide. Questi Stati sono capaci di rastrellare denaro, fra le lamentele dei contribuenti vessati, e di investirlo nella guerra; ma rispetto agli obiettivi il denaro è sempre troppo poco, in un’economia cresciuta troppo in fretta e che soffre d’una cronica carenza di liquido. Perciò gli eserciti sono piccoli e operano su scala locale, i mercenari in attesa degli arretrati badano più a saccheggiare le campagne che a combattere i nemici, e le guerre si trascinano senza fine, al punto che quella tra Francia e Inghilterra è passata alla storia come la Guerra dei Cent’anni.
Oggi i politologi parlerebbero di “conflitti a bassa intensità”: e tutti possiamo immaginare
quanto sia fuorviante questa definizione, se vista con gli occhi dei contadini ai quali gli uomini d’arme bruciavano le case, portavano via il bestiame e stupravano le figlie, o dei mercanti che non potevano mettersi in cammino per le varie fiere senza il rischio di essere bloccati sulle strade maestre da gente armata e nel migliore dei casi ritrovarsi in braghe.
Se si aggiunge che la massima autorità morale dell’Occidente cristiano, il Papato, offriva ai buoni cristiani lo spettacolo poco edificante di due pontefici rivali intenti a scomunicarsi a vicenda, e che a quest’epoca divampano le più feroci rivolte contadine e operaie che l’Occidente abbia conosciuto prima delle moderne rivoluzioni, non è difficile capire come mai per molto tempo gli storici abbiano parlato senza esitazioni e senza virgolette della crisi del Trecento. Eppure, da un po’ di tempo capita sempre più spesso di trovarle, quelle virgolette, attorno alla parola “crisi”, anche grazie ai nuovimateriali che continuano ad emergere dagli archivi (e già questo è un fatto che dà da pensare: quell’Europa in fiamme, dove però intanto era stata inventata la carta, ci ha lasciato una massa di documenti scritti enormemente superiore a tutto quello che era stato prodotto prima).
Si finisce così per fare una considerazione cinica, forse, ma inoppugnabile: a ogni ritorno della peste, tanto peggio per chi ci lascia la pelle, ma i vivi stanno meglio di prima. C’è chi ha ereditato dallo zio o dal cugino, chi ha visto sparire l’azienda concorrente, chi si ritrova libero di sposarsi e fare nuovi figli. Gli operai in città e i braccianti in campagna scoprono d’essere rimasti in pochi, e se il padrone non aumenta il salario si può sempre trovarne un altro che ha un gran bisogno di manodopera ed è disposto a pagare di più. I padroni protestano contro questi soprusi, esigono a gran voce leggi che fissino un tetto ai salari, ma intanto pagano, e la povera gente ha più soldi in tasca di quanti ne abbia mai avuti. Li usa per vestirsi meglio e per mangiare meglio: il consumo di vino e di carne è a livelli che non saranno superati prima dell’Ottocento, non ci sono mai state tante botteghe di macellaio, e quegli imprenditori che anziché velluti per i ricchi, come si ostinano a fare a Firenze, imparano a produrre solidi fustagni a buon mercato per la gente che lavora, scoprono che la crisi è anche un grandissimo affare, come capita soprattutto agli industriali padani.
Anche la guerra, ovviamente, è un buon affare; peccato per i poveracci che ci si trovano in mezzo, ma per i più accorti e i più fortunati il giro degli appalti, delle forniture, degli incarichi ben pagati si trasforma in un formidabile volano di mobilità sociale. Perfino le comunità contadine, che soffrono più di tutti, imparano a negoziare col governo la propria fedeltà, a ottenere autonomia politica e sconti fiscali in cambio dell’impegno di fortificare il villaggio e difenderlo dai nemici, e magari a liberarsi da un signore troppo esoso, accordandosi col nemico. Quelle che la storiografia borghese ha per troppo tempo aggiunto al passivo della crisi classificandole sbrigativamente come rivolte dettate dalla fame e dalla disperazione sono in realtà una scuola di politica, in cui gli abitanti delle campagne imparano molte lezioni e ne insegnano anche qualcuna a chi comanda.
Resta al passivo, apparentemente, l’ignominiosa spaccatura del Papato fra Roma e Avignone. Eppure, quell’esperienza frustrante indusse le migliori teste pensanti del mondo cattolico a chiedersi se dopotutto era un bene che la Chiesa fosse governata da un sovrano assoluto, e se le decisioni veramente importanti, anziché essere lasciate a un uomo solo, non dovevano piuttosto essere prese collegialmente, in un Concilio dove tutte le voci avessero diritto di rappresentanza. Per almeno due generazioni il conciliarismo apparve come la strada maestra per uscire dalla crisi e rinnovare dall’interno la Chiesa, adeguandola ai bisogni di un presente in tumultuoso mutamento.
Poi, come si sa, uno dei due Papi sconfisse l’altro, la dottrina conciliarista venne messa da parte, e Roma ricominciò a governare la Cattolicità come se non fosse accaduto nulla, in attesa che venisse il dottor Lutero a lacerare quell’illusione, provocando uno scisma e a sua volta illudendosi di poter dominare – magari dalla stessa Città Eterna – l’intera Cristianità.

   
   
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