Marzo 2009

LE RAGIONI PER CREDERE NEL FUTURO

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Contro i catastrofisti

Cristina Baltieri
Paolo Orlando

 

Coll.: Aldo Mereu
Bruno Bosco
Barbara Oldani
 
 

Ce la faremo. Soprattutto perché conosciamo a menadito l’arte di arrangiarsi, considerata il distintivo del nostro “spirito nazionale”. Arte riconosciuta senza timidezza e senza vergogna.

 

Ha scritto Paolo Rossi, storico delle Idee, che prima, durante e dopo il crollo del Muro, seguito dal crollo dell’Impero, sembrò a molti che fosse finita anche la lunga stagione dei grandi racconti epocali elaborati dai filosofi. Ma l’ottimismo era del tutto ingiustificato perché ai grandi racconti progressisti semplicemente si sostituirono quelli apocalittici:«Siamo pieni di sciamani travestiti da filosofi che ogni giorno ci dichiarano che loro sanno qual è la caratteristica fondamentale dell’età nella quale ci è concesso di vivere, che loro sanno qual è il problema fondamentale che, senza saperlo, abbiamo tutti di fronte.
Seminano paura e disperazione, riescono ad affascinare folle di giovani e di anziani, e discutono tra di loro, spesso con notevole acrimonia, per stabilire se sia vero che “solo un Dio ci può salvare”, oppure se sia vero che nessuno ci salverà».

Ph. Serena Colazzo
Ph. Serena Colazzo

Ai “grandi racconti” dei filosofi, alle loro invincibili tendenze profetiche e smanie futurologiche c’è una sola tesi da contrapporre: quella di una varietà irriducibile all’unità, del totale non-senso della riduzione a unità di tutto ciò che accade.
In questo contesto si possono elencare, come sosteneva nel ‘600 Francis Bacon, alcune «ragioni che possono preservarci dalla disperazione»? E gli esseri umani possono accontentarsi di speranze ragionevoli?
Bacon riteneva che, nel suo tempo, ci fossero ventuno ragioni che autorizzavano a nutrire “ragionevoli speranze” entro un futuro incerto e difficile. Le speranze non sono garantite in partenza. Non sono sorrette da una Grande Speranza che le renda ragionevoli. Le rendono tali solo alcune congetture. E le congetture sono supposizioni. Assomigliano alle ragioni che aveva Cristoforo Colombo quando si accingeva, su fragili caravelle, ad iniziare un viaggio avventuroso. Allora: che speranze abbiamo, che possano preservarci dalla disperazione, e che ci mantengano in cammino? Bacon ne enumerò ventuno. Noi ne citeremo soltanto due.
Da sempre, questo è il più lungo periodo di pace in Europa; 500 milioni di persone in 27
Paesi vivono in regimi democratici; in nazioni un giorno povere, come Portogallo, Grecia, Irlanda, oggi si vive molto meglio, e in nazioni ancora povere, come Bulgaria e Romania, si vivrà presto meglio; da qualche anno l’Europa cresce più in fretta e crea più posti di lavoro, (o ne perde molti meno, in questi tempi di crisi), nonostante le leggende che circolano; Erasmus, il programma di scambio per giovani universitari, ha vent’anni, funziona bene e coinvolge un milione e mezzo di studenti di 220 università; l’incompatibilità della pena di morte con l’appartenenza all’Unione europea taglia in partenza la possibilità stessa di ogni proposta di reintrodurla; siano forse tutti abituati a lamentarci molto, ma l’81 per cento degli europei si dichiara “molto” o “abbastanza soddisfatto” della propria vita.
In secondo luogo, è soprattutto da sottolineare, tra le “ragionevoli speranze”, l’espansione della democrazia nel mondo contemporaneo. Si tratta di un argomento considerato poco intrigante dagli intellettuali cosiddetti “progressisti” quasi esclusivamente interessati all’antitesi amico-nemico e alla fuoriuscita dall’Occidente. Come ha chiarito ai colti e alle inclite Anthony Giddens, fra la metà degli anni Settanta e il
2005 il numero degli Stati democratici nel mondo è triplicato.
Dopo il 1974 il Portogallo, e poco dopo la Spagna e la Grecia, sono diventati Paesi democratici. Fra i 125 Stati che hanno vissuto un’esperienza democratica negli ultimi trent’anni, in 14 si è manifestata un’inversione di tendenza, ma nove di essi sono tornati alla democrazia. Rileva Giddens: «Se mi si chiedesse il motivo di questa espansione della democrazia a livello mondiale, risponderei designando semplicemente un simbolo: quello di un’antenna parabolica per la tv satellitare». Il desiderio di essere informati, di conoscere le vicende del mondo, sembra da tempo configurarsi come una forza irresistibile. Che continuerà ad avere effetti esplosivi.
Tenendo presente tutto ciò, passiamo alle considerazioni che riguardano la situazione di casa nostra. L’Italia, si sa, è un Paese che ha costantemente fatto impazzire gli economisti. In Ricchi per sempre?, di Pierluigi Ciocca, un grafico eloquente dimostra come proprio in questi anni segnati dalla convinzione del declino economico gli italiani abbiano raggiunto il massimo valore di tutta la storia moderna in termini di ricchezza netta privata.
Espresso in termini di rapporto tra questa ricchezza e il reddito disponibile del settore privato, siamo di poco sotto il valore 9: cioè l’insieme di tutte le attività mobili, immobili e immateriali è nove volte il reddito disponibile annuo. È un dato eccezionalmente elevato, se pensiamo che soltanto nel 1990 questo rapporto era poco al di sopra delle cinque volte, e che alla fine degli anni Settanta si era giunti in prossimità di quella soglia, dopo una stagnazione ventennale attorno a 4-4,5 volte. Ma la cosa che manda in tilt gli economisti, e anche qualsiasi modesto analista,è che, contemporaneamente a questa crescita della ricchezza netta, il reddito annuo è crollato fino allo zero! La ricchezza cresce, il reddito si ferma. Come è possibile? Senza dubbio, l’impennata della ricchezzaha a che fare con il rafforzamento della moneta, con l’introduzione dell’euro che ha eliminato rischi di cambio e rischi Paese, e ha quindi consolidato il valore della ricchezza finanziaria e, soprattutto, ha aperto la strada dell’indebitamento. Infatti questo alto livello di ricchezza ha a che fare con l’espansione dei valori immobiliari e dei terreni, e della vera e propria ondata di acquisti dei primi anni Duemila. I prezzi degli immobili, in euro, sono cresciuti. Gli italiani si sono indebitati, a tassi decrescenti ma in moneta pesante, per acquistare case e terreni. Si è ridotto il loro reddito disponibile, ed è aumentata la loro ricchezza.
In coincidenza con l’introduzione dell’euro la società civile ha fatto una scelta a favore dei patrimoni, che si sono consolidati, resi più sicuri da rischi esterni. L’indebitamento è cresciuto; tuttavia non ha messo a rischio la stabilità finanziaria delle famiglie, anche perché il valore dei beni acquistati è salito parecchio. In Europa, almeno, a fronte dei mutui contratti, immobili e terreni continuano a costituire una contropartita di buona qualità. Certo, ne hanno risentito i consumi, in particolare quelli di beni durevoli, e qui trova un’ulteriore spiegazione il calo della dinamica del reddito.
Per sprofondare ancora di più nei paradossi che tormentano gli economisti, dobbiamo dare un’occhiata alle tabelle dell’Ocse: esse non registrano per l’Italia alcun calo preoccupante della propensione al risparmio, che si ritiene possa rimanere stabile. Nel mondo, i primi anni Duemila sono stati caratterizzati dal crollo del tasso di risparmio, passato in Giappone dal 12 al 3,2 per cento, negli Stati Uniti dal 7,6 del 1992 a una percentuale addirittura negativa del -0,4 per cento del 2005, in Canada dal 13,3 all’1,2 per cento.
L’Europa, al contrario, ha tenuto le sue posizioni, grazie a un sistema finanziario abbastanza solido, ben governato, vigilato da istituzioni pubbliche, che non ha consentito acquisti di ricchezza con indebitamento senza requisiti e senza freni. La Germania ha visto negli anni Duemila una lieve crescita del suo tasso di risparmio dal 9,3 del 2000 al 10,7 per cento, mentre la Francia si è mantenuta saldamente al primo posto con il suo 11,5 per cento nel 2005. Nella stessa tabella l’Italia ha registrato un dato 2004 pari a quello francese: base solida per affrontare gli anni del disordine e della crisi! Ebbene, la spiegazione che vien data di questo fenomeno mondiale è inquadrata nella teoria del “ciclo vitale del risparmio” di Franco Modigliani. Le società che sperimentano un forte invecchiamento della popolazione registrano un calo, fino al crollo, della propensione al risparmio. In teoria, più la popolazione invecchia, più la ricchezza accumulata dovrebbe ridursi per finanziare il consumo. In questo caso sembrerebbe proprio che l’Europa faccia eccezione, e l’Italia per prima, ribellandosi, almeno per ora, al modello Modigliani.
La tenuta sostanziale del risparmio e l’accrescimento della ricchezza delle famiglie sono fenomeni probabilmente legato l’uno all’altro. E la spiegazione è di natura sociale. Di fronte alla paura per il futuro e alla difficoltà di produrre redditi crescenti in termini reali, ricchezza e risparmio hanno costituito una sorta di ammortizzatori sociali. Certo, se si continuerà a ridurre il tasso di crescita del Pil, prima o poi anche la ricchezza si sgretolerà. Ma è come se la società italiana avesse voluto negli anni scorsi fare scelte d’investimento, come si fa una buona provvista al cospetto di un lungo inverno.

Rosa Pugliese
Rosa Pugliese


Ce la faremo comunque, come abbiamo fatto sempre in passato. Parola di Ilvo Diamanti, secondo il quale ce l’abbiamo sempre fatta, tanto più se e quando ci davano per spacciati: dopo la guerra, dopo gli anni foschi del terrorismo e della crisi. Dopo la fine della prima Repubblica, dopo Tangentopoli e dopo la recessione. Quando nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato che saremmo riusciti ad entrare nell’Ue. E dopo Calciopoli, quando abbiamo addirittura vinto i campionati del mondo. Ce la faremo soprattutto perché conosciamo a menadito l’arte di arrangiarsi, considerata il distintivo del nostro “spirito nazionale”. È un’arte ammessa da un’ampia quota di popolazione senza timidezza e senza vergogna. Perché quell’arte – nella quale siamo insuperati maestri – riflette e descrive la nostra capacità di adattamento, che è flessibilità mentale, che può sconfinare senza rimorso nel trasformismo opportunista, che non riflette soltanto i nostri vizi, ma anche alcune importanti virtù. Che descrive, in particolare, la capacità creativa e innovativa degli italiani in molti campi.
Dice Diamanti: gli italiani si immaginano un popolo di lavoratori, di imprenditori, di artisti, di artigiani e di commercianti; magari anche furbi, insofferenti alle regole, diffidenti verso lo Stato, però capaci di reagire alle difficoltà più difficili su base individuale e, ancor più, familiare e localista. La crisi, dunque, non deve spaventare. Sarà dura, ma ce la faremo anche questa volta, anche se quell’arte dà qualche segnale di indebolimento, denuncia alcuni scricchiolii, facendoci arretrare un po’ dal capo innovativo verso quello difensivo. La famiglia e il localismo, come le appartenenze professionali, rischiano di diventare luoghi di autotutela per interessi concorrenti e irriducibili.
Rischi collegati a questi fenomeni visibili non più soltanto in filigrana: i fili dell’arte di arrangiarsi possono logorarsi o diventare difficili da intrecciare; il dinamismo molecolare
della società – cui fanno capo le indagini di De Rita e del Censis – può produrre effetti dissociativi, può accorciare e schiacciare l’orizzonte delle strategie personali perché, a differenza del passato, si sta perdendo l’idea del futuro. D’altra parte, è il futuro stesso, come idea, a voler passare di moda, perché reso poco attuale dal presente infinito. Si profila una sorta di irresistibile tendenza a guardare indietro, a discutere del passato che non passa mai, che impedisce di guardare e di marciare in avanti senza soluzione di continuità, come accadeva una volta.

In un mercatino
dell’antiquariato,a Vico Pisano
In un mercatino dell’antiquariato,a Vico Pisano - Nello Wrona

Il fatto è che la nostra società ha conquistato un benessere notevole, ha appreso i piaceri del viver bene, è diventata pingue, si è impigrita, ha parcheggiato i giovani in angoli confortevoli, ma periferici. È una società che non ha più il fisico di un tempo. Non ha neanche la rabbia di una volta, anche se finge di essere incavolata: «Ha smarrito un po’ dello spirito animale che le permetteva di reagire e innovare comunque e dovunque». E teme di perdere il benessere conseguito con tanta fatica, anche perché deve fare i conti con altre società una volta lontane, che la globalizzazione ha reso vicine o contigue, e che ora ci inquietano. Forse il nostro eterno trasformismo sta mutando in camaleontismo? È anche questa un’uscita di sicurezza che gli italiani devono perfezionare per venire a capo della crisi che coinvolge il pianeta?

   
   
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