Marzo 2009

RECESSIONE E DEBITO

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I due volti della crisi

Aldo Serafini

 

 
 

I Paesi avanzati devono affrontare il rovescio economico più serio dai tempi della Grande Depressione. Ma quanto lunga e profonda sarà questa recessione?

 

Parecchi studiosi hanno osservato che Banca d’Italia e Ministero dell’Economia sembrano
avere visioni diverse sulla crisi mondiale e sulle sue implicazioni per la politica economica. La diversità di opinione, apparente o reale che sia, riflette un dilemma genuino. La crisi ha due caratteristiche, l’una e l’altra rilevanti per l’Italia. A seconda di quale si vuole enfatizzare, quelle implicazioni possono prospettarsi in modo diverso.
Il primo aspetto è l’eccezionale gravità della crisi economica in corso. Nessuno può dire con certezza quanto durerà la recessione, né quanto sarà profonda. Tuttavia, è utile un confronto con altre grandi crisi. In uno studio recente sui Paesi industriali ed emergenti (quasi tutti nel secondo dopoguerra), Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart dimostrano che in media le grandi crisi finanziarie sono seguite da un periodo di crescita negativa di circa due anni. Cioè, forse potremmo essere già a metà del guado. Tuttavia, in media la perdita cumulata di reddito durante l’intera recessione arriva a uno spaventoso -9 per cento. Da questo punto di vista, il -2 per cento previsto dalla Banca d’Italia per il 2009 pare una benedizione.
Nel nostro Paese le imprese e le famiglie non sono molto indebitate. Ciò è motivo di conforto. Ma, al contrario di molti episodi passati, questa recessione coinvolge il mondo intero. Secondo la Banca mondiale, nel 2009 il commercio internazionale scenderà del 2,1 per cento, dopo essere cresciuto in media dell’8-9 per cento nei cinque anni precedenti. Intorno alla fine dello scorso anno le esportazioni sono crollate quasi dappertutto, anche in Cina, in Taiwan, in Germania. È vano illudersi che il settore manifatturiero italiano non sia condizionato da questo crollo degli scambi planetari. Inoltre, il nostro settore produttivo sconta un lento ma grave accumulo di perdita di competitività, dovuto alla bassa crescita della produttività, alle carenze infrastrutturali del Paese, al colpevole abbandono del Sud alla deriva mediterranea. Il secondo aspetto della crisi è quello finanziario. Come si è verificato più volte nel passato, non si può escludere che l’aumento dell’avversione al rischio sfoci nella crisi debitoria di uno Stato sovrano, soprattutto tra i Paesi emergenti più indebitati. Quali altri Stati possano essere contagiati da un tale evento è ancora più imprevedibile. E l’Italia, con il suo gigantesco debito pubblico, (oltre 200 miliardi di emissioni previste nel 2009), non è del tutto al riparo da questi rischi.
In apparenza, queste due caratteristiche della crisi spingono verso differenti impostazioni di politica economica. La gravità della recessione mondiale suggerirebbe di sostenere l’economia anche con la politica fiscale. Ma la fragilità finanziaria e il debito pubblico spingono nella direzione opposta,cioè verso un maggior rigore nei conti pubblici. L’apparente dualismo tra Bankitalia e dicastero dell’Economia riflette questa antinomia che tuttavia, a ben vedere, è più apparente che reale. Come osserva lo stesso Bollettino dell’Istituto di Emissione, il miglior contributo alla sostenibilità dei conti pubblici è riavviare in modo duraturo la crescita economica.
Finora, il governo ha lasciato lavorare gli stabilizzatori automatici: tolleriamo un aumento del disavanzo e lo sforamento dei parametri di Maastricht nella misura in cui ciò riflette il rallentamento dell’economia. Ma, praticamente al contrario di tutti gli altri Paesi europei, evitiamo provvedimenti che sostengano l’economia attraverso l’emissione di nuovo debito pubblico. Questa impostazione è stata apprezzata anche in recenti valutazioni delle agenzie di rating: al contrario di Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, ma anche Inghilterra, l’outlook per il debito pubblico italiano per ora rimane più o meno stabile.

Nello Wrona
Nello Wrona


Tuttavia, una lettura attenta dei vari commenti rivela che questa diversa valutazione riflette anche, e forse soprattutto, il differente grado di indebitamento di tutta l’economia, più che l’andamento dei conti pubblici. Mentre tutti gli altri Paesi dell’Europa del Sud (e il Regno Unito, a nord) hanno un disavanzo con l’estero pari al 10 per cento, e magari oltre, del reddito nazionale, l’Italia è ferma intorno al 2 per cento. Cioè, più che di un contenimento del disavanzo pubblico, le economie del Sud Europa avrebbero bisogno di politiche strutturali più incisive e di un forte recupero di produttività. A questo riguardo, anche l’Italia potrebbe fare di più. Non soltanto per sostenere i consumi, ma anche per alleggerire i costi delle imprese, per proteggere i redditi dei disoccupati, per aiutare le piccole e medie imprese a sostenere l’impatto della stretta creditizia, e per favorire la crescita della produttività con riforme verso un’economia più concorrenziale e più flessibile. Come più volte – inutilmente – suggerito, tutti sanno come compensare eventuali maggiori disavanzi: comprimendo l’evoluzione futura della spesa pensionistica. Uno scambio intertemporale (più sostegno all’economia e agli inoccupati, oggi; più rigore
nella spesa pensionistica domani) sarebbe equo dal punto di vista intergenerazionale ed efficiente dal punto di vista economico.

Berlino: Un mimo davanti alla sagoma della Gedächtniskirche, la chiesa simbolo della volontà di Berlino di ricostruire la città nel dopoguerra. - Dario Carrozzini
Berlino: Un mimo davanti alla sagoma della Gedächtniskirche, la chiesa simbolo della volontà di Berlino di ricostruire la città nel dopoguerra. - Dario Carrozzini


I più lungimiranti uomini della maggioranza e dell’opposizione governativa lo propongono. Sarebbe un errore tenere un atteggiamento rinunciatario e fatalista di fronte a una crisi che sarà ricordata come la più violenta del dopoguerra.
Ha scritto Dani Rodrik, docente di Economia politica internazionale ad Harvard: l’economia mondiale è entrata nel 2009 con una quantità di ansie e incertezze che non ha precedenti nella storia recente. E ha aggiunto: anche se la crisi finanziaria è sembrata circoscritta agli Stati Uniti e all’Europa, per parecchio tempo perdureranno le incertezze sulla portata che avranno le sue ripercussioni. I Paesi avanzati devono affrontare il rovescio economico più serio dai tempi della Grande Depressione. Ma quanto lunga e profonda sarà questa recessione, e in che misura colpirà le Nazioni emergenti e i Paesi in via di sviluppo?
Rodrik afferma che non abbiamo risposte sicure a queste domande, anche perché le conseguenze dipenderanno dall’azione dei leader politici. Se le azioni saranno quelle giuste, l’economia mondiale potrà iniziare a ripartire dalla fine di quest’anno. E indica la lista delle cose alle quali stare attenti.
La risposta americana sarà sufficientemente e costantemente “coraggiosa”? Barack Obama ha promesso di sì, rievocando in parte il celebre appello di Roosevelt a «sperimentare sempre e con coraggio», lanciato nel momento più nero della Grande Depressione, nel 1932. Il nuovo Presidente americano si è circondato di un gruppo di economisti di alto livello. Occorre vedere se costoro saranno disposti a provare idee nuove, non ancora collaudate: in altre parole, a sperimentare alla Roosevelt. In particolare, sarà necessario andare oltre le politiche di stimolo keynesiane, sanando le profonde ferite che sono state inferte alla fiducia nell’economia, che è alla base della crisi attuale.
L’Europa riuscirà ad agire in modo realmente coordinato? Questo avrebbe potuto essere il momento del Vecchio Continente. Dopotutto, la crisi è nata negli Stati Uniti e ha costretto la politica americana a concentrare l’attenzione sui suoi problemi interni, lasciando spazio ad altri Paesi per esercitare una leadership globale. Invece, la crisi ha messo in evidenza le divisioni profonde interne all’Europa, su qualunque cosa, dalla regolamentazione finanziaria alle misure d’intervento decisive. La Germania ha storto la bocca sulle iniziative per il rilancio dell’economia. Se l’Europa vuol pesare sulla scena internazionale, dovrà agire con maggiore unità d’intenti e addossarsi una maggiore responsabilità.
La Cina riuscirà a reggere l’urto dell’onda lunga? Il rischio maggiore sul piano economico
è una risposta fiacca da parte americana, ma quello che succede in Cina potrebbe avere conseguenze più profonde e durature nel quadro storico generale. Perché la Cina è una terra di colossali tensioni e fratture nascoste, e se la situazione economica si facesse troppo difficile, queste potrebbero esplodere in conflitti aperti.
I sinologi occidentali dissentono sul tasso di crescita economica necessario per creare posti di lavoro per i milioni di cinesi che ogni anno affluiscono nelle città del Celeste Impero. Ma è praticamente certo che la Cina rimarrà al di sotto di questa soglia nel 2009. Questo spiega il flusso quasi incessante di misure messe in campo da Pechino. Ma tutto questo sarà sufficiente a scongiurare il rallentamento di un’economia che negli ultimi anni è stata appesa alla domanda estera?
Se le tensioni sociali dovessero crescere, il governo cinese risponderà probabilmente con una maggiore repressione, danneggiando sia i suoi rapporti con l’Occidente sia la sua stabilità politica sul medio termine. L’esperienza dimostra che le democrazie hanno un vantaggio sui regimi autoritari quando si tratta di gestire le ricadute delle crisi. Le democratiche India (nel 1991) e Corea del Sud (nel 1997-1998) riuscirono a rimettere rapidamente in carreggiata la loro economia, mentre il Cile di Pinochet (nel 1983) e l’Indonesia di Suharto (nel 1997-1998) rimasero impantanati nella recessione.
Ci sarà abbastanza cooperazione economica globale? Quando le esigenze interne diventano prioritarie, la cooperazione economica planetaria segna il passo. Il Fondo monetario internazionale ha reagito a singhiozzo, poi ha creato una struttura per l’erogazione di prestiti a breve termine, che comunque dovranno essere aumentati col crescere della pressione da parte dei Paesi emergenti, mentre l’Organizzazione mondiale del commercio ha sprecato tempo prezioso con l’irrilevante tornata negoziale di Doha, deconcentrando le sue energie necessarie a controllare e applicare gli impegni del G20 a non introdurre barriere commerciali.
In ultima analisi: i politici devono diffidare delle vecchie formule e dimenticarsi dicotomie insignificanti come “Stato contro mercato” oppure “Stato-Nazione contro globalizzazione”. Devono affrontare la realtà: le regolamentazioni nazionali e i mercati internazionali sono strettamente legati tra loro (e hanno bisogno gli uni degli altri). Più pragmatismo e creatività metteranno in campo nella loro azione, più rapidamente potrà risollevarsi l’economia mondiale.

   
   
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