Marzo 2009

2009. L'anno del Bue

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Le parole del nostro scontento
Aldo Bello  
 
 

Tentacolare.
La madre
di tutte le parole
è “crisi”. In greco
classico vuol dire
un mucchio di
cose, tra le quali
separazione,
scelta, giudizio.
Ma il verbo krino
significa anche
decidere.

 

Gomorra, innanzitutto; e poi casta, intercettazioni, ancora mani pulite e tangentopoli,
e sicurezza, gogna mediatica,strage; e ancora: rivoluzione, visto che ricorre il trentennale dei cambiamenti in Cina (Deng Xiaoping), nel Regno Unito (Maggie Thatcher) e in Iran (Kho-meini), ed etica, creatività, dialogo; e infine bolla speculativa, crollo, stagna-zione, stagflazione, flessibilità, sobrietà... Per il calendario cinese, siamo all’Anno del Bue. Bisogna avere spalle grosse per tirare a campare in tempi di crisi acuta, in giorni in cui anche al di là dell’Atlantico predominano due parole: “bailout”, cioè salvataggio, il termine in assoluto più consultato sul dizionario Merriam-Webster, da un secolo e mezzo Bibbia linguistica di fiducia degli americani, e “frugalista”, espressione desueta, che però è tornata prepotentemente di moda.
Ma parola regina, eponima dell’anno, è “crisi”, che come termine e come idea si percepisce simultaneamente ovunque e in nessun luogo preciso, e che al modo di tutti gli e chi che risuonano senza soluzione di continuità finiscono per non significare più nulla, se non come ondularità parodistica di se stessi. Un linguista grande amico delle parole, Tullio De Mauro, ha scritto che la parola “crisi” non ci serve, perché non ha una sua personalità, «in sé può anche non essere una parola negativa», dal momento che ci sono anche le «crisi di crescita». Ma quando le cose vanno male, diventa una parola parassita che rovina i concetti cui si attorciglia: «Siamo in uno di questi periodi di pessimisti. Lo si vede dal mutamento del significato di una parola derivata da crisi: “criticità”. Dovrebbe voler dire: capacità di usare “senso critico”. Invece è utilizzata ormai solo come sinonimo di “punto debole”. Una forza è diventata una fragilità». Commento spontaneo e immediato: il gelido vento della paura fa diventare le parole fragili come le superfici ghiacciate di uno stagno.
E per l’eterno scontro tra la libertà del linguaggio e il potere? Pare che si debba mandare in soffitta Montesquieu: non più separazione dei tre poteri, ma mutazione della terna in “economico,mediatico, politico”. Sostiene il sociologo Domenico De Masi:prendiamo la parola “etica”, è senza dubbio una delle parole chiave del 2009; ma perché è usata così frequentemente in Italia? Perché prevale il suo contrario: «Usiamo parole che sono l’opposto di quel che pensiamo, siamo un popolo di trasgressori che adora parlare di santità». Prendiamo la dopatissima parola “dialogo”: per il priore di Bose, Enzo Bianchi,è «finta, da abolire, si pronuncia la parola per negare la cosa», mentre per il direttore del Mulino, Piero Ignazi, è «banale e ipocrita, si usa in realtà per ottenere il contrario».
Le parole ministeriali, poi: i “fannulloni” di Pietro Ichino, termine poi brandito da un ministro tosto; i “bamboccioni” di Padoa Schioppa; l’“onda” degli studenti in agitazione. Le parole che vengono da lontano: il petrolio e il gas che fanno ancora girare il mondo; l’atomo che prima o poi li soppianterà; il terrorismo, il fondamentalismo, la guerra, che sono le espressioni agghiaccianti della paura dell’uomo. La parola che deve andare lontano: la “grande metamorfosi del sistema”, espressione che contiene la speranza di un cambiamento in meglio, dell’uscita dal tunnel del “cittadino in formazione”, che ora è un “combattente della recessione”.

Costume militare di gala,da un arazzo fiammingo del Cinquecento della Cattedrale di Notre-Dame, a Reims.
Costume militare di gala,da un arazzo fiammingo del Cinquecento della Cattedrale di Notre-Dame, a Reims.

Ma la madre tentacolare di tutte le parole è “crisi”. In greco classico vuol dire un mucchio di cose, tra le quali: separazione, scelta, giudizio. Il verbo “krino” significa anche “decidere”. In medicina, per Ippocrate (e per Galeno, nel secondo secolo dopo Cristo) si traduce in “giorno critico” e nell’ora in cui la malattia, appunto, “si decide”: sprofonda nella morte o prelude alla ripresa. È il punto di passaggio, di svolta.
Il termine riemerse nei grandi sommovimenti del Settecento: nella Rivoluzione francese e in quella industriale. La “vera crisi” per Burckhardt (nelle “Considerazioni sulla storia universale”) non cambia soltanto i regimi: disaggrega i fondamenti della società, come avvenne nelle migrazioni germaniche. La caratterizza una straordinaria accelerazione del tempo. Scrive Burckhardt: «Il processo mondiale d’un tratto cade in preda a una terribile rapidità: sviluppi che solitamente mettono secoli a crescere, passano in mesi e settimane come fantasmi in fuga». Il concetto di crisi venne evocato – conaffanno sempre più frequente – dopo la Prima guerra mondiale. Lo storico Reinhart Koselleck la chiamò «catarattadegli eventi» e sottolineò il suo volto ambiguo: è una condanna, ma anche un’occasione che ci trasforma. Nel Vangelo di Giovanni (5, 24) Gesù la raffigura come temibile: «Chi ascolta la miaparola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro algiudizio, ma è passato dalla morte allavita».
Nella versione greca “andare incontro al giudizio” è, letteralmente, “entrare nella krisis”, nel processo. Simultaneamente crisi è intelletto all’opera,che redime. Scrive Johann HeinrichZedler nell’Universal Lexikon del 1737: «L’uomo che non ha alcuna krisisnon è in grado di giudicare nulla».

Il giudizio di Dio, in una miniatura del XV secolo per “Conquétes de Charlemagne”. Parigi, Biblioteca Nazionale. - Archivio BPP


Anche la crisi che stiamo attraversando è “vera crisi”, momento di decisione, “climax” d’un male e – se ne abbiamo coscienza – occasione. Uscirne è possibile,purché ci sia una diagnosi definita conprecisione. Ma gli economisti – gli (s)profeti, come sono stati definiti in queste pagine – non sono sufficienti a talescopo. Ancor meno i politici. Perché spesso vedono le cose più da vicino i letterati,i filosofi, gli storici, i teologi, i medici. Sela società è un corpo, questi sono i suoi“giorni critici”: può morire o riprendersi,mutando forma e maniera d’esistere. Dappertutto esponenti del mondo politicoe responsabili finanziari sbigottiscono davanti all’incanto spezzato (alla bolla scoppiata). Essi vorrebbero che la stoffa di cuiquell’incanto è fatto (l’illusione che incrocia trame e orditi della tessitura) non sistrappasse mai, perché le campagne elettorali palesi e occulte, comunque mai interrotte – veicoli della presa e della conservazione del potere – son cucite con queifili, vivono della chimera d’un progressoineluttabile, senza costi. L’America dopoil Vietnam respingeva le guerre, le voleva“a zero morti”. Poi ricominciò a volerle,ma “a zero tasse”. Da quel momento, finanza e politica estera americana entrarono in crisi simultaneamente. Ai primi diagosto del 2008 aveva inizio la guerrageorgiana, appoggiata da una Washingtonche non poteva fare alcunché per aiutarein concreto quella regione. Esattamenteun mese dopo, fra il 7 e il 16 settembre,esplodeva la bolla finanziaria (salvataggiodi Fannie Mae e Freddie Mac, bancarottadi Lehman Brothers, salvataggio di Aig). Per decenni avevamo sentito dire: ci sono
compagnie troppo grandi per fallire. Era una grande menzogna.

Dalle “Croniques
de Bretagne”, re Artù,protetto dalla Vergine,combatte contro un gigante.
Dalle “Croniques de Bretagne”, re Artù,protetto dalla Vergine,combatte contro un gigante. - Archivio BPP


Le crisi – ripetiamo – sono nello stesso tempo in nessun luogo e ovunque: le bolleesistono nella finanza e in politica, ma anche nelle teste. Sono i “giorni critici” dellanostra mente, quelli che hanno stravolto modi di vivere, di convivere con l’altro in casa e nel mondo. Ci ha chiusi nella sfiducia.
Lo storico Andrew Bacevich lega tutte queste esperienze e racconta come dall’impero della produzione l’America sia passata, ancor prima di Reagan, all’impero dei consumi. Nel tragitto si sono smarrite (soprattutto in America) nozioni fondanti:la nozione del debito, che nella nostra cultura non è senza colpa, e che è divenutoun fine positivo in sé, incondizionato. La nozione della fiducia, senza la qualeogni debito degrada. La nozione del limite.
Il Padre Nostro dice, in Luca 11, 2-4: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». In ebraico peccato e debito sono un’unica parola. La poetessa canadese Margaret Atwood ricorda come il concetto di debito (essenziale nel romanzo dell’Ottocento: Emma Bovary si suicida perché un creditore non ripagato minaccia di rivelare il suo adulterio) sia oggi vanificato. Soprattutto oltre Atlantico, gli istituti finanziarihanno spinto all’indebitamento, anche senza garanzie, più che alla prudenza e al risparmio. Scrive Zygmunt Bauman che un debitore che volesse restituire puntualmente (che «pensasse al dopo») era sospetto: era anzi «l’incubo dei prestatori». Non era «di alcuna utilità», perché solo il debitore riciclato era fonte primaria del profitto costante.
Ma il debito sconnesso dalla fiducia non è stimolato soltanto dagli istituti finanziari e da Wall Street. È stato definito un ottundersi generale dei cervelli, la richiesta di pensare positivo avanzata con un linguaggio sempre meno politico e sempre più mediatico. Main Street – che poi siamo noi, cittadini e consumatori – è vittima tutt’altro che innocente di Wall Street. Come nel “Grande Crollo” del ‘29, descritto da John K. Galbraith, siamo tutti affetti da una follia seminale (“seminallunacy”) che accomuna potenti e milioni di impotenti. Per questo dire che la crisi non c’è non significa che la crisi smetta di essere. E per questo intervenire senza curare la fonte del male significa rinviare la “krisis”, cioè la svolta che trasforma e rigenera.
Crisi vuol dire decidere ad occhi aperti: sul peggio sempre possibile, sugli strumenti per una fiducia riscoperta, sul contrasto della paura, su una “frugalità” più adatta alle possibilità, e, in ultima analisi, sulla duplice responsabilità verso il Pianeta, che non possiamo distruggere, e verso i nostri figli cui non dobbiamo addossare i nostri debiti. Ignorare Terra e discendenti perché i loro tempi sono più lunghi dei nostri e perché non abiteremo il loro mondo è rinunciare alla propria dignità e chiudere le speranze altrui. Affrontiamo dunque la nostra crisi, sottoponendoci al giudizio, al processo. È ora che tutto questo abbia inizio.
(Citazione a latere. Federico García Lorca: «Ormai i cobra fischieranno sugli ultimi piani. / Ormai le ortiche faranno tremare cortili e terrazzi. / Ormai la Borsa sarà una piramide di muschio. / Ormai verranno le liane dopo i fucili / e molto presto, molto presto, molto presto. / Ahi, Wall Street!».
Il Crollo del ‘29 ispirò al poeta questi versi apocalittici, riproposti adesso, mentre imperversa una nuova Grande Crisi e – coincidenza intrigante – mentre un giudice spagnolo ordina l’apertura della fossa comune nella quale i franchisti gettarono il corpo del poeta andaluso,fucilato il 19 agosto del 1936.

“Il vincitore del torneo”.Incisione in legno di Adolf Cloz per “La Germania” di G. Scherr (seconda metà del XIX secolo).
“Il vincitore del torneo”.Incisione in legno di Adolf Cloz per “La Germania” di G. Scherr (seconda metà del XIX secolo).

Negli Stati Uniti Lorca era approdato nel mese di giugno. Aveva trentuno anni e una decisa voglia di aria nuova. Sbigottì al cospetto della Borsa: «È qui dove ho avuto un’idea chiara di quel che è una folla che lotta per il denaro. Si tratta di una vera guerra internazionale con una lieve traccia di cortesia». Alla fine di ottobre quella guerra precipitò, e Lorca si fermò a Wall Street – questa volta esterrefatto – per sette ore, ad osservare le crescenti scene di panico: «Gli uomini gridavano e discutevano come belve e le donne piangevano dappertutto; alcuni gruppi di ebrei lanciavano forti grida e lamenti sulle scalinate e agli angoli delle strade. Era questa la gente che entrava nella miseria dalla sera alla mattina...».
Il poeta di Fuente Vaqueros tornò in Spagna l’anno seguente, con l’utopia socialista nel cuore, correndo incontro al proprio tragico destino.
A differenza di allora, oggi si scorgono nuovi cobra, col turbante arabo e con gli occhi a mandorla, fischiare sugli ultimi piani di banche e di corporations, mentre monta la volatilità degli investimenti, i grafici sono montagne russe, e cresce nel mondo l’istinto di ripiegarsi su se stessi, nel recinto rassicurante del proprio microcosmo identitario, alla ricerca di una sincera etica globale che a Wall Street, ma anche nelle Borse regionali, trafigga l’Orso, e non soffochi il Toro).

 

 

   
   
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