Settembre 2008

Sud a picco

Indietro
Una tragica regressione
Dimab
 
 

 

 

 

La classe dirigente nazionale di
questo tema non
parla volentieri, forse perché
rappresenta una delle sue sconfitte più brucianti.

 

Il Sud va sempre più indietro. Che fosse economicamente la parte più debole del Paese era risaputo fin dai tempi dell’Unità d’Italia. Ma ora sta accadendo qualcosa di diverso, a cui probabilmente siamo meno preparati. La novità è che, se non inverte rapidamente la rotta, il Mezzogiorno rischia di trovarsi molto presto da solo ad arrancare in coda all’Europa, sensibilmente staccato persino dagli ultimi arrivati.
Da qualche anno, infatti, le altre aree depresse del Vecchio Continente, non soltanto in Spagna, Germania e Irlanda, ma anche nei Paesi dell’Est, si sono svegliate e hanno cominciato a correre. Niente a che vedere con le nostre regioni meridionali, che fanno fatica persino a tenere il passo con il ritmo non proprio brillante dell’economia nazionale.
Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, Sardegna e altre fasce del Molise e dell’Abruzzo sono destinate al ruolo di retroguardia delle graduatorie dell’Unione europea sul tasso di sviluppo? È quel che dicono gli indicatori economici più importanti. Le regioni del Sud – si legge nell’indagine “Check up Mezzogiorno”, pubblicata dal Centro Studi dell’Istituto per la Promozione Industriale e dall’“Area Mezzogiorno” di Confindustria – sono l’ultima grande area rimasta dell’Europa pre-allargamento, in cui il Prodotto interno lordo pro capite resta inferiore al 75 per cento della media europea dell’Ue a 27.
Dal 2003, dopo qualche anno di recupero, la crescita del Pil è tornata a livelli inferiori di quella del resto d’Italia e soprattutto è iniziata una parabola discendente che non accenna a fermarsi rispetto all’Europa: in quattro anni il Prodotto interno lordo pro capite del Sud è passato da oltre il 62 al 56 per cento della media continentale. Ben al di sotto del livello del 1995.

Ma ci sono molti altri dati negativi nelle ultime indagini relative all’andamento dell’economia meridionale. Il livello della produttività è tornato a calare nel 2005, dopo un breve periodo di recupero. Allo stato attuale è intorno all’82,3 per cento di quello nazionale. Il divario, a quanto emerge dalle elaborazioni dell’Istituto Tagliacarne, è particolarmente grave nel settore manifatturiero (con livelli pari al 75 per cento di quello nazionale), nell’alimentare (68 per cento) e nel tessile (65 per cento).
Non si salva neanche il turismo, per il quale evidentemente non sono sufficienti più il sole e il mare: nell’ultimo periodo rilevato dalle indagini, l’utilizzazione delle strutture ricettive è stata del 18,1 per cento, contro il 24 per cento del Centro-Nord, con un divario di crescita rispetto all’inizio dell’anno-base, il 2000. I dati, insomma, vanno tutti nella stessa direzione e sono più che sufficienti a lanciare un ulteriore allarme. Che solo in pochi, tuttavia, sono disposti a voler ascoltare.
Il risveglio dell’economia meridionale è la prima condizione per una ripresa italiana, visto che ha margini di crescita di gran lunga superiori al resto del Paese. Le energie ci sono, come dimostra la battaglia coraggiosa degli imprenditori siciliani contro il pizzo. Il problema è l’attenzione della classe dirigente nazionale, che di questo tema non parla volentieri, forse proprio perché rappresenta una delle sue sconfitte più brucianti.
E in effetti, avendo sott’occhio la situazione di questi nostri tempi, fa una certa impressione rammentare le meraviglie promesse dal meridionalismo di qualche anno fa. Qualcuno ricorda la “carovana” di imprenditori che avrebbero dovuto darsi manforte per portare lo sviluppo nelle regioni meridionali? Per spianare la strada è stata messa in campo una sventagliata di agevolazioni mai conosciuta nel passato: contratti d’area, patti territoriali, contratti di programma, finanziamenti a fondo perduto… Sono trascorsi dieci anni, e la “carovana” si è perduta nel deserto. Lo rivela anche la statistica sul tasso di sopravvivenza delle imprese, che in soli cinque anni, dal 1999 al 2004, è stato di quattro o cinque punti più basso di quello nazionale in tutti i settori.

L’altra ragione per la quale il tema non sfonda, sembra essere la scarsa disponibilità della politica a mettere in cantiere interventi di lungo periodo. Per uscire dalla stagnazione di questi anni – sostengono i responsabili di Unioncamere – è necessario puntare sulle grandi infrastrutture e sulla tutela della legalità, i due grandi handicap che bloccano storicamente il Sud. Ma una cosa e l’altra richiedono politiche di lungo periodo, i cui risultati si vedono in termini di anni. Nel frattempo si può solo sperare che la società meridionale riesca a ritrovare una propria dimensione creativa e cominci a fare la sua parte, senza continuare ad aspettarsi troppo dalla politica nazionale. Alcuni segnali positivi in questo senso sarebbero visibili, secondo il parere del sociologo Aldo Bonomi, che nel 1998 scrisse il Manifesto dello sviluppo locale insieme con Giuseppe De Rita, e che poco tempo fa ha battuto il Sud palmo a palmo, in una grande immersione nell’economia meridionale. Bonomi sostiene di aver visto anche realtà promettenti. Ma per capirle – precisa – bisogna imparare a distinguere fra un Mezzogiorno e l’altro: ci sono in Campania, in Basilicata, in Puglia, in Sicilia delle fasce in cui qualcosa si sta muovendo.

Paradossalmente, secondo i maggiori osservatori contemporanei, è proprio dal fallimento delle diverse “campagne” per il recupero e lo sviluppo delle regioni meridionali che si possono trarre le basi per un nuovo – e diverso – inizio. Per decenni, l’intero Sud ha sperato nel grande sviluppo proveniente dall’alto: prima il modello “fordista”, poi quello dei parchi tecnologici, i patti territoriali e il turismo, e infine l’idea, più recente di tutte, della piattaforma logistica in mezzo al Mediterraneo. Nessuno ha avuto successo, ma tutti hanno lasciato qualcosa. E soprattutto hanno fatto capire alla gente che lo sviluppo economico verrà dalle iniziative del Sud, più che dal centro, cioè dallo Stato nazionale.

Per vincere la scommessa, tuttavia, non bastano le iniziative degli imprenditori. È necessario che anche la politica locale cominci a fare la sua parte. E qui i segnali non sembrano troppo incoraggianti. Basti pensare a come vanno le cose nella celeberrima “Etna Valley”, fiore all’occhiello della più importante area di sviluppo industriale della Sicilia. Nella piana a sud di Catania sono concentrate più di 400 aziende, molte delle quali di alta tecnologia. Ma ci sono imprenditori per i quali l’Etna Valley è una sorta di calvario, dal quale un giorno sì e uno no sognano di fuggire.
Infatti, basta un temporale ad allagare la zona. Il che significa che bisogna chiamare la Protezione Civile per uscire dagli uffici. Per non parlare delle continue interruzioni di acqua e di elettricità. Nel resto d’Europa hanno problemi del genere? Neanche in quelle che un giorno erano considerate aree depresse in Inghilterra, in Germania, in Francia, nella Penisola Iberica e in quella Greca. Perché, allora, persistono nel Mezzogiorno d’Italia? Intanto, per l’anchilosi progettuale che ha sempre penalizzato il Sud. Poi, per le scelte territoriali: quella era una zona paludosa, si chiama Pantano d’Arci, e gli antichi non sbagliavano quando attribuivano i nomi.
Secondo l’economista Mario Deaglio, è un’Italia che «si scolla», in cui ciascuna parte va per conto proprio: difficile credere che si tratti di un programma politico, piuttosto è una constatazione sull’andamento economico del Paese: «Dopo un periodo di diminuzione, i divari sono aumentati e, comunque misurata, su un arco di tempo ragionevolmente lungo, la crescita delle regioni e delle province del Nord e del Centro risulta sensibilmente superiore a quella del Mezzogiorno (con l’eccezione di alcune “isole felici”)». Di conseguenza, anche da quel che risulta da un recente studio della Fondazione Edison, si assiste al paradosso che, nella classifica del prodotto interno per abitante – un indicatore molto rozzo, ma sostanzialmente efficace, dei confronti internazionali di prosperità – all’interno dell’Unione europea lo Stivale annovera nello stesso tempo alcune tra le regioni di vertice e alcune tra le regioni di assoluta retroguardia.

Province come Milano, Biella, Modena, Bologna, per citarne solo alcune, sono ai vertici europei dei consumi individuali, del reddito disponibile alle famiglie e, più in generale, della qualità della vita; consumi e reddito disponibile per abitante risultano sensibilmente inferiori alla media europea in province come Caserta, Caltanissetta o Crotone, nelle quali, inoltre, l’ambiente è spesso più offeso, deturpato o maggiormente inquinato.
Oltre che povere, molte parti del Sud risultano anche assai poco dinamiche: alcuni dei nuovi Stati membri dell’Ue, come la Slovenia e l’Ungheria, sono sul punto di sorpassarle. Il divario Nord-Sud sta tornando a crescere in maniera preoccupante anche per questo, con un motivo di allarme forse maggiore derivato dal fatto che, dopo aver dominato per decenni la politica italiana, la “Questione meridionale” non sembra più interessare nessuno a livello politico. Al di là di qualche rituale riferimento nei programmi, le forze politiche non sembrano più animate da alcuna vera volontà di cambiare le cose, né, d’altra parte, sono emerse idee nuove per affrontare questo problema, evitando i fallimenti del passato.

Nel frattempo, i processi redistributivi del reddito dal ricco Nord al povero Sud si sono fortemente ridotti per la crescente opposizione dell’opinione pubblica settentrionale a un trasferimento di risorse che non basta a mettere in moto la crescita meridionale, per le difficoltà in cui versano i bilanci pubblici, per l’attenuarsi delle rimesse dei lavoratori meridionali emigrati al Nord.
Al tempo delle grandi migrazioni dal Sud al Nord, negli anni Cinquanta e Sessanta, il divario produttivo era infatti accettato e spontaneamente compensato, in larga misura, dalle rimesse che i meridionali emigrati nel “Triangolo industriale” Milano-Torino-Genova rimandavano alle famiglie rimaste nei luoghi d’origine; negli anni Settanta e Ottanta si cercò vigorosamente di colmarlo con la costruzione di grandi infrastrutture e di grandi poli industriali, in campo chimico, petrolifero, siderurgico e automobilistico. Qualche risultato venne ottenuto, sia pure in mezzo a molti errori e a prezzo assai alto. Ma, con il rallentamento dell’economia italiana negli anni Novanta, il Sud ha frenato più del Nord, e i progressi – là dove erano stati sia pure relativamente conseguiti – vennero cancellati, con la sola eccezione di alcune regioni del Centro (l’Abruzzo, per esempio) che erano riuscite ad “agganciarsi” in qualche modo al Nord.
(Da non dimenticare, tuttavia, le polemiche meridionaliste per il tipo di sviluppo impostato per il Sud: si parlò del Nord che, fingendo trasferimenti industriali al Sud, si era praticamente liberato di imprese ormai obsolete; di aziende – come la petrolifera – altamente inquinanti; di poli industriali – come quello siderurgico – destinati al tramonto. In altri termini, si avanzò la più che legittima suspicione che il Nord avesse rinnovato tanti impianti produttivi, trasferendo a Sud quelli tecnologicamente superati e appropriandosi così della parte più cospicua dei finanziamenti a fondo perduto e dei finanziamenti agevolati nominalmente a favore del Mezzogiorno. Ed è, questa, una polemica che si è, se non del tutto spenta, quanto meno sopita, per stanchezza e logoramento delle stesse forze critiche meridionali).

Più ancora del fenomeno quantitativo del distacco – sostiene ancora il professor Deaglio – preoccupa l’aspetto qualitativo del distacco crescente che separa il Mezzogiorno dal resto del Paese. Resta ancora più basso l’indice di lettura, le università sono più affollate e fanno maggiore fatica a rispondere alle domande di un’educazione moderna, la ricerca vi è quasi assente; negli ultimi vent’anni il Mezzogiorno ha perduto molti dei suoi cervelli migliori, emigrati al Nord o al Centro; molte regioni meridionali fanno registrare risultati nettamente negativi nei test internazionali dell’istruzione secondaria, mentre nelle università del Sud (in alcune delle quali si è dispiegato un persistente e impunito amoral familism) la ricerca è molto difficile. Queste magagne non si curano semplicemente con l’elargizione di contributi o con la costruzione di qualche strada, come purtroppo pensa ancora oggi la gran parte dei politici, meridionali compresi.
Esplicito l’ex presidente di Confindustria, Antonio D’Amato: «Il Sud sprofonda? C’è poco da sorprendersi. È la cronaca di una morte annunciata e di cui, in realtà, nessuno si cura se non alla vigilia di tornate elettorali». E tanto per chiarire: «Mezzogiorno, una battaglia persa? Non lo ammetterò mai, piuttosto cominciamo a combattere. Io sono un figlio del Sud e lo considero pieno di opportunità. Stiamo seduti su un enorme giacimento petrolifero e invece di tirare fuori il greggio continuiamo a imbrattarci e basta. Ma io continuo a mantenere nel Mezzogiorno i centri decisionali della mia azienda». L’azienda dell’imprenditore cartotecnico partenopeo oggi esporta nel mondo il 70 per cento della produzione e possiede stabilimenti in Gran Bretagna, in Portogallo e in Germania.
Dice D’Amato: «Fare impresa al Sud è difficile ma non impossibile. Il problema è che la presenza di imprese sane non basta a rilanciare il Mezzogiorno. Bisogna intervenire con politiche strutturali, per assicurare l’ordine pubblico, rilanciare le infrastrutture, utilizzare bene i fondi comunitari, assicurare la vivibilità nelle città. Sono problemi antichi, ma sempre attuali». Il Sud, peraltro, può essere un grande acceleratore, ma anche un potente freno per l’intero Paese. Inoltre, è una sorta di lente d’ingrandimento, un anticipatore rispetto ai trend nazionali. Quel che accade al Sud, prima o poi si verifica nella Penisola: «Questa è la verità, bisogna che il nostro Meridione esprima un suo protagonismo progettuale, politico e imprenditoriale».
Per quel che riguarda le amministrazioni locali, continuano a pesare su di loro tre gravosi problemi: la stratificazione di vecchie questioni, talmente pesante da richiedere una ristrutturazione straordinaria, come nel caso della sanità, che ha una spesa enorme e di pessima qualità; l’incapacità di valorizzare le vocazioni territoriali, come nel caso del turismo; la necessità di un radicale ricambio di classe dirigente, in grado di progettare e controllare tutti i flussi economici che arrivano a Sud.

In questo quadro, si deve prendere atto che le Regioni non sono in grado di gestire queste risorse. Ogni volta che le decisioni si prendono a livello locale, aumentano l’arbitrarietà e l’irregolarità. Non per niente la Spagna, che è un modello di spesa, decide e controlla centralmente e poi spende localmente. Da noi accade il contrario, e ogni volta ci ritroviamo a piangere sul latte versato. Il riferimento è soprattutto ai 100 miliardi di euro di fondi Ue che nei prossimi sette anni si riverseranno nelle regioni meridionali. Si ha paura che possano rappresentare l’ennesima occasione sprecata. Sicché serve un ripensamento del meccanismo di spesa, anche perché sono anni che ripetiamo gli stessi (interessati?) errori. Fra l’altro, inseguiamo la chimera di un federalismo a tutti i costi che non ha mai dato frutti: «Dagli anni Settanta ad oggi abbiamo misurato l’incapacità delle Regioni di risolvere i problemi localmente. Altro che federalismo fiscale. Bisognerebbe fare marcia indietro».
Non è che gli imprenditori del Sud siano esenti da colpe, in modo particolare quelli che hanno costantemente la mano tesa, per ottenere incentivi e denaro pubblico. Costoro, comunque, in un mercato globale e fortemente competitivo, saranno sicuramente spazzati via. Ma che cosa accade a quelli che vogliono rischiare e investire? Li si spaventa. Allora, chi vuole investire in un Paese nel quale si pagano le tasse più alte del mondo, dove non c’è certezza del diritto? In un Paese che aumenta la spesa pubblica, stabilizza i precari e vara leggi che accrescono il numero dei pensionati giovani? Come si fa, in queste condizioni, a pretendere di attrarre capitali dall’estero?
La vera partita per il Sud si gioca nel rilanciare la competitività complessiva del Paese, ma partendo dalla carta migliore: la centralità del Mediterraneo. Siamo in una posizione strategica, non possiamo accontentarci di fare l’hub di passaggio. Puntiamo in alto, per non morire.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2008