Giugno 2008

I sud - voci dall’italia

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L’uomo del treno
Francesco Faraone  
 
 

 

 

 

Arrivo a casa
e, quando apro
la porta,
lui ha la prudente cortesia di esitare, prima di entrare impassibile...

 

L’indistinto vociare si fa festa di saluti e raccomandazioni quando il treno fa capolino dalla curva. Freme la gente. I sassolini fra le rotaie. La voce alta dell’annuncio di partenza domina la folla dispersa, che obbedisce al comando di questo non luogo senza chiedersi il perché di queste partenze e di questi arrivi. Si accalca e mi ubriaca la stilizzata complessità del mondo attorno a me. Mi sento un estraneo in una casa che non è di nessuno.
Il cielo grigio incornicia la stazione e le nuvole si poggiano pesanti sulle teste di chi parte e di chi rimane, ma nessuno guarda in alto, e una partenza non pesa più del cielo su un cucchiaino da caffè.

Il fischio del capotreno interrompe la speranza di altri saluti; la frenetica ricerca delle parole giuste da dire si riassume in una pacca sulla spalla. Poi lui si volta senza una parola e si avvia verso la carrozza dieci. Un vero padre saprebbe cosa dire in questa situazione, io invece osservo muto la schiena di mio figlio e, incatenate in bocca, si affollano le parole che per una vita avrei voluto dire.

Gli occhi cercano di saziarsi di quell’immagine che si allontana, strappandogli dalla felpa quel rosso vecchio e scrutando le valigie nuove regalate per l’occasione. Dentro, ciottoli di vita ammassati alla rinfusa, e nelle scarpe le tonnellate di piombo di un giorno di saluti. “Arrivederci a presto” è la stancante litania che si ode in queste ore e in questi luoghi, ma chi sarà la persona che scenderà da quelle lamiere che, indifferenti, ingoiano esistenze e ricordi?

Improvvisamente consapevole, capisco che, più di tutti, sono stato io a spingere mio figlio su quel treno. Forse ora i miei pensieri e le mie preoccupazioni sono diventati il riflesso di quelle del mio fragile ragazzo; forse lui, accettando in silenzio, voleva solo che io capissi quanto tagliente fosse la sua sofferenza. È sempre un attimo troppo tardi quando ci si accorge delle proprie menzogne, così solo adesso mi è chiaro che non è per lui che quel treno viaggerà, è per me. Non per aiutarlo ad affrontare i suoi problemi, la sua depressione che tante volte ci ha fatto litigare. Non è per farlo scendere da quel logoro divano dove infinite ore passava a leggere, dormire o solo pensare. Queste carrozze partiranno con lui dentro solo perché io sono esasperato dalla sua sofferenza, dalla mia impotenza e inadeguatezza nell’aiutarlo. Meglio chiudere gli occhi quando non c’è nulla da vedere? Forse sì. Magari è questa la vita: uno sciame di piccole decisioni prese inconsapevolmente che diventano concrete solo quando ne vediamo le conseguenze: parole che acquistano un senso solo dopo il punto. Sfratto mio figlio dalla mia esistenza e, forse, sfratto me stesso dalla mia.
Nel portafoglio ormai c’è rimasta solo la tristezza che sola non basta a pagare la vita che viviamo. Eppure la lacerante sensazione che qualcosa di più si poteva fare rimane, provocando un leggero turbamento in viso, senza però che una lacrima venga liberata… le lacrime ci penserà il cuore a pomparle.

Eravamo, io e lui, una parola segreta scritta su un diario che solo noi potevamo leggere; ora siamo solo due macchie amorfe di inchiostro che sporcano due pagine lontane fra loro.

Le porte del treno si aprono e tutti danno la precedenza a chi scende stremato da un viaggio dove centinaia di vite scorrono attraverso un vetro. I treni, però, non portano solo carne e sangue e ricordi, portano presenze che tutti conosciamo e che, guardandoci senza esitazione e in silenzio, si poggiano vicino a noi come foglie cadute in autunno. Così succede ora a me incrociando lo sguardo con un uomo alto, con i capelli grigi, una giacca marrone da mobile impolverato, gli occhi piccoli e acuti e un lungo collo gotico. Non un gesto, non una parola e mi raggiunge come un coltello che fende il burro guardando con me mio figlio che sale e parte senza voltarsi.
Le porte si chiudono e il treno inizia la sua veloce deriva verso ciò che non posso conoscere.
L’avviso di sfratto è stato rispettato e ci getta nuovamente in un’esistenza incerta, ora siamo nuovi inquilini in una casa sospesa sulle fragili scie del vento. Solo l’uomo vicino a me è la certezza a cui posso aggrapparmi, eppure mai nella vita certezza mi è stata più amara.

Un’impercettibile pioggia inizia a piangere mentre mi accendo una sigaretta. Mi circondo di una nebbia di fumo e acqua sperando di nascondermi a quella pesante presenza che ormai incombe in silenzio vicino a me. Ma quest’uomo dal collo gotico è la segreta testimonianza di tutto questo e non si sfugge a chi testimonia la verità.
Ci avviamo verso la macchina parcheggiata poco distante fra il suono della pioggia che si fa più insistente. I miei passi risuonano come un’ammissione di colpa, ma i suoi non sono altro che fiato del vento.

Senza scambiarci una parola entriamo in macchina; è allora che mi volto a guardarlo: sono passati gli anni, ma lui non è cambiato, un impassibile quadro che fissa orgoglioso le facce esterrefatte nel museo. Le mie mani sembrano vecchie quando le poggio tremanti sul volante e il fumo che mi entra negli occhi mi concede il lusso di una lacrima.

La strada corre sotto i nostri piedi e le lacrime di pioggia sul parabrezza si rifanno più rade ed esili. All’orizzonte qualche ferita nel cielo nuvoloso fa intravedere un sole rosso. È l’ora in cui le ombre si allungano e tendono alla notte, quando arriviamo in centro, vicino casa. Già la città si accende di sciami di piccole luci, dai palazzi e dalle pozzanghere ai bordi della strada. Scorrono i fari delle macchine e i pedoni senza volto sui marciapiedi: la strada come la stazione è pervasa da un marasma nebbioso di solitudine, a cui apparteniamo, precari e inconsapevoli della nostra esistenza. Cosa accadrebbe a questa umanità gettata nel mondo da chissà quale dio se il sole per un giorno decidesse di non sorgere? Che senso ha questo tornare in una casa che sa di stagione passante e passeggera?
Nulla è palpabile al di là dei finestrini dell’auto, solo la presente sensazione dell’uomo vicino a me è chiara e reale, un disagio, come essere seduti in un bar vicino a persone che parlano ad alta voce: lo stesso imbarazzo e la stessa voglia di andare via.

Sento in ogni metro percorso una solitaria melodia di pianoforte, un sapore di lontananza e di nessuno. Un profumo dolce e triste come un ricordo spezzato da una memoria labile. Tutto perde di importanza oltre questi vetri bagnati. Rimane solo il desiderio di rivedere quella sagoma ancora stesa sul divano, solo il pentimento di aver scacciato quella dolce pena.

Arrivo a casa e, quando apro la porta, lui ha la prudente cortesia di esitare, prima di entrare impassibile. Si dirige verso il salotto e si siede sul divano dove mio figlio passava innumerevoli ore vuote. Capisco solo adesso che era l’unico posto in cui si sentiva al sicuro, protetto dal mondo ostile che fuori ci aspetta ogni giorno pronto a giudicare e a dispensare sofferenze. Lo guardo sul divano di mio figlio, siamo solo io e lui, la Solitudine seduta di fronte a me che mi fissa col suo collo gotico e gli occhi piccoli e acuti. Mi volto verso l’armadietto dei liquori e prendo una bottiglia a caso. Ripenso a mio figlio ormai chiuso nella memoria e incatenato alla tristezza del mio cuore, sperando che non debba essere nella stessa mia paradossale compagnia. L’amaro dell’alcol sfugge nella bocca.
Guardo dalla finestra la notte, oggi non ci sono stelle che possano guardarci, noi naufraghi, sfrattati dall’esistenza.

 

   
   
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