Giugno 2008

I sud - voci dal mondo

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Le piccole talpe
di Morumbi
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

Cisco
è il più piccolo,
è la mascotte, quattro anni,
o lì intorno, e
due occhi neri neri fondi lucidi
meravigliati
dell’unica cosa che hanno conosciuto: il male del mondo.

 

«Estu mauditu gubierno», esordisce in stretto gergo paulista. «Questo maledetto governo ha aumentato l’affitto dei terreni occupati dalle baracche, allora mia madre non poteva sfamarci più, ha mandato via dapprima mia sorella, poi mio fratello, infine me. Ha tenuto il più piccolo perché deve essere ancora allattato».
Si chiama Antonio. È il capo di un gruppo di bambini dai quattro ai dodici anni, che vivono sotto il pelo della terra, un centinaio di metri dopo l’imbocco di una stazione metropolitana, raccolti attorno agli sfiatatoi dell’aria condizionata. «D’estate è torrido, ma d’inverno ci protegge dal gelo. Un angolo collaterale, privilegiato. L’angolo incantato, diciamo noi». E lo difendono, quello spazio, lui e gli altri, giorno e notte. Si riemerge dal sottosuolo soltanto con metà effettivi, l’altra metà presidia il territorio, pronta a contrapporre il coltello al sopruso. La piccola comunità è imperforabile, ermeticamente chiusa nel numero della prima aggregazione, diffidente nei confronti degli altri gruppi stanziati a debita distanza. La comprensione, la pietà, la generosità hanno un nome esclusivamente nell’ambito del loro giro. I sentimenti sono travalicati dallo stato di necessità.
Ha undici anni, così almeno crede. Misura le parole, parla guardando diritto negli occhi, ha il piglio deciso di chi è consapevole della responsabilità che ha assunto: una ventina di vite umane dipendono da lui, dal suo modo di inventarsi ogni giorno il mestiere di sopravvivere, dalla sua capacità di convincere «quelli che stanno sopra», nelle strade, nei negozi, e soprattutto nei ristoranti, a dargli i resti dei pranzi e delle cene, a regalargli i vestiti smessi, ad allungargli qualche moneta. Nei giorni di magra, entrano in azione i più grandi, i più abili nel piccolo furto o nel taccheggio, i più veloci tra la folla: sfuggire ai colpi di pistola dei poliziotti, che sono capaci di sparare mirando alle gambe, è una scommessa per la vita o per la morte, qui dove la vita dei bambini è autodifesa istintiva, e la morte dei bambini è puro accidente, evento che non coinvolge e non commuove.

San Paolo del Brasile conta più o meno venti milioni di abitanti, è il più grande distretto industriale latino-americano, conosce da tempo un inurbamento selvaggio, ha i quartieri moderni assediati dalle favelas, “città di Dio” nate eslege, cresciute come fungaie, popolate da esuli volontari della fame provenienti da tutte le latitudini del Paese.
Morumbi, da dove vengono Antonio e i suoi, è uno dei verminai più vasti: case per modo di dire, di lamiera e fasciame di fortuna, si sono allargate a macchia d’olio, innervandosi in una pianura arida, spoglia, segnata qua e là da grattacieli, alcuni anche avveniristici; e rifugi addossati (ma con frigo e televisore), containers arrugginiti, sordide topaie, tuguri stratificati nei quali ci si accalca in promiscuità, ai margini di improbabili strade solcate da rivoli maleodoranti.
Sono queste le bocche dell’inferno che negano l’infanzia, espellendo le bambine (meninas de rua, le chiamano: ragazzine di strada; oppure meninas de programa, da portare a letto in cambio di un panino, o di una notte trascorsa non più all’addiaccio, ma al caldo, e su un materasso. Le definiranno, poi, quando avranno raggiunto diciassette o diciotto anni, e porteranno addosso malattie veneree e focolai di tbc, pirañas, carne umana inservibile, candidate alla morte precoce per sangue ormai guasto, per inedia, per gelo o per coltello), e i bambini, (quelli che delinquono per abbandono, vittime incolpevoli, potenziali ribelli che se alimentassero una guerriglia avrebbero Cristo dalla loro parte).

Morumbi non attrae questi angeli neri. Li respinge, e li dimentica. Sono le aree urbane opulente quelle che, sebbene infastidite da questa “lebbra che cammina”, danno loro un riparo, tenendoli a bada con le elemosine e con la polizia. Ed è qualche organizzazione caritatevole cristiana che distribuisce, quando può, un pasto caldo. La “lebbra” è una geografia mobile di centinaia di migliaia di creature che vanno come va il vento. «E il vento è cieco», dice Antonio, «va e viene senza alcuna regola».
Cisco è il più piccolo, è la mascotte, quattro anni, o lì intorno, e due occhi neri neri fondi lucidi meravigliati dell’unica cosa che hanno conosciuto: il male del mondo. Lo hanno trovato addormentato sotto un’acacia, addosso una canottiera sbrindellata, neanche le mutandine. E così è rimasto, seminudo, smagrito, silenzioso. Anche Ramon – cinque anni, forse – ha addosso pochi stracci, come gli altri, del resto, ma a differenza di tutti appena può si nasconde il viso butterato dalle croste con uno sghembo pareo viola, come se non volesse farsi riconoscere dalla morte.
Bisognerebbe vestirli un poco, dico. Per proteggerli dal freddo, aggiungo imbarazzato. «Diez cruzados!», replica Antonio. «È un taglio troppo grosso, se lo presento mi consegnano alla polizia, diranno che ho rubato. Dammi tagli piccoli». Chiama due dei suoi, da quelle parti c’è un megastore, compriamo biancheria e vestiti di cotone a prezzo vile, sì e no centomila lire italiane in cambio di due sacche gonfie, il costo di una cena in un buon ristorante, o di un esorcismo provvisorio per chi, come me, viene da remote terre del rimorso: mi sembra di sentirmi più leggero, liberato in parte almeno da una colpa che, essendo di tutti, è anche mia.
L’interprete – un emigrato nisseno che vive di espedienti, ha un negozio di Viño y Pasta, esercita una discreta attività confidenziale per i servizi locali e smercia sottocosto pessimo mate de coca – non apprezza granché: non si intuisce che da grandi quelli saranno ladri, contrabbandieri, grassatori, magari assassini; non si capisce che sono perduti a se stessi dal momento in cui la favela li ha vomitati, imbrattando i boulevard, le piazze e i vicoli che favoriscono tutti gli agguati? Il mio magnetofonista non è così cinico, sa che non c’è asilo che tenga, se la polizia li ferma e li ricovera appena possono fuggono (sono gli adulti quelli che evadono, precisa; i bambini hanno le ali, volando si lasciano alle spalle i ghetti delle opere misericordiose dove li bacchettano sulle gambe e li fanno inginocchiare sul sale).
Il futuro? Da adulti. Se ci arriveranno, faranno gli adulti, sceglieranno – potendo – che fare della loro vita. Come gira la fortuna, dice. Intanto eccolì là, nella disumana dimensione di talpe in cui li hanno ridotti il miserabile istinto selettivo della favela, l’inaridimento dei valori, la morte dei sentimenti più elementari.

Scatta da tutto questo la muta e quasi sacrale solidarietà tra diseredati, quella che non ammette ambiguità o indecisioni. Per difendere uno dei suoi Antonio può anche metter mano al coltello. Per difendere Antonio i suoi possono anche uccidere. È la legge non scritta, ma ferreamente rispettata da tutti i clan. Per questo in albergo (un cinque stelle gestito da emigrati italiani, che si rivolgono a noi in un orgoglioso dialetto veneto) ci hanno consegnato un cartoncino, che riporta un avviso esplicito: non allontanarsi da soli oltre il raggio di cento metri, pena Dio sa che. E questa faccenda mi ricorda quanto ci disse una notte un policeman che controllava i nostri documenti in una strada deserta della Grande Mela: fino alle Ventitreesima siete a New York; da lì alla Quarantaseiesima siete nelle mani della polizia; oltre, sarete solo nelle mani di Dio. O, specularmente, quanto
scrisse per il Continente Nero (dal quale giunsero qui in catene i progenitori delle piccole talpe pauliste) quell’infallibile profeta che fu Ryszard Kapuscinski: «In questa terra si muore in silenzio, ma se raccogli il sussurro di dolore di uno dei suoi figli troverai comunque la tua coscienza e poi, forse, un po’ di fortuna».
Certo, un solo Antonio non salva torme di bambini che non vogliamo guardare, di cui preferiremmo non sapere per anestetizzare ogni orrore. Antonio è una goccia nell’oceano, sento dire. Alibi preistorico e feroce: il mare è fatto di gocce. E in quello latino-americano ogni goccia d’acqua è un bambino che non abbiamo saputo o voluto salvare. Questo clan, ad esempio: Melinda è bella nel suo pallore ramato, leggera come una farfalla, ha sette anni, così immagina, e vorrebbe correre sulla terra rossa della pianura al tramonto, quando il paesaggio si indora sparando negli occhi tutta la sua struggente bellezza. Fidel ha le pupille incendiate dalla febbre, ricorda di essere nato in una casa di fango, non ha mai avuto un padre, sua madre aveva dozzine di uomini che le pagavano da bere e aveva messo al mondo molti figli, prima di finire in chissà quale lazzaretto. Aña viene dall’altro capo della favela, ha un gonnellino nero trattenuto da un’unica bretella, i suoi capelli ricci sono la corona di una piccola e fiera imperatrice. Un sorriso lieve le schiude le labbra solo quando il magnetofonista le regala una bambola di pezza: mai avuto un giocattolo nella sua vita (nove anni? dieci anni?), sa soltanto che ha dolore dentro le ossa e nel cervello, parla col corpo, esprime solitudine e rabbia come nessuna bimba sana può fare. Ecco perché parla così, senza parole. La sua consegna fatale al silenzio inquieta.
A mezzanotte i nove più grandi escono fuori, tre ronde di tre unità, in direzioni diverse, vanno ai ristoranti popolati di turisti e di uomini d’affari. In qualche modo la solidarietà deve covare nella gente, allora bisogna stanarla. Per tutto il giorno, elemosine, piccoli lavori, baratti. Poi scocca l’ora dei resti. Nessuno butta via niente, nessuno nega niente, i camerieri dei ristoranti colmano in fretta e alla rinfusa sacchetti da distribuire ai bambini della zona, vi aggiungono quel che possono, anche di soppiatto. Molte famiglie appendono alle maniglie degli usci, fuori dalla portata dei cani randagi, viveri e spremute, a volte anche vestiti smessi. Antonio ha una carriola, vi carica tutto, quella cigola sinistramente e sobbalza fra le gobbe e le buche delle strade.
Infine, il rientro nello spazio del clan. Quando Chico spegne i morsi della fame, le sue lacrime si mutano in rugiada sulle ciglia. L’angolo degli incanti attenua le luci, così le ombre diventano più sfumate. Didì, il più loquace, suona l’armonica a bocca: una musica ondulare cola fin dentro le anime come per levigarle, finché l’eco muore oltre la curva del sottopasso. Le bambine stendono dei teli di iuta ai quattro lati degli sfiatatoi. È ora di dormire.
Aña immagina le strade di cipria e le matasse di zucchero filato che le racconta Melinda. Fidel si fascia la gola, ha le tonsille fragili. Qualcuno accenna – ma molto piano – a un canto, ed è come se trasvolasse su di noi un coro amaro di tutti i bambini brasiliani gettati al vento. Poi ad uno ad uno i ragazzi e le ragazze si abbandonano al sonno, alla speranza disperata e alla vita.
Antonio ci raggiunge all’ingresso. Il grumo d’ira che ha dentro da undici anni sembra diventato una forza immensa. Una forza di undici secoli, di undici millenni. «Avete visto la Croce del Sud?», ci indica le stelle che bruciano nel cielo anonimo della metropoli. No, che non l’abbiamo vista, ci sono troppe luci, dico, in navigazione o in volo sull’oceano è diverso, la volta è blu cobalto e tutto in alto diventa più chiaro. Mi scruta a lungo, poi sbotta: «No, che non so leggere, imparo dalla strada, studio la tecnica che mi consenta di rivedere con tutti gli altri la notte e l’alba. Viviamo un giorno, sospesi; per quello seguente si vedrà. Ecco: come le stelle, noi qui ci siamo, San Paolo brulica, eppure sembriamo invisibili. E tuttavia, quando ci scorgono, dicono che siamo troppi e troppo pericolosi. Ti sei reso conto che la polizia ti segue per proteggerti da noi? Sei così importante?». No, che non lo sono. Rimprovero con lo sguardo l’interprete, troppo zelante, lui sapeva che il mio lavoro mi porta oltre ogni raggio, fra la gente, e fra gli ultimi, qui e a New York e nel resto del mondo: per toccare con mano e per raccontare quanti soffi di vita l’uomo spegne o salva, quali paradisi confinano con gli inferni, quanti muri fronteggiano altri muri, quanti costati perforano o difendono le canne di fucile, quanto fango ricopre o svela le capanne, qual è, quale potrà essere la chiave di lettura della giungla umana qui, più in là, e ancora altrove. E come risponde il cuore del mondo, quali battiti scandisce, quali scarti atriali registra, quali palpiti danno un nome a una stretta di mano.
Vi auguro di restare uniti, e spero che un giorno ci si possa rivedere, dico salutando Antonio. «Se Dio lo vorrà», risponde. Per un attimo soltanto gli si oscurano le corde vocali.
Quando la sua figura affonda verso l’angolo del clan, raggiungo i grattacieli e mi inoltro fra le strade della città scintillanti di vetrine ancora accese, di insegne cangianti, di chioschi animati. Posso permettermi di non aver fame. In tv replicano un incontro di calcio. Lo stadio è gremito di migliaia di piccole figure che si agitano scompostamente, solo il padreterno sa perché si comportino in quel modo. Sui vetri della finestra della mia stanza d’albergo si disegna un immenso spicchio di città, con le geometrie statiche delle luci pubbliche e con quelle vischiose delle automobili in movimento.
Morumbi ora balugina appena, si potrebbe ascoltare il rantolo intermittente della favela in letargo, come si potrebbe cogliere il respiro profondo della metropoli che riposa, finalmente sgombra dalla “lebbra che cammina” che ottunde gli egoismi ed esalta la generosità.
Poter sentire simultaneamente il polso dell’uno e dell’altro pianeta vivente di San Paolo, il tam-tam asimmetrico delle due aorte: altro che metafora dell’esistenza, altro che metafisica atemporale dei massimi sistemi! Sarebbe istantanea raffigurazione dell’umanità, rappresentazione realistica del mondo. E del nostro andare con gli occhi chiusi o con gli occhi aperti.
Che teatro enigmatico, la vita!

 

   
   
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