Giugno 2008

Messina. il terremoto più lungo del mondo

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Cent’anni
di baracche e solitudine
Alberto Speciale  
 
 

 

 

 

Così, alla fine,
per disperazione,
le famiglie
fanno ormai
le terremotate vita natural durante, dando vita a
un’interminabile catena di
sant’Antonio
della miseria.

 

Ci stanno dentro da generazioni. I primi a soccorrerli erano stati i marinai di una nave russa, poi era arrivata la regina Margherita e aveva aperto il cuore alla speranza, dopo i lutti immensi che avevano colpito Messina (e Reggio Calabria) col terremoto del dicembre 1908.
Erano state sgomberate le macerie, erano state realizzate – ma con estrema lentezza – le baracche: baracche monarchiche, baracche del Ventennio, baracche post-belliche, della prima e della seconda guerra mondiale, infine baracche democratiche. Comunque, sempre baracche. Perché nessuno di quelli che si sono succeduti a capo di tutti i governi, da allora ad oggi, ha saputo trarre la gente dalle topaie in cui avevano trovato rifugio gli scampati al terremoto più disastroso del nuovo secolo, nessuno ha trovato il modo di trasferire tanta di quella gente in una casa decente.
Sono tremila e 336, le baracche che formano il quartiere Giostra della città che fu chiamata Zancle dai fondatori Messeni emigrati dalla Grecia in Occidente, a fondare una nuova colonia in terra di Sicilia, contigua alla Magna Grecia.
La cronistoria è presto ricostruita: il sisma durò soltanto quindici secondi (iniziato alle 5,20 del 28 dicembre 1908, ebbe un’intensità 7,2 della Scala Richter, che fece abbassare il fondo marino di 100 centimetri); 80 mila i morti a Messina, città che contava una popolazione complessiva di 172 mila abitanti, (cadaveri vennero trovati persino nel Mare Egeo; 21 mila furono i profughi messinesi nella sola Catania); il Primo ministro Giolitti ebbe notizia dell’accaduto alle 17,25 del 28 dicembre, grazie a un telegramma inviato dalla nave “Serpente” da Marina di Nicotera; i primi soccorsi giunsero alle sei del mattino del 29 dicembre, grazie all’ammiraglio russo Litvinov, che comandava la nave corazzata “Makaroff”: altri aiuti poi giunsero dagli Stati Uniti, dalla Prussia e dalla Svizzera; l’8 gennaio 1909 ci fu il primo decreto del governo per tirar su le baracche; il 6 luglio 1990 venne varata l’ultima legge per la ricostruzione post-terremoto; la legge venne poi semplificata nel 2002. Le baracche sono ancora lì.

Lì: cioè al di là di una passerella larga intorno a tre metri, o poco più, frutto – com’è stato scritto – dell’ingegneria della povertà per superare non lo Stretto tra Scilla e Cariddi, con un Ponte ormai entrato nella letteratura delle mitiche opere potenziali, ma un più modesto ponte su uno stretto di liquami, un rigagnolo fognario a cielo aperto di scarichi di acque nere. Che divide due blocchi di baracche: una “campata unica di assi marce” tirata su da chi ha avuto la necessità di continuare a vivere senza altro riparo, in case che case non sono e non potranno mai essere, ma tane arredate alla meglio, con l’eternit a far da tetto, con le pareti interne ammuffite, al modo delle altre baraccopoli, per esempio quella di Camaro, o quella di Fondo Fucile, tutti monumenti alla disperata solitudine di un Sud alla deriva.

Uno pensa: forse sono agglomerati di zingari (forse bisogna dire “rom”), ma non è così, non si tratta di microscopiche favelas tirate su dai protagonisti delle nuove emergenze, cioè dell’emigrazione e degli ingressi clandestini. Si tratta di spettrali rifugi italiani, nei quali vive la terza generazione baraccata, sono le pronipoti delle prime baracche offerte e montate da svedesi e americani, da svizzeri e prussiani, all’indomani della terribile scossa tellurica, quando Messina diventò una città di legno (compresi il teatro, il municipio, il duomo), prima che il regime fascista realizzasse baracche in muratura (le madri di quelle di Giostra) e il regime repubblicano, dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, inventasse queste «casette ultrapopolari ad uso provvisorio», con vista sugli scarichi fognari, con affacci su strade-cunicoli, con circolazione di aria mefitica (ecologisti di tutte le latitudini italiote, dove siete?).
Vi abitano messinesi che lavorano, quando c’è lavoro; che vanno a votare, magari dopo nuove, magnifiche e progressive promesse elettorali; che pagano la tassa sulla spazzatura che immancabilmente li circonda, beffa che persiste dopo l’inganno che resiste; che pagano la corrente elettrica, sopraggiunta con ragnatele di fili pericolosamente volanti, stremate dai corti circuiti; che pagano l’acqua che scorre a intermittenza dai rubinetti, ma non quella piovana che penetra dentro le capanne e fa scricchiolare sinistramente le ossa artritiche di chi le abita.

Qui è la frontiera di una catastrofe umana. Generazioni di baracche e generazioni di messinesi che vi continuano a vivere: in più di tremila, nell’anno del Signore 2008, a cent’anni dal terremoto, tra i quartieri che abbiamo citato, e tra gli altri agglomerati, quelli dell’Annunziata o del Fondo De Pasquale, del Fondo Basile e del Fondo Saccà, tutti insieme stratificazioni geologiche della storia del Sud e della Penisola, della classe politica italiana e siciliana, del colpevole squallore che consente soltanto le infiltrazioni mafiose e, per dire, a prenderne coscienza è come ricevere un pugno nello stomaco, mentre non è dato sapere se prevalga il sentimento della compassione o quello di un’impotente indignazione.
Perché qui sono le trincee degli uomini e delle donne invisibili, a due passi dall’Università e dal capolinea della metropolitana, di fronte al nuovo museo che accoglie il Caravaggio e Antonello da Messina: qui cominciarono a sorgere le favelas, con i 39 milioni di lire stanziati da Giovanni Giolitti negli stessi giorni in cui veniva ammazzato Joe Petrosino. Da allora, le suore di un convento vicino continuano a donare pasti caldi, mentre l’emergenza sanitaria e l’assistenza sociale non sono diritti cui avere accesso, ma pura e semplice metafora kafkiana, che coinvolge uomini e donne dimenticati da ogni lista di assegnazione, segnati persino da un’età che non è la loro, per i visi che non corrispondono all’anagrafe, invecchiati con fulminea precocità, rugati dall’indigenza e dall’abbandono in queste che chiamano case per cani, con coperture d’amianto, con letti nei quali si dorme ammucchiati, in promiscuità, con bagni esterni o – se interni – nascosti dietro un paravento bisunto.
Ma sicuro, c’è una legge, quella del ‘90, una legge regionale che prevede il risanamento di Messina, lo sbaraccamento e la riqualificazione urbana e sociale, che mette a disposizione 500 miliardi di lire dell’epoca. Solo che ne sono stati usati soltanto 150, gli altri chissà dove sono andati a finire. Non se ne parla, perché ci si vergogna: non della sparizione dei fondi, ma del mosaico di baracche, che va tenuto in disparte, nascosto, anche se non dimenticato, perché, alla fine dei conti, rende, eccome se rende!
Infatti: i piani particolareggiati sono stati approvati (ma solo nel 2002), e nel 2004 la Regione ha stanziato altri 70 milioni di euro; ma gli espropri e le nuove costruzioni sono fortemente frenati dalle burocrazie. Così, alla fine, per disperazione le famiglie fanno ormai le terremotate vita natural durante. Se qualcuna ottiene una nuova casa popolare, consegna ai figli la baracca, dando vita a un’interminabile catena di sant’Antonio della miseria: ma è l’unica eredità consentita a chi – nel 1961, ai giorni del boom italiano, i baraccati messinesi erano ancora 30 mila – ha vissuto dove è indegno vivere, perciò solo quel tesoro è in grado di offrire.
E se qualcuno accenna al Ponte sullo Stretto, nessuno si mette a ridere, limitandosi a indicare il loro ponte, quello che scavalca pericolosamente il fiume di liquami che scorre senza soluzione di continuità sotto un cielo “sempre più blu”; o a mostrare l’avviso del Comune, che reclama gli affitti arretrati (migliaia di euro che nessuno possiede); o fa notare che i “viali” che si aprono fra le baracche sono così stretti, che se uno ingrassa («ma non si corre questo pericolo») neppure riesce a passare, come non ci riesce a transitare una cassa da morto, se non per percorsi estremamente complicati.
Eppure proprio qui, nel 1909, a poco più di un mese dal sisma, Messina era un deserto di macerie, ma dava anche l’impressione di essere un fervido cantiere, al punto che Luigi Barbini, sul Corriere della Sera, il 4 febbraio prospettò la speranza che «un grande avvenire si preparerà per Messina». Una speranza che durò il breve spazio di un mattino.
Quando tutti i soccorritori se ne tornarono a casa, le illusioni tramontarono insieme con loro. E già il 9 maggio aveva il sopravvento la cronaca con i resoconti tragici degli avvenimenti: «Per l’assegnazione delle baracche, contro soprusi e favoritismi, la polizia sparò contro la folla lasciando sul terreno 5 morti».
A ripercorrere la storia delle sparatorie “istituzionali” contro le folle inermi del Sud, lungo tutta la storia d’Italia, con lunghe sequele di morti ammazzati, c’è da rabbrividire. Ma restiamo al tema, anche perché, in seguito, sul terreno Messina ha lasciato soltanto le baracche, sopravvissute ai Savoia, a Mussolini e ai suoi gerarchi, a due guerre mondiali e a 62 governi della Repubblica: monumenti palpitanti a un secolo di storia del provvisorio come definitivo fallimento del Sud e dell’Italia.

 

   
   
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