Giugno 2008

Geopoesia

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L’Italia in versi
Ada Provenzano - Giorgio Franciosa - Elisa Minerva
 
 

 

 

L’atto d’accusa del Sud è storia,
è narrativa,
è poesia, è diritto negato, è protesta inascoltata,
è voce nel deserto.
Poi, silenzio.

 

«Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione». Così, il Vico. E in realtà hanno senso e passione i versi dedicati alla terra natia, i sentimenti suscitati dalla visione di un orizzonte o dal ricordo di un paesaggio, come la trascrizione realistica di una condizione umana, oppure l’ispirazione determinata da uno stato d’animo, da un moto del cuore, da un presentimento, da un sommovimento di pensieri, da un’agitazione intima di emozioni, di sensazioni, di fantasie, di slanci o di paure. Ma certamente, almeno per quel che riguarda la poesia creata nel continente Sud e nelle grandi Isole, che del Sud – antropologicamente, culturalmente – fanno parte, sono il paesaggio e la rappresentazione di sé, del contesto antropico, della rivendicazione della libertà e dignità, dell’affrancamento da una storia più tragica che grande a dare nerbo, consistenza e valore profetico ad una poesia altrimenti immiserita da romantici afflati e ridondanti svolazzi.
Poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento…, scrive Ungaretti. E Mario Luzi riecheggia: C’è sempre qualcosa che rimane inespresso. La poesia è imprendibile. Tutto sommato è la vita al suo più alto grado di partecipazione intima. Mentre D’Annunzio sembra suggerirci che la natura, che era specchio degli stati d’animo dell’uomo, diventa la materia da cui trarre infiniti echi visivi, uditivi e olfattivi.
Dunque: è la forma del messaggio, il modo in cui le cose sono dette, a determinare l’unicità di un testo poetico; esso acquista un significato proprio grazie a una scelta di temi e a una combinazione molto attenta, originale, e polisemica, delle parole e delle immagini espressive. Con una caratteristica in più, per quel che riguarda la poesia del Sud e delle Isole: mentre chi legge la poesia di altre latitudini è chiamato in genere a cooperare alla costruzione dei significati del testo, per quella del continente meridionale e insulare la cosiddetta “ambiguità”, propria del messaggio poetico, non soltanto evoca e allude, (proprio in quanto ambiguità), ma dichiara e spiega, lasciando poco spazio all’immaginazione e all’interpretazione.
Soprattutto per queste ragioni, di uno stesso autore, il siciliano Mario Gori, abbiamo l’autoritratto che coniuga contemporaneamente dato biografico e fantasia significante: Io sono un saraceno di Sicilia / da secoli scontento, / un antico ramingo che ha pace / solo se va. // Ma il cielo è alto, / è altissimo / e la mano dell’uomo non arriva / a rubare una stella. // Così / vado in cerca d’un fiore / da appuntarmi sul cuore; e le immagini impietose del mondo che lo circonda, del paesaggio sociale che condiziona il destino dell’uomo: Nera miseria cova nei catoi, / tossiscono bestie e fanciulli, / fave cotte quando si hanno, / cicoria amara e cardi senza pane. / L’inverno è una sentenza di dolore. // L’asino morto tutto pelle ed ossa, / la tramontana che passa la porta / e non bastano i sacchi di concime / e le vecchie bisacce / a scaldarci le ossa trapanate. / E la luce ci tagliano, / ci tagliano anche l’acqua / e ci svendono all’asta il canterano. / Non contano più niente / i santi protettori / e il ferro di cavallo sulla porta / e le croci di palma benedetta, / non c’è misericordia, / ci tolgono anche i chiodi dalle mura. // E le madri son come coniglie, / coniglie nere sepolte dai lutti / e i padri se ne stanno sulla piazza / a guardare la pioggia maledetta / che gonfia le fiumare / e dieci son le bocche da sfamare / dieci paia di scarpe sono un occhio...

Se la Calabria di Repaci era “grande e amara”, che cos’è la Sicilia di Giuseppe Longo? ...È ginestra, / è marzapane, / limone, lupara, / pane sudato, / tentazione. / È fuoco / e gelo d’odio. / È questo sangue / questa fredda mente. / La Sicilia è mare, / pianura arsa, montagna, / roccia, tepore / dentro le mani, / sapore di menta, / gentile carezza d’amore, / partenza, estraneità. / La Sicilia è la riva / ultima / dove approdano / levigate carcasse, / gusci, conchiglie / vaghe forme di morte.
Certo, è terra che non dà tregua, che insegue e richiama al nostos, al ritorno, al viaggio a ritroso, all’ostinato itinerario senofonteo. Scrive Maria Luisa Spaziani: Lo vedi come l’isola si torce / nei suoi venti stasera, con che furia / tende a disancorarsi dalle boe / profonde del terziario, come anela / al volo sparso delle sue cortecce / e foglie e sabbie nei vortici caldi? / Venga a sentire questa sarabanda / chi la sua patria cerca, che una legge / invoca del suo esistere, chi crede / alle dighe, ai bastioni, alle colate / ferrigne di cemento, – e cieco ignora / che siamo antichi pellegrini in marcia / verso un santuario, verso una sorgente, / verso una valle dolce per fondarvi / la cittadella del tuo sogno, // quella // che compirà a sua volta la parabola / dal nulla allo splendore, e poi t’insinua / quella furia sottile, inestinguibile / di ritornare pellegrino. E ancora: Un giorno forse queste mie parole / torneranno dal mare che le vide / fresche Veneri nascere nell’ora / di quei lampioni, pallide meduse, / che tremano con occhi di viola / lungo i sentieri di Cariddi. Al piede / delle mimose gracili già leva / la testa corazzata la famiglia / dell’ortica invincibile. Raccogli / come conchiglie fragili alla riva / come felici quadrifogli i suoni / che ti vado dicendo, note scisse / da una musica lunga che nel mondo / non trova pentagramma che la regga / nei suoi voli leggeri. E infine, di questa incantevole poetessa, alcuni versi dedicati alla memoria di Lucio Piccolo: La landa silenziosa dove il rantolo / lungo del mare e il vento a primavera / tessono un dolce gregoriano, rompe / tra i giardini d’aranci a notte un lugubre / latrar di cani, cuori alla catena, / voci delle dimore abbandonate / che invocano un padrone, che l’agguato / rendono vivo nella fonda tenebra. / Corde spezzate, lèmuri, coscienza / vigile della notte, i cani, in orde / fameliche, vagavano nel tempo, / signori e subalterni d’una legge / che fu soltanto loro quando il mondo / conobbe incontrastato sotto il sole / l’impero della rosa. // Latra anche tu contro la vita breve, / contro quel vento che cancella i versi / incisi, crocefissi nella neve.

Come il lutto ad Elettra, la morte si addice all’antropologia culturale dell’isola? Scrive Salvatore Quasimodo: La mia terra è sui fiumi stretta al mare, / non altro luogo ha voce così lenta / dove i miei piedi vagano / tra giunchi pesanti di lumache. / Certo è autunno: nel vento a brani / le morte chitarre sollevano le corde / su la bocca nera e una mano agita le dita / di fuoco. // Nello specchio della luna / si pettinano fanciulle col petto d’arance… // Chi piange? Io no, credimi: sui fiumi / corrono esasperati schiocchi d’una frusta, / i cavalli cupi, i lampi di zolfo. / Io no, la mia razza ha coltelli / che ardono e lune e ferite che bruciano.

Emerge, a tratti, un’atmosfera idillica, e riecheggia una stupefacente serenità di pensieri, come in un’ora sospesa, come in una tregua concessa da dèi amicali. Scrive Giuseppe Villaroel: Aria della mia terra, coi suoi miraggi lunari / quando i campanili vegliano sopra il gregge dei tetti / e le strade costeggiano, coi bianchi parapetti, / i precipizi dei torrenti e i boschi secolari. / Aria della mia terra, ove fiorisce il melo, / fra le sabbie del vulcano e le oscure pietraie, / quando s’aprono dai sentieri negli abissi le baie / ove l’acque immutate hanno specchi di cielo… // Voci e volti della casa: le parole tranquille / che riecheggiano gli anni dalle stesse finestre. / C’è uno sguardo materno, un respiro silvestre / dietro il chiuso delle ortaglie e le siepi delle ville. / Quando giunge il mendicante nei portoni scoperti / le fanciulle, affacciate su quel canto di dolore, / sospirano tramortite dietro un sogno d’amore / che arriva, con la sera, dai lontani deserti. / Aria della mia terra, ogni pietra è fibra di cuore / e la strada è il cortile comune del paese. / Stanno in crocchio gli abitanti sui gradini delle chiese / e si nasce quasi insieme ed insieme si muore.
Mentre Ippolito Pindemonte ha uno scrigno di immagini omeriche, che ci porge con un linguaggio poetico nobilmente antico: ...Il mar Sicano / solcai non una volta, e a quando a quando / con piè legger dalla mia fida barca / mi lanciava in quell’isola, ove Ulisse / trovò i Ciclopi, io donne oneste e belle. // Cose ammirande io colà vidi: un monte, / che fuma ognor, talora arde, e i macigni / tra i globi delle fiamme al cielo avventa; / templi che vider cento volte e cento / riarder l’Etna spaventoso, e ancora / pugnan con gli anni, e tra l’arena e l’erba / sorgon maestri ancor dell’arte antica...
E subito torna la voce del cireneo, del Gori che deve farsi carico della croce di tanti, di troppi altri, per una sorte fatalmente perdente, senza che nemmeno sia stata tirata ai dadi: ...A quest’ora son tombe al mio paese / le case e il vento dondola ai crocicchi / le lampade, la piazza è già deserta / ed i santi di pietra son rimasti / umiliati in penombra. I carrettieri / vanno tramando amori e gelosie / con le nenie covate nella gola / e giù nella campagna tra i canneti / i cani sospettosi urlano al giallo / cerchio di luna se nell’aria cupa / va delirando un fischio disperato. / Come un ramingo sono andato via / con la lagrima grossa del rimpianto / alle strade che amai, alle finestre / dove appesi i bei sogni dei vent’anni, / un garofano rosso, una canzone...
Chi non parla più la propria lingua è destinato a restare senza identità? Non proprio, sembra rispondere Andrea Genovese, messinese emigrato in quel di Lione. Semmai, acuisce i paradigmi della memoria (della nostalgia) per la terra natale: L’impeto dell’alga / non dà del pesce Cola / un’idea marittima ben chiara / sembra Messina una remota / bruma di colline calve. // Appena un anno santo mi separa / dall’ultimo scirocco menzognero. E quasi nella struttura metrica di folgoranti “haiku”: Un fiore / su quel petto ondoso // poi lo scompiglio del vento / la musica di morte / della tonnara. Oppure: Forcuti dèi / della mattanza ribollente // e noi all’incrocio / del loro scontro feroce / del loro dilemma insoluto. O infine: Angurie insabbiate / vecchi pescatori / sorpresi nel fossile sonno // che non regge all’urto di Cariddi / e al leggendario guado. Mentre Giovanni Alfredo Cesareo dipinge di madreperla la messena Zancle percorsa dal canto del chiù: Le cime impallidiscono: / langue la luna stanca / nel cielo solitario / che da levante, verso il golfo, sbianca.
E Luigi Fiorentino, scendendo più a sud, ritrae la piana catanese come in una sequenza impressionistica, veloce alla partenza, poi in vischioso rallentamento al culmine del componimento, quando le immagini cedono il passo alle note ondulari che quasi fasciano il paesaggio: Lucide arance della Conca d’Oro / tra cielo e mare, e luccichio d’alloro. // Fuggono / campi di grano ai margini d’ulivi, / crune di campanili / e cupole moresche alte nel sole. // (Albica vele, intorno, il mar di Scilla; sembra la terra supplichi Aretusa). // Colà, le donne han gli occhi di giaietto, / e il sangue avvampa / nei miti venti che sui colli strisciano… // Narcisi, i mandorli nei fiumi / creano sogni bianchi / e a spigolo di strada, / a mezzo d’agavi e vigne, / stride lento il carretto / già che tra sparsi templi, / figlia del sole, la locusta grilla. / Tutta la terra è musica che vive.

Epipoli-Neapolis-Tiche-Acradina-Ortigia: le cinque Siracuse federate in una sola Siracusa sotto tiranni e geniali pensatori. Si parla di Catania, vertice della Conca, e si celebrano i fasti del Barocco. Si parla di Siracusa, e si cede il passo alla memoria delle grandi migrazioni del VII-VI secolo prima di Cristo, quelle che diedero linfa vitale alle civiltà di Magna Grecia, da una parte, e della Sicilia dall’altra. Non sa (o non vuole, o non può) sfuggire a questa memoria Lorenzo Giusso: ...Bronzei fragori d’agguerrite spade / evoca un ronzio d’api sulla piana / scabra di sassi, e il solo che si allontana / sembra lo scudo d’un eroe che cade. // Fra i rottami del forte calcinoso / l’azzurro scende lento a intenerire / due vagabondi sposi forestieri. // Nelle fosse serbate ai prigionieri / un solitario sogna stabilire / la signoria di Dioniso radioso.
E quasi di rimando, come in speculare sintonia, Luciano Nicastro: Sopra i campi di Siracusa, presso le scogliere, / ove, lasciata la sua bianca voce, / l’onda che urta si ritrae nel mare, / con rauco grido s’alza la cornacchia. // Immensa solitudine!... Contro il mare e il sole, / il ripetersi continuo di quel volo e di quel grido. / Teocrito, Archimede, i trionfi, le bighe / spariscono quali schiume sul duro / esistere; ma della rauca voce, del volo nero / mai non perdono l’orma le scogliere.

Si è quel che sono stati i nostri antenati. I lari domestici, prima del diritto di Roma, conobbero la cultura dell’Ellade. Fortunati popoli per secoli, quelli che poi, nel Sud diventato tragicamente “profondo”, caddero come in un precipizio senza uscite di sicurezza. Fino al momento in cui se ne è presa coscienza: con la storia chiamata in causa (per la leggenda di Teodorico) nientemeno che dal Carducci, (Ecco Lipari, la reggia / di Vulcano ardua che fuma / e tra bòmbiti lampeggia / de l’ardor che la consuma...); con la metafora di Quasimodo, (Tindari, mite ti so / fra larghi colli pensile sull’acque / dell’isole dolci del dio, / oggi m’assali / e ti chini in cuore. // Salgo vertici aerei precipizi / assorto al vento dei pini...); con le immagini malinconicamente realistiche di Federico De Maria, (Rovine, non più vive di canti, di danze, di preci, / d’incensi ai piedi dei propizi numi, // eppure eterne. Tutto è trascorso nel mondo: la gloria / di capitani insigni, di Empedocle e Terone; // perfino gli dèi sono svaniti per sempre. Soltanto / l’opera eretta a gara con Dio resta, sì, rotta // e frantumata, ma tuttora in cospetto del mare, / baciata dalla luce, carezzata dal vento); o infine con l’invettiva quasimodiana, mossa da motivi che da personali possono leggersi come universali, come espressi da un’infelice comunità insidiata dall’egoismo di uomini materiali, (Su la sabbia di Gela colore della paglia / mi stendevo fanciullo in riva al mare / antico di Grecia con molti sogni nei pugni / stretti e nel petto. Là Eschilo esule / misurò versi e passi sconsolati, / in quel golfo arso l’aquila lo vide, / e fu l’ultimo giorno. Uomo del Nord che mi vuoi / minimo o morto per tua pace, spera: / la madre di mio padre avrà cent’anni / a nuova primavera. Spera: ch’io domani / non giochi col tuo cranio giallo per le piogge).
Di Quasimodo fu amico Giuseppe Longo, per necessità di mestiere (oltre che scrittore, fu giornalista, direttore di quotidiani, in Venezia e poi a Roma) emigrato al di qua dello Stretto. E alla morte del Premio Nobel, gli dedicò memoria e pensieri sodali, in un (com)pianto che era allo stesso tempo confessione e denuncia: E così / anche tu taci, / Quasimodo. / È già sera… // Affacciati alla balconata / di Tindari mite / guardavamo fiorire / nell’acqua del nostro mare / i regni dell’al di là. / Bastava voltarsi, posare il piede / sull’antica pietra dell’anfiteatro / per vedere / nella frastornante luce / Roccalumera / lunga e sottile, / la stazioncina del padre / con le lampade a olio / e Messina / sterminato campo / di baracche di legno… // Il tuo cuore / era pieno di Sicilia. / Essi non sanno / come sia pesante / nel nostro sangue / la memoria, / la storia, / la nostra povera storia / di negri senza ghetto, / di negri della diaspora / diffusi come / un diffuso seme / dappertutto / con il cuore pieno di Sicilia. / Essi non sanno. / Essi ci invidiano / il prodigo cuore. / Ci strappano / come fossimo / senza radici...
Ogni grido rimasto senza eco. Forse qualche riverbero, ma esangue, e poi molti silenzi infastiditi, gli occhi non chiusi, ma rivolti altrove. L’atto d’accusa del Sud è storia, è narrativa, è poesia, è diritto negato, è protesta inascoltata, è voce nel deserto. Poi, silenzio. Ascoltate il silenzio, ci disse una ragazza che un giorno ci guidava per Napoli sotterranea: il buio era totale, il colore annientato, e quel non vedere ci faceva anche non sentire. Ecco, la metafora del Sud è questa dell’atro muto immoto ventre partenopeo che annienta corde vocali e pupille.
E forse proprio per questo vogliamo richiamare le parole di chi fu scrittore, saggista e poeta e testimoniò perché non fosse dimenticata la condizione di un’Isola che pure era stata matrice di storia e di cultura europee di altissimo livello. Dico di Donato Moro, che un giorno volle percorrere gli itinerari siciliani che sempre lo avevano affascinato, lettura dopo lettura, con le pagine dei classici, dei moderni, dei contemporanei che lì nacquero, e che da quella terra generosa assorbirono gli umori vitali, l’inclinazione al sofisma, l’aristocratica insularità: in una parola, la “Sicilitudine”, metafora delle terre di un Sud che fra loro confinano per fronteggiarsi. Scrive Moro: Cane capra mulo scapolare / l’isola passa ai margini di strade solitarie / l’asfalto nel crepuscolo non porta un’illusione. / Aspri orizzonti avvinghiano / le ruote fonde degli scialli neri. / La cornacchia è calata dentro il nido / l’orgoglio è rimandato / il silenzio sommerge la paura. / Lento moto del cielo / greggi di cime e nubi ad occidente / verso Rocca Busambra, / fosco mantello / ciclopico pastore al centro della terra / puntigliosa misura del pane e dell’acqua. / Sbanda l’ala del pipistrello. // Adesso il telamone ha già finito / il suo giorno di pietra arroventata / il fedele si umilia alla moschea / il trono è giustizia del barone / il barone destino del suo servo. / Nell’ombra è ormai difficile scoprire / il pianto di ciascuno. / La risacca ha deposto strati a strati / non li tocca neppure la radice dell’ulivo. / Il pescatore con le braccia in croce / le donne delle terre deflorate / il colono trafitto fra le rocce / sono volti musivi imprigionati / sugli sfondi delle absidi dorate. / E l’oro più non splende nella sera. // Amaro commentare della guida / a San Giovanni degli Eremiti / – Chi vince ha sempre ragione di disfare –. / A orde gli invasori battevano su ciuffi di palmizi / con violente libecciate. / Rotolava sul mare l’onda fresca / il forestiero si lavava il viso. / Ogni cupola rossa nel suo cerchio / ogni arancia matura in fondo al pozzo, / alle varie vicende degli dèi / lo stesso sconsolato sacrificio. / I vecchi fichidindia immoti, / stirpe d’esseri incisi / da mille punte di coltello. / Più duri della selce nella scorza. // Il vento del deserto non ha canti / la musica è lamento / ogni porta si chiude sul tramonto. / È l’ora del governo delle bestie / del boccone a fatica masticato / dello sguardo fissato contro il muro./ La speranza è la notte.

Straordinario il fatto che a cantare la Sardegna siano stati non pochi poeti nati in terre lontane da questa, che è la più antica terra emersa dell’emisfero occidentale. A cominciare da Quasimodo: Nell’ora mattutina a luna accesa, / appena affiori, geme / l’acqua celeste… // Graniti sfatti dall’aria, / acque che il sonno grave matura in sale… // Deserto effimero: in cuore gioca / il volume dei colli d’erba giovane; / e la fraterna aura conforta amore; passando per Biagia Marniti: ...Tu isola, ove il cuore solitario brucia / e ridi nei tramonti / negli occhi dei pastori / sul mare che fa onda da Spartivento a Stintino / solleva il tuo umano tronco di roccia / il grano da seminare nel sole di platino / è fatica, è lotta...; per giungere infine a chi sardo a pieno titolo è, a Sebastiano Satta, cantore delle genti della sua antica terra: Or i sardi pastori, all’indorarsi / dei cieli, mentre van con tintinnio / dolce le greggi a ricercar gli sparsi / rivi, levan le fronti e adoran Dio… // Poi vanno lungo il risonante mare, / fra prati d’asfodelo e per le rupi, / vanno fantasmi d’un’antica età; // torbidi e soli nel fatale andare, / il cuore schiavo di pensieri cupi, / l’occhio smarrito nell’immensità. E lo stesso autore, con i medesimi protagonisti, sul monte Ortobene: Meriggiano le pecore e i pastori. / Elci e felci non fremono a una stanca / ala di vento; il mare si spalanca / da monte Bardia fino a Galtelli. // L’ombra di un volo e un grido di rapina: / l’aquila. Con un dondolio lento / si rimescola il branco sonnolento: / l’ombra dilegua in seno al mezzodì; o infine nel cuore fosco dell’Isola, a Orgosolo, dove la legge barbaricina dà nome e sostanza a una cultura primordiale: La madre cerca il figlioletto ucciso: / era una palma, un fiore di narciso! // E aspettandolo, in pianti s’addormenta: / un nembo di vendette fuori venta. // Sognando cerca tutta la campagna, / la valle il piano il bosco la montagna. // E cerca e cerca lo ritrova in cielo, / con la mandra, in un campo d’asfodelo. // “O mamma, t’aspettavo e sei venuta: / ma come piangi, come sei sparuta! // Oh rimanti con me! Ecco, è l’aurora, / e il padre, il padre mio non viene ancora”. // “Babbo non viene ancora a queste parti, / è rimasto laggiù per vendicarti!”.
Scabre figure nuragiche, i pastori di Sardegna. Uomini di roccia, di rudi istinti e di fieri sentimenti anche nelle espressioni più intime, quale può essere, più d’ogni altra, una preghiera. Scrive Tonino Ledda: Puoi udirci, Signore? Non sappiamo pregare! / Non troviamo parole, leggère come fiori, / quali Ti salgono dalle labbra dei preti, / e i nostri volti, saldati dalle pene, / fanno timore, non portano al perdono! / Odoriamo di capra, di denso concime, / pensiamo solo all’erba, al cacio, e alla lana, / sogniamo l’acquavite, balli sui sagrati, / l’amore cantiamo, e imprese di banditi. / Non possiamo elevarti le lodi delle Chiese, / non possiamo pensare alle cose dei Santi! / Però, se torni, anche in carestia, / gli agnelli uccidiamo, per farti la cena: / O Dio del cielo, Ti tendiamo le mani: / Tu non guardarle, sono tanto scure… / Siamo pastori, non sappiamo pregare!
E infine Francesco Zedda, il narratore e poeta intriso di aneliti indipendentisti (espressi in un corposo romanzo, Maracanda, che è nome immaginario di un reale paese isolano, e ripresi in un altro testo, più contenuto, C’è un’isola antica), autore fra l’altro di un “Inno sardo” che riportiamo a coronamento di questo discorso sui luoghi della poesia (e sulla poesia dei luoghi).

Scrive Zedda: Nel regno d’erbe e d’acque / fui re pastore. / Trassi le leggi dalle leggi eterne / delle stagioni. / Nell’accorante immensità dell’onda / di quest’isola antica / non ebbi mai altro amico che il fuoco. / I miei pensieri milioni d’uccelli / salutavano il giorno. / Le fontane spaccate nella roccia / dalla gioia dell’acqua, / le selve innamorate / e i venti azzurri dall’ala d’argento / sanno come felice alla pastura / andavo col mio gregge in transumanza / dalla mia tanca al piano / e dal piano alla riva lungo i fiumi / miei fratelli maggiori. // Ebbi nell’aula fiorita / mio maestro di logica il serpente… // Sulla vetta dei monti che dall’alto / tutto vedono e giù lungo le strade / che tutto sanno edificai i nuraghi / solo con le mie mani / senza bava di schiavi senza calce / squadrando le pietre a spirale / posandole l’una sull’altra / seguendo soltanto a modello / la mole perenne del cielo. / Non fortezze di guerra. / Monumenti di pace e di giustizia. / Guardateli nel sole dei millenni… // Fuoco e ceneri in secoli dispersi / ma il rosso fiume della mia memoria / fugge dal Sulcis alla Nurra e a lungo / narra la storia che non sanno i libri. / Qui nella pergamena / della mia pelle è scritta la mia storia. / Leggete sul mio petto le ferite / della spada dei consoli romani. / Qui sulla schiena i lividi decreti / della frusta spagnola. / Sui polsi il punto a fuoco / delle catene ribadite in cella. / Guardate qui sulla mia pelle gialla / di fame e di malaria le sentenze / dei giudici sabaudi. / Il sangue bruno delle fucilate: / sigillo dei re. / Da Lepanto a Custoza / dal Piave ai bianchi fiumi della Russia / per un pezzo di pane e per un soldo / ho combattuto nelle grandi armate / per servire l’inganno e la follia / dei sacri imperatori e dei tiranni. / Nelle battaglie a fuoco e a ferro freddo / chi fu di me più intrepido e feroce? / I vinti vivi e morti ho depredato… // E i melodiosi secoli che vissi / nel verdissimo verde delle selve / e delle tanche? E dov’è la mia pace / con i pensieri milioni d’uccelli? // Tomba il nuraghe / la mia tristezza è l’aquila dei monti. // Sardegna mia! / In quest’ora ti sento ancora più mia / mentre dal Sarrabus alla Romàndia / tu emergi dagli oceani della notte. / Il Flumendosa è un velo d’acqua casta / sopra il tuo grembo di vulcano spento. / Dallo stupore antelucano al sole / si solleva il Carrasì con la mole / delle rosate rocce. / E le querce e gli ulivi non più neri / non verdi ancora grondano di luce. // Dal Logudoro alla Marmilla agnelli / vanno pascendo sul tuo seno d’erba… / Nel Gocèano il cielo è così dolce / che lo tocco e lo sento nelle dita / come un mandorlo in fiore. // Sotto i monti corruschi del Sulcis / ogni dì più profondo ritorco / le mie mani radici di foreste / carbonizzate con il fior di sangue… // In tanto duolo metto all’ardua fronte / del Gennargentu le bende di lutto. / M’attendo solo la pace dei giusti. / E coi giusti combatto. Certo un giorno / davanti al mar di Cagliari m’udranno / salutar la mia patria / con me rinata libera e felice / fatta sovrana con la sua bandiera.
Possiamo dire, in conclusione, che non ci sia luogo della Penisola che non abbia ispirato un poeta, e al quale non sia stata “consacrata” una poesia, come dimostra questa sommaria rassegna. Identificare di volta in volta i luoghi e raccordarli ai versi che sono stati loro dedicati è un modo di arricchire le proprie conoscenze, di affinare la propria cultura, di prendere atto che la civiltà di una terra risuona anche attraverso i canti composti dai poeti.

Questo, quantomeno, è stato l’intento che ha impegnato l’indagine sulla “Geopoesia”. Questi i fini proposti. Compreso quello della scoperta, o della riscoperta, della nostra poesia. Perché, come ha scritto Dylan Thomas, una bella poesia è un contributo alla realtà: il mondo non è più lo stesso dopo che gli si sono aggiunti dei bei versi. E, dal canto loro, gli uomini anelano alla poesia, anche se non lo confessano: vogliono che la gioia sia aggraziata e che il dolore sia augusto, desiderano che l’infinito abbia una forma. E sanno bene che la poesia non tollera ipotesi, ma soltanto l’evidenza dei miracoli.

(6 - Fine. Le precedenti puntate
in “Apulia”, nn. I, II, III, IV/2007 e I/2008)

 

   
   
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