Giugno 2008

Il rapporto tra arte cristiana e fede

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La (nuova) bellezza di Dio
Tonino Caputo - Carlo De Carlo - Ennio Siniscalchi
 
 

 

 

In realtà,
il problema
se lo era già posto nel XII secolo un santo, Bernardo
di Chiaravalle,
a proposito delle
immagini dei
capitelli romanici nei monasteri...

 

La domanda è stata posta di recente, e ha un ineludibile fondamento: oggi come oggi, c’è bisogno di segni e di immagini nuove per dire, con il linguaggio contemporaneo, le cose vere di sempre? E con una provocazione in più: siamo forse dei nani sulle spalle di giganti, vale a dire gli artisti del passato? Certamente, per essere protagonisti, spiriti creativi e non perdenti, tocca agli artisti contemporanei cercare nuove forme, magari ancora incerte, come tutte le invenzioni originali in nuce, per esprimere il contenuto della speranza cristiana.
Non a caso è stato ipotizzato che si deve trattare sempre di qualcosa di inedito, di assolutamente futuribile, come l’ultimo dei nostri figli, che è sempre quello che ancora non è nato. «Quel che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto», suggerisce il lirico turco Nazim Hikmet.
È stato proprio questo il cammino dell’arte cristiana nei secoli. E a questo cammino lo storico dell’arte Timothy Verdon (un monsignore) ha dedicato una grande opera in tre volumi, sfarzosamente illustrati, L’arte cristiana in Italia, (San Paolo), di cui è uscito poco fa il terzo e ultimo volume, dedicato all’età moderna e contemporanea.
Dopo aver trattato nei primi capitoli “Le stagioni del Barocco (1600-1750)”, “Il Neoclassicismo (1750-1820)” e “Dal Romanticismo alla Seconda guerra mondiale (1820-1945)”, Verdon affronta il tema dell’arte cristiana dei giorni nostri. E sostiene che «il capitolo più difficile di ogni testo di storia è quello che tratta della contemporaneità».

Il problema dell’arte contemporanea, infatti, è realmente spinoso. E duplice. Deve innanzitutto rispondere alla domanda su che cosa sia “arte” oggi. Poi deve chiarire quale arte possa considerarsi genericamente “sacra” e quale più specificamente “cristiana”. Nel XII secolo, in realtà, il problema se lo era già posto un santo, Bernardo di Chiaravalle, a proposito delle immagini dei capitelli romanici nei monasteri, al cospetto dei quali si domandava: «Nei chiostri, davanti agli occhi dei frati, che cosa stanno a fare quelle ridicole mostruosità, quella bellezza per così dire deforme e quelle belle deformità?». Eppure, come ebbe a sottolineare sette secoli dopo un laico – anzi, un “poeta maledetto” come Charles Baudelaire – il connubio tra arte e fede in Italia «aveva ricoperto il paesaggio con una foresta di opere e simboli sacri».
Ai giorni nostri, tuttavia, di quella foresta di simboli, di quel forziere, di quella “bellezza” deforme o meno – come afferma lo stesso Verdon – «si è persa la chiave». Il problema è soprattutto di questi ultimi cent’anni in cui si è consumato il divorzio tra fede e cultura, e l’identità cristiana si è affievolita, subendo, soprattutto dal secondo dopoguerra, la grave e profonda crisi della secolarizzazione.
Sfogliando dunque le pagine e le illustrazioni di quest’ultima fatica del saggista, dopo il realismo drammatico di Caravaggio, l’enfasi barocca di Bernini, il neoclassicismo settecentesco, il revival romantico-religioso dei pittori Nazareni (seguaci dei preraffaelliti inglesi, amanti di Giotto e del Beato Angelico) e il simbolismo religioso (Giovanni Segantini e Gaetano Previati), ci troviamo davanti, nel Novecento, a una pittura – anche religiosa – che è messa in discussione dalle avanguardie d’Oltralpe. Si sperimentano linguaggi nuovi, con il cubismo la forma si scompone e la bellezza classica sembra svanire.
Va subito detto che la Chiesa, all’inizio, si dimostrò molto diffidente verso questa svolta rivoluzionaria. Pio XI nel 1931, in occasione dell’inaugurazione della Pinacoteca Vaticana, intervenne con parole molto dure, che ricordano quelle di Bernardo di Chiaravalle: «Troppo spesso questi pretesti nuovi sono sinceramente, quando non anche sconciamente, “brutti”, e danno luogo a “figurazioni”, o più veramente detto, a deformazioni, alle quali vien meno la stessa tanto ricercata novità, troppo somigliando a certe figurazioni che si trovano nei manoscritti del più tenebroso Medioevo».
Pio XI invocava dunque un ritorno alla bellezza dell’arte classica contro l’estetica del brutto e del deforme. Basti ricordare queste parole, dieci anni dopo, nel dibattito suscitato dalla provocatoria Crocifissione (1941), di Renato Guttuso, oggi nella romana Galleria Nazionale d’Arte Moderna: il tema era quello del dolore, della sofferenza e della morte, della denuncia della guerra e della crudeltà umana, tipico del XX secolo. E scriveva Guttuso: «Questo è tempo di guerre e di massacri. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena d’oggi».
Un grande pittore futurista come Mario Sironi replicherà al Pontefice difendendo il diritto dell’artista a “deformare” la realtà visiva, ove lo ritenga opportuno, come nella sua stupenda opera Cristo e la samaritana del 1951, che ora fa addirittura parte della ricchissima collezione della Città del Vaticano.
Il realismo trascendente di un pittore di ispirazione cristiana come Gino Severini, che unisce nel suo processo creativo il linguaggio della tradizione e quello delle avanguardie, testimonia l’influsso nella cultura italiana e nel dibattito artistico del filosofo francese Jacques Maritain, allievo di Henry Bergson e autore del celeberrimo saggio Arte e scolastica, in cui si rivaluta l’estetica tomista del bello, del buono e del vero.

Facciamo un salto nel tempo, e arriviamo ai giorni di Papa Paolo VI il quale, trentacinque anni dopo Pio XI, alla chiusura del Concilio Vaticano II (al quale invitò a sorpresa lo stesso Maritain), tese con fiducia la mano al mondo dell’arte e della cultura con un notissimo appello agli artisti: «Da lungo tempo la Chiesa ha fatto un’alleanza con voi». E prosegue il testo letto dal Pontefice: «Voi avete decorato ed edificato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l’avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere sensibile il mondo invisibile. Oggi come ieri, la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi».
Molti artisti risposero. Persino uno spirito apertamente laico come Fausto Pirandello realizzò uno Studio e due Crocifissioni che sono tuttora esposti nella collezione dei Musei Vaticani.
Ma la sfida più difficile risultò quella dell’architettura: la progettazione di nuove chiese, che avrebbero dovuto contenere le pitture e le sculture. Il punto qualificante fu il rinnovamento liturgico voluto dal Concilio Vaticano II. Se all’alba del XX secolo si guardava con nostalgia alle forme dell’architettura romanica medioevale, riprodotte con facilità grazie alle nuove possibilità offerte dalle strutture in cemento armato rivestite di materiali tradizionali come il cotto e la pietra, la riforma liturgica creò nuove esigenze con la necessità di coniugare nello spazio del presbiterio tre elementi: l’altare rivolto verso i fedeli, l’ambone della parola di Dio, il tabernacolo del sacrificio.
In Lombardia prevalse la corrente del Razionalismo, caratterizzato da interni spogli e da tipologie che ricordavano le chiese paleocristiane, con la ripresa dell’antico quadriportico che delimita il sagrato, luogo dove la Chiesa, che il Concilio chiama “Popolo di Dio”, si raduna per l’assemblea. E il grande architetto Giò Ponti, autore del grattacielo Pirelli, nelle sue chiese milanesi traduce alcune suggestioni gotiche nel linguaggio essenziale del cemento armato, che consente ampie superfici a vela.
Sono però i grandi Santuari, con l’afflusso sempre crescente di pellegrini, a dare opportunità agli architetti di esprimersi in linguaggi sempre più innovativi. Dalla Madonna delle Lacrime di Siracusa (1956) di Enrico Castiglioni, arriviamo, ai nostri giorni, al Santuario dedicato a San Pio da Pietrelcina, realizzato a San Giovanni Rotondo, in Capitanata, da Renzo Piano (1991-2004), a quello di San Francesco di Paola (1989-2001), dalle parti di Cosenza, di Sandro Benedetti, alla chiesa romana di Dio Padre Misericordioso di Richard Meier (1996-2003).
Anche le chiese dedicate ai nuovi Santi primeggiano per innovatività di soluzioni, come San Riccardo Pampuri (1985-1992) di Guido Canella a Peschiera Borromeo, e San Massimiliano Kolbe (1990-1992), realizzata da Justus Dahinden a Varese.
Ampie e innovative informazioni a firma di esperti fanno di questo lavoro di Verdon una fonte inesauribile di idee e di approfondimenti. Nella sezione dell’Arte barocca troviamo schede dedicate, ad esempio, ai coralli trapanesi, al presepe napoletano, o ancora all’altare barocco. Nei capitoli riguardanti l’Ottocento e il Novecento sono analizzate le condizioni del sistema viario italiano su rotaia e su asfalto.
Per quel che concerne la musica sacra, si va dalle “canzoni missionarie” di Grignon de Monfort e Alfonso Maria de’ Liguori alle Messe di Verdi e di Rossini, fino alla riscoperta dei canti gregoriani.
Al cinema – biblia pauperum del XX secolo – sono dedicate numerose pagine che ricostruiscono la storia di questo connubio, dalla Passion Lumière (1897) a The Passion (2004) di Mel Gibson.

 

   
   
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