Giugno 2008

Inchiesta sul sud

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I pregi in fondo al pozzo
Lelio Martinelli - Pierfranco Landi Valeri
 
 

 

 

 

Che cosa si farà per evitare nuovi disastri e per far prendere al Sud
il treno che
nessuna delle altre Regioni europee
in via di sviluppo ha perso?

 

Da tempo molti comunicano in chiaro, senza codici linguistici o diplomatici da decifrare, sostenendo che il Sud è una palla al piede dello sviluppo del Paese, di cui il Nord sarebbe invece il centro vitale. Nello stesso tempo autorevoli osservatori scrivono sui giornali che in Italia si sta determinando una separazione di fatto tra il Nord e il Sud. E il riferimento non è soltanto al crescente divario economico e sociale, vale a dire al reddito, all’occupazione, alle infrastrutture, e via dicendo, ma anche alla visione del ruolo dello Stato unitario e dell’Italia come nazione.
Non a caso la maggior parte delle forze politiche che contano continuano ad accendere i riflettori su una “questione settentrionale”, ritenendo che debba essere il Nord l’area da privilegiare comunque, al di là di ogni zavorrante proposito di soluzione dell’altra questione, quella storica, cioè meridionale.
La verità è che con tesi del genere si vuole lisciare il pelo a quella parte della cosiddetta “nuova borghesia”, stanziata esclusivamente nelle regioni settentrionali, che di fatto non ha una visione nazionale, soprattutto perché è attratta dai mercati europei e globalizzati, mentre nei momenti di difficoltà invoca un protezionismo “moderno”, fingendo di ignorare che esso richiama quello antico, avversato dalle più lucide intelligenze critiche (dei Cortese, dei Cottone, dei Compagna, dei La Malfa…) meridionali e non. Le forze politiche al Nord non contrappongono una strategia in cui possano riconoscersi le forze produttive del Sud e del Nord in una visione italiana ed europea. Nella contrapposizione delle formazioni politiche al Nord, il Sud non c’è. Ma continuano ad esserci per tutti la sporcizia delle strade napoletane, la mozzarella intossicata, i cannoli mafiosi, gli sperperi dei terroni, i morti ammazzati.
In un contesto del genere, non stupisce il fatto che una parte notevole di cittadini si rifugi nel nordismo protezionista e nell’antipolitica. E non sorprende nemmeno l’identificazione tra questione meridionale e ponte sullo Stretto. Stupisce che una politica nazionale e meridionalista non ce l’abbiano neanche le forze che si definiscono progressiste. Allora, con queste contraddizioni, come si farà a prospettare una politica comune per il Mezzogiorno?

Facciamo un esempio. Tra il 2007 e il 2013 perverranno dall’Europa ben 100 miliardi di euro per lo sviluppo del Mezzogiorno. Come saranno impiegati? Con quali programmi, per non disperdere queste risorse in mille rivoli? Teniamo ben presente il fatto che le Regioni, così come sono oggi, contribuiscono a dare un’immagine del Sud in cui prevalgono lo scialo del denaro pubblico, il clientelismo, la complicità o l’impotenza di fronte all’aggressività della criminalità organizzata. Le mafie, come sappiamo bene, non si possono distruggere se non c’è un insediamento politico e sociale, in tutti i gangli della società, di forze in grado di contrapporsi quotidianamente al radicamento e alla diffusione della “cultura mafiosa”, e se i comportamenti di chi governa non sono adeguati a questi obiettivi. Purtroppo, le cose stanno diversamente.
Parliamo intanto dei fondi europei al Mezzogiorno. Una delle polemiche più recenti (e più roventi) è stata incentrata sul “sorpasso” che avremmo subito dalla Spagna, come ulteriore puntata della storia infinita del declino dell’Italia. E subito autorevolissime voci si erano levate, alte, a smentire la retorica della crisi. E tuttavia basta proiettare i numeri in parità di potere d’acquisto di Eurostat per accorgersi che i sorpassi rischiano di essere, nei prossimi anni, molto numerosi.
Se continuiamo a crescere con i ritmi degli ultimi dieci anni, nel 2015 saremo superati dalla metà dei Paesi dell’Ue che poco più di una quindicina di anni fa sono venuti fuori dalla Cortina di ferro, e nel 2020 subiremo persino il sorpasso dell’ultima della classe, la Romania. Ed è un miracolo al contrario quello che ci aspetta, se pensiamo che solo quindici anni fa (appunto) l’Italia era per potere d’acquisto pro capite al di sopra – nelle stesse statistiche che adesso ci condannano – di Francia e Gran Bretagna.
Quasi tutti i Paesi che ci sorpassano – uno dopo l’altro – lo fanno, in parte, perché utilizzano molto meglio i fondi strutturali che l’Europa destina alle Regioni in via di sviluppo. Mentre noi continuiamo a sprecare, a disperdere, a dirottare risorse; e forse continueremo a farlo, anche nel momento in cui sta per abbattersi su Sicilia, Puglia, Calabria, Campania una valanga di euro. Cento miliardi fino al 2013, come abbiamo detto. Cento miliardi, equivalenti a dieci volte il valore della riforma delle pensioni che pure tanto clamore suscita.
Nel recente passato, i risultati sono stati pari quasi a zero. Secondo un’inchiesta condotta dalla London School of Economics and Political Science, cinquantuno miliardi di euro investiti tra il 2000 e il 2006 equivalevano – se spalmati sugli ultimi sette anni – grosso modo al 3 per cento del Pil lordo annuo delle Regioni meridionali. Insomma, sarebbero stati sufficienti, se distribuiti a tutti i meridionali in maniera automatica e senza alcuna struttura di governance, a generare una crescita del reddito pro capite di tre punti percentuali in più rispetto ad aree non beneficiate. E invece i divari sono addirittura aumentati: nel periodo, il Pil è cresciuto dell’1,2 per cento nel Sud, dell’1,3 per cento nel Centro-Nord, e del 2 per cento in Europa. Performance imbarazzanti, rispetto agli obiettivi che gli stessi programmatori si erano dati (3,9 per cento!). E non diversi sono stati i risultati sul fronte occupazionale, su variabili critiche come la sicurezza, o in settori vitali come il turismo.

Impressionante, poi, è il dato sugli investimenti diretti esteri: l’intero Sud ne attrae meno della sola Umbria. Del resto, i programmi di sviluppo sembrano scritti – a tutti i livelli – ignorando che esiste il “resto del mondo” e che persino le Regioni meridionali sono immerse in meccanismi competitivi globali. Dappertutto le distanze aumentano, fino a determinare situazioni tragicomiche, come quella dei Programmi di sviluppo elaborati dai Comuni: tutti uguali, e dunque tutti bloccati.
Che cosa si farà per evitare nuovi disastri e per far prendere al Sud il treno (probabilmente l’ultimo) che nessuna delle altre Regioni europee in via di sviluppo ha perso? Siamo sicuri che le Regioni, tutte le Regioni, sono attrezzate per gestire politiche sempre più complesse? Quali possono essere le alternative rispetto a meccanismi decisionali che hanno oggettivamente dimostrato di non essere adeguati? Quali sono gli obiettivi che ciascuna amministrazione (statale, locale) si impegna a raggiungere, e quali i meccanismi di incentivazione per chi li raggiunge, o di penalizzazione per chi li manca?
Il problema del Sud è di risorse, ma non solo di queste. Anzi, a volte sembra non del tutto infondata la preoccupazione di chi teme che i fondi servano, in realtà, a finanziare una classe dirigente inefficiente e inefficace, che è d’ostacolo a processi di modernizzazione che in qualsiasi altro Paese si verificano senza difficoltà. Il dato vero, dunque, è che decine di miliardi di euro sono stati gestiti fino ad oggi quasi esclusivamente da amministratori pubblici. In qualche caso, questi burocrati sono stati anche onesti e capaci. E tuttavia l’errore è pretendere che possano essere costoro a fare scelte che sono invece indirizzi politici dei quali si deve rispondere ai cittadini elettori. Purtroppo, però, la politica e le opinioni pubbliche sono quasi del tutto assenti sulla partita. Mentre non lo sono, e non solo nel Mezzogiorno, le forze carsiche che condizionano la società. Al Sud appartengono solo le idre mafiose, con le loro mortali metastasi.

E parliamo delle mafie, o meglio, di quella che è stata la matrice storica di tutte le mafie, cioè l’organizzazione siciliana. Quando certi personaggi si riempiono la bocca di “meridionali uguale mafiosi”, non solo dovrebbero guardare in casa propria, (i veneti dalle parti del Brenta, i lombardi dalle parti del capoluogo, gli emiliani dalle parti di Parma, e via dicendo…), prima di generalizzare a proposito e a sproposito, ma non sanno neanche di che cosa stanno parlando.
Prendiamo spunto dalla messa in onda in tv della pièce “Il capo dei capi”, e chiediamoci: come avrebbe commentato uno scrittore come Sciascia una trasmissione del genere? Forse è difficile dirlo. È più semplice immaginare, invece, quel che avrebbe potuto pensare della polemica sulla presunta tendenza a fare un eroe della figura del boss mafioso e del pericolo diseducativo che potrebbe derivarne. Certo, non poteva non tornargli in mente l’accusa che gli venne rivolta, dopo la pubblicazione di Il giorno della civetta, di avere in qualche modo “idealizzato” la figura del capomafia don Mariano, facendo così l’elogio della mafia. Succederebbe soprattutto quando il capitano dei carabinieri, Bellodi, va a casa del boss, e don Mariano gli spiega che le persone si dividono in uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà, e che lui non ce l’ha con l’ufficiale, anche se lo arresta, perché lo considera un vero uomo, al che Bellodi ribatte: «Anche lei è un uomo! ».
Accusa priva di senso, che può essere fatta solo da chi non sa che cosa è realmente la mafia. Non lo sapevano neanche quando fu pubblicato quel romanzo, (quando si negava addirittura l’esistenza del cartello del crimine organizzato). Al capomafia di Sciascia non sarebbe mai venuto in mente di uccidere Bellodi, e men che mai un Falcone o un Borsellino dell’epoca, se vi fossero stati, o i politici con i quali l’organizzazione “conviveva”. Perché la mafia, quella vera, non è “contro lo Stato”, ma è “dentro lo Stato”; non fa guerra allo Stato e non consuma stragi, ma convive – appunto – con forze dell’ordine, con i giudici e con la politica.
Ed è per questa ragione che i suoi capi, gli autentici “capi dei capi”, hanno una loro cupa grandezza, e persino una loro “nobiltà”, che è la capacità politica di comandare e di decidere. Sono come il personaggio di Sciascia, e non come un Totò Riina, che in sostanza non ha distrutto lo Stato, ma ha distrutto la mafia, cioè la sua cosca corleonese. Allora, personaggi come quelli della fiction televisiva possono affascinare e diseducare i giovani solo se essi sono ignoranti e mentalmente ottusi, e se guardano la tv invece di leggere e di capire Sciascia. Riina è stato esclusivamente un criminale terrorista, che ha fatto carriera sterminando veri boss e prendendone il posto, senza essere in grado di esercitarne il ruolo e la funzione, prima di imbracciare il mitra contro lo Stato e gli uomini delle istituzioni. Riina era al massimo, ma proprio al massimo, un ominicchio.

Il Sud ha molte qualità e molti pregi da far valere, tirandoli fuori dal fondo del pozzo nel quale sono stati lasciati per tornaconto geografico e per unilaterale strategia di privilegio. Il Sud ha l’intelligenza e la duttilità del capitale umano, troppo spesso sottovalutato e male orientato; lo spirito di intrapresa che resiste agli attentati malavitosi; le aree, i settori e le imprese di eccellenza che producono beni di straordinaria qualità e ben competono sui mercati esteri; le incomparabili bellezze naturali; un patrimonio di arte e di cultura più unico che raro.
Per valorizzare queste preziose risorse non sono più sufficienti le consuete idee né le solite proposte. Occorre rinnovare radicalmente un modo di vedere e un modo di giudicare il Sud. Non servono più neanche le denunce, anche se vere e illuminanti, perché alimentano solo senso di impotenza individuale e collettiva, deteriorano l’immagine del Mezzogiorno, minano la credibilità stessa dell’intero Paese.
Per realizzare una reale politica di sviluppo del Sud, indispensabile per far avanzare l’intero Paese, c’è bisogno di una moderna stagione di policy che non faccia più sconti a nessuno, che si fondi sulla prevenzione superando la logica dell’emergenza, che premi i comportamenti virtuosi dei cittadini e delle amministrazioni. È dunque necessario uno sforzo aggiuntivo per condividere quell’insieme di regole in grado di stimolare comportamenti propositivi e di risvegliare gli animi intorpiditi. La soluzione può essere a portata di mano, se la governance sarà ispirata a corretti criteri di responsabilità. Facciamo qualche esempio.
Il primo passo è fare innanzitutto i conti con le innumerevoli défaillances del potere pubblico, per scongiurare che lo sperpero di risorse, le inefficienze e l’illegalità continuino a minare immagine e credibilità del Mezzogiorno e del Paese. L’indice di vitalità economica del sistema produttivo (“Rapporto Svimez” 2007) colloca il Sud all’ultimo posto della graduatoria europea e, quel che è più grave, a circa la metà di quello del Centro-Nord. In termini di potenzialità competitiva, fatto 100 l’indice medio dei Ventisette della Ue, il Sud raggiunge un modesto 66. Allora, i finanziamenti nazionali ed europei per incentivare lo sviluppo del Mezzogiorno devono coinvolgere le Regioni, ponendo l’onere a carico delle loro stesse finanze quando si avventurano in fantasiose misure di carattere chiaramente assistenziale.
Ancora: per combattere il sommerso, anticamera dell’illegalità diffusa, è meglio introdurre forti agevolazioni fiscali, che favoriscano l’emersione delle imprese e del lavoro nero, al posto delle solite sanzioni, facilmente aggirabili. Inoltre, per rilanciare le produzioni meridionali, la sicurezza alimentare, gli standard turistici, è di grande utilità il ricorso a sistemi volontari di autocertificazione della qualità dei processi produttivi, dei prodotti o dei servizi offerti, prevedendo l’automatica sospensione del marchio in caso di mancato rispetto delle norme liberamente adottate. Infine, alla formazione scolastica va rivolta grande attenzione, visto che i laureati in materie scientifiche nel Sud raggiungono appena 7 unità per 1.000 abitanti tra i 20 e i 29 anni, rispetto alle 10 del resto d’Italia e alle 13 della media Ue.
Per ultimo, un problema non meno vitale: l’irrilevante capacità di attrazione di investimenti esteri, specchio di tutte le difficoltà. Tra il 2000 e il 2006, essi hanno raggiunto un modesto livello di 13 euro per abitante, rispetto ai 292 del Centro-Nord, agli 800 della media Ue, o ai 1.500 della sola Irlanda.
L’attrazione può essere migliorata, istituendo zone franche, dotate di agevolazioni fiscali pluriennali e onnicomprensive, e superando la pratica del marketing territoriale portata avanti per troppo tempo, con scarsi risultati, da Sviluppo Italia.

 

   
   
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