Giugno 2008

Inchiesta sul Sud

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A che punto è la notte
Monica Marano - Carla Stagno - Ennio Frangipane
 
 

 

 

 

Si deve capire che questa malattia, questo aspetto chiave della realtà che ci circonda
è grave al Sud,
ma sta invadendo
l’intera Penisola.

 

Mozzarelle e immondizia parlano dialetti meridionali. Le prime sono protagoniste loro malgrado, vittime della seconda, la sporcizia che buttera Napoli e altre città campane; ma è anche tirata in ballo con intenti potenzialmente eversivi da Paesi che – tollerati per complicità non disinteressate – fanno scempio della correttezza produttiva e commerciale. Come la Cina, tanto per fare l’esempio più calzante. Ma anche come – per altre attività – i Paesi dell’Europa del Nord, il cui cinismo comportamentale travalica ogni limite di civile decenza. E ci spieghiamo.
La Cina, che non ha mai acquistato un solo chilo di mozzarelle italiane, ha reso noto che «l’importazione di mozzarelle di bufala campane è stata vietata» da quei galantuomini che imperano a Pechino. Perché questa messinscena? Per ritorsione nei confronti dell’Italia, che sta attuando una politica sempre più rigorosa di controlli dei prodotti provenienti dalla Cina, contraffatti, e dunque dannosi per le nostre imprese, e pericolosi per la salute. Dunque: la capziosa messa in mora della mozzarella come avvertimento politico-mafioso da parte di un sistema produttivo, quello cinese, che progetta la proliferazione delle Chinatowns ovunque giungano i tentacoli del commercio illegale, con particolare preferenza, attualmente, per l’Italia.
È noto che il cosiddetto “quarto capitalismo” manifatturiero italiano, fatto da 4.000 medie imprese e da poche centinaia di grandi imprese fino a 2 miliardi di euro di fatturato, ormai produce da solo un Prodotto interno lordo superiore a quello dell’intera industria svedese. Inoltre i distretti industriali, dopo che sono rientrati scetticismi e critiche sbrigative avanzate nei loro confronti, ora appaiono complessivamente in recupero: il loro export aggregato lo scorso anno ha toccato un nuovo massimo storico, con tassi di crescita, in moltissimi casi, a due cifre.

Il gioco d’attacco, tuttavia, non deve farci trascurare quello di difesa, per contrastare concorrenze sleali e contraffazioni. Tre episodi, per capire. Il primo: forse pochi sanno che sul sito della Commissione europea da qualche tempo è comparso un Libro Verde, intitolato Gli strumenti europei di difesa commerciale in un’economia globale in mutamento. Datato dicembre 2006, il testo la dice lunga sulla gran forza hobbistica esercitata sugli ambienti della Commissione dagli importatori del Nord Europa e dalle grandi multinazionali che hanno pesantemente delocalizzato all’estero. Infatti, nel Libro si pretende di dimostrare che il vero interesse dell’Europa non è più quello dei prodotti europei, ma di chi ha delocalizzato, e che quindi non sarebbe più giusto applicare sanzioni e dazi antidumping contro Paesi che pure ci fanno concorrenza sleale, perché così si rischierebbe di danneggiare anche aziende europee. Questo sfacciato approccio “antimanifatturiero” danneggia fortemente l’Italia e la sua parte più debole, il Sud. L’una e l’altro, infatti, sono aree che nei settori tipici del “made in Italy” realizzano ogni anno un surplus commerciale di oltre 100 miliardi di dollari, evidentemente fatto da imprese industriali, agricole, artigianali che producono, creano posti di lavoro e pagano le tasse entro i nostri confini, e non all’estero.

Secondo episodio. È di gennaio la notizia che in Cina è stata bloccata la vendita di parecchi prodotti griffati, tra cui quelli di grandi aziende italiane come Armani, Zegna, Max Mara…, in quanto ritenuti non conformi alle normative cinesi sulla salute, l’igiene e la sicurezza! Questa storia ha dell’incredibile, ove si pensi con quanta leggerezza invece l’Europa tolleri l’ingresso nell’Ue di prodotti cinesi non solo in palese dumping, ma anche non rispondenti, essi sì, agli standard europei.
Per di più, l’Europa da anni tergiversa sull’introduzione dell’obbligatorietà del marchio di origine sui prodotti importati, bloccata dai soliti arcinoti Paesi nordeuropei: il Vecchio Continente è perciò l’unica area al mondo in cui i consumatori non possono conoscere il territorio in cui sono stati fabbricati i prodotti che importano.
Un ultimo episodio, diciamo così, “italiano su estero”. Una nostra media impresa, una delle 4.000 censite da Mediobanca/Unioncamere, lotta da sola in Perù contro l’import selvaggio dalla Cina di valvole e rubinetti contraffatti. Lo scorso anno, tanto per dire, ne sono arrivati un milione di pezzi. Pochi gli aiuti che quest’impresa, che in quel Paese sudamericano è leader di mercato per quei prodotti, ha avuto dall’Italia, mentre l’aggressiva diplomazia cinese ha fatto sentire tutto il suo peso. Tuttavia, i proprietari dell’impresa, spendendo ingenti risorse in processi, fanno bloccare merci e container alle dogane, tutelando in parecchi casi il proprio marchio. Ma nulla hanno potuto contro la pretesa di aziende cinesi di registrare in Perù marchi contenenti la parola Italia (come, ad esempio, “Walitaly”), che – beffa oltre al danno – serve soltanto a confondere le idee dei clienti.
Sarebbe ora, dunque, di parlare di questi problemi delle aziende, e di risolverli, nella speranza che il loro numero raddoppi entro un decennio, con una maggiore diffusione al Sud. Perché se lasciamo sole queste imprese, contro le potenti lobby degli importatori e contro la pirateria senza scrupoli dei Paesi emergenti, rischiamo di vederle diminuire, anziché crescere.
(Per quel che riguarda la Ue, poi, abbiamo buoni motivi per ritenere che non nutre buoni sentimenti nei confronti dell’Italia. Va bene che abbiamo perso la guerra – ma l’ha persa anche la Germania, che tuttavia si vuole locomotiva dell’Europa; e dice di averla vinta la Francia, mentre si potrebbe obiettare che l’hanno vinta altri per costei. Ma che – pur tenendo conto di qualche magagna consumata da noi – si continui ad attaccare tutto ciò che è nostro prodotto, di altissima qualità, di splendido gusto, di fama planetaria, come – ad esempio, oltre alla mozzarella – l’olio, il vino, vari formaggi, compreso quello – splendido – di fossa, la bresaola, i pomodori, e chi più ne ha più ne metta, è la riprova dell’atavica, livorosa invidia di gallo-celtici e teutonici nei confronti della cultura e della civiltà gastronomica italiana).

L’immondizia, poi. Domanda per far capire: chi non ha voluto uno, che fosse uno solo, termovalorizzatore? Chi ha marciato contro? Chi ha firmato interrogazioni parlamentari? Chi si è scontrato con la polizia? Tutti. E tutti i partenopei e campani generosi produttori di montagne di immondizie. E poi i no global e Greenpeace. Sindaci e parlamentari di destra, di centro e di sinistra. Il ministro delle Infrastrutture e il ministro dell’Ambiente del governo precedente. I Verdi e il Codacons. E una gran camurria di pensionati, di costruttori, di ex partigiani, di mutilati e invalidi di guerra, di ex combattenti, di ex-e-neo-disoccupati più o meno organizzati. E l’immancabile previtocciolo don Vitaliano della Sala, giunto in trincea insieme con il leader dei Disobbedienti, Francesco Caruso. E Padre Alex Zanotelli, il missionario comboniano controcorrente per partito preso, per di più in sciopero della fame. E il vescovo di Acerra, monsignor Rinaldi, autore di un testo letto di domenica in tutte le chiese della diocesi. Evidentemente, dietro il termovalorizzatore c’era la coda del diavolo!
Infine, grazie al cielo, sopraggiunse a Pomigliano d’Arco Beppe Grillo, il quale non aveva ancora iniziato la stagione dei “vaffa!”, e dunque poté spiegare ai colti e alle inclite che si poteva fare uno stupendo museo del pattume: era sufficiente portare tutta la spazzatura sotto una gigantesca campana di vetro, in modo che fosse «studiata dalla gente che arriva da tutto il mondo». Il museo, in effetti, è nato. Senza la campana, però. A cielo aperto. Visibile gratis, a occhio nudo e a naso turato.

Ci fu un’epoca in cui tre sindaci, (Bassolino-Cacciari-Rutelli), emblemi progressisti del Sud, del Nord e del Centro, si presentarono come il nuovo modello di un’Italia in grado di legittimare un progetto di futuro immaginato da gran tempo.
Qual è, oggi, il bilancio di queste tre “bandiere”? Cacciari non ha fallito più di tanto, nel senso che Venezia è sempre Venezia, ma il sogno di un socialismo moderno e mitteleuropeo, di una macroregione al di sopra dei confini storici, il sogno municipale della continuità con il vecchio Impero absburgico, è colato a picco in laguna.
Nella Città Eterna il mandato di un sindaco, successivamente ritornato a battersi per il Campidoglio, è ricordato come un governo di routine, tanto velleitario nei propositi quanto modesto nei risultati.
E Bassolino? Rimasto lì, supponente, insieme con la sindachessa di Napoli: l’uno e l’altra in cima al “karakorum” di pattume che ha affondato una delle più antiche e nobili capitali d’Europa nell’infezione e nel disgusto, con un micidiale sperpero di risorse pubbliche che hanno arricchito il malaffare, e con le loro promesse e con le illusioni della gente finite nella bolgia delle discariche.

Detto questo, non è vero che i vertici politici siano i soli responsabili del malgoverno locale. Quando questo si protrae per anni e anni – come nel caso di Napoli – la causa di fondo sta nella generale complicità, nella connivenza della cosiddetta “società civile”, vale a dire di quel mondo di professionisti, imprenditori, professori, giornalisti, magistrati, che sebbene dotati delle risorse culturali, economiche o istituzionali per condizionare e influenzare le scelte pubbliche, hanno preferito per troppo tempo guardare altrove, fingere di non vedere e di non sentire.
Raffaele La Capria è convinto che la colpa della vicenda dei rifiuti ricada anche sui “napoletani”. Ma i napoletani che potevano intervenire e non lo hanno fatto non sono quelli della Napoli popolare, privi di qualsiasi risorsa d’influenza. Sono coloro i quali appartengono alla classe borghese, cioè alla “città che conta”, come ha scritto Giuseppe Galasso, uno dei pochi a puntare l’indice nella direzione giusta. Dov’era la cosiddetta “società civile”? Molto probabilmente, era impaniata in una tela di ragno di complicità. Mettersi predittivamente contro il presidente della Regione o il sindaco o il commissario governativo di turno? Stigmatizzare per tempo, pubblicamente, i giganteschi errori compiuti? Nella migliore delle ipotesi avrebbe significato dover rinunciare alla presenza nei salotti che contano, essere esclusi dagli appuntamenti mondani, vedersi emarginati, rischiare l’ostracismo sociale, magari anche con la perdita di qualche buon affare!
Sostiene Angelo Panebianco che il vero grande dramma del Mezzogiorno è tutto e sempre lì, nella mancanza di una vera società civile, «sufficientemente forte e autonoma dal potere politico locale per poter svolgere un’azione di controllo e di contrasto. I ceti borghesi meridionali sono, da sempre, troppo dipendenti dal potere politico locale. È ciò che rende impossibile spezzare il circolo vizioso del clientelismo, del malaffare e del disprezzo per l’interesse pubblico. I politici non hanno bisogno di rigar dritto perché quelli che, in teoria, dovrebbero possedere le risorse necessarie per sanzionarli sono, a grande maggioranza, ridotti allo stato di conniventi».
In altre parole: in un Paese come il nostro, con forti tradizioni stataliste, connivenze dei borghesi con il potere pubblico locale (come il clientelismo) si danno dappertutto, al Nord come al Sud. Ma è una questione di proporzioni differenti. Al Nord le componenti borghesi (professionali, imprenditoriali, intellettuali), abbastanza autonome dal potere politico, sono più forti. Si conferma la regola: senza una società civile che eserciti influenza e controllo, la democrazia locale funziona malissimo, può anche «trasformarsi in una tragica e penosa farsa».
Il lamento di Raffaele La Capria. Mai – dice lo scrittore – Napoli si è sentita più giudicata e disprezzata come ora. Se la prendono con i napoletani perché sono come sono. Perché a Napoli le cose non sono mai cambiate nei secoli, mentre altrove sono cambiate. Perché Napoli è un destino. Forse un destino no, ma una storia pesante sì. Tutto il Meridione, dai Bizantini in poi, ha patito questa storia.
Dice ancora La Capria : «Lo aveva percepito George Gissing viaggiando in Calabria, quando sentì venire dai campi il canto malinconico di un contadino, una nenia simile a un lamento che gli arrivò diritta al cuore e gli dettò queste parole : “Razze brute si sono gettate l’una dopo l’altra su questa terra dolce e luminosa; la sottomissione e la schiavitù sono state attraverso i secoli il destino di questo popolo. Dovunque si cammina si calpesta sempre terreno che è stato inzuppato di sangue. Un dolore immemorabile risuona anche attraverso le note dei loro canti. È un paese stanco, pieno di rimpianti, che guarda indietro attraverso le cose del passato; perduto nella vita presente e incapace di sperare sinceramente nel futuro…”». È legittimo condannare i dirigenti dell’Italia, – sostiene Gissing – quelli che plasmano la vita politica, caricandola di pesi insopportabili. Ma è segno di volgarità disprezzare la gente semplice.
Oggi – riprende La Capria – dopo tutto ciò che è accaduto nelle regioni meridionali, una simile disposizione d’animo è un esercizio difficile, più di quanto non fosse per Gissing o per Carlo Levi. Forse anche Comisso e la Morante, Piovene o Pasolini «avrebbero qualche difficoltà di fronte alla mondezza di questi giorni. Ma loro saprebbero bene contro chi dirigere la loro irritazione, certo non contro l’inferiorità dei napoletani, come fanno questi altri».
Secondo lo scrittore partenopeo, è difficile per una società disastrata da una storia secolare di soprusi e da una politica come quella attuale trovare al proprio interno gli anticorpi del cambiamento: «Solo chi sa criticarsi riuscirà a trovarli, e credo che i napoletani questa possibilità ce l’hanno, culturalmente. Ma sarà dura, finché le istituzioni saranno quelle che sono. Tutte le critiche che oggi ci vengono rivolte, i napoletani per primi da sempre le hanno avanzate, a partire da Vincenzo Cuoco e a finire con Gomorra di Saviano. Ma se nessuno li ha mai ascoltati, se la “città che conta” non ha mai risposto nel modo giusto, se quelli che dovrebbero dare una mano sono essi stessi corrotti e profittatori, che resta se non il diritto alla disperazione?».
Ma tornando alle ferite della storia, un parallelo sembra di rigore: se a Napoli quelle ferite sono macroscopiche e visibili, e producono le conseguenze che conosciamo, non è detto che l’Italia che accusa la capitale del Sud ne sia indenne. È vero, Napoli appare come un problema irrisolvibile, si devono chiamare in causa gli intellettuali, la società civile e la classe politica. Napoli non sa uscire da se stessa, e ogni cosa che tenta finisce nel peggio. Ma l’irrisolvibile problema di Napoli si iscrive all’irrisolvibile problema italiano: quante volte l’Italia ha tentato di risollevare i suoi problemi, per diventare una nazione moderna, alla pari con le altre società avanzate, e quante volte c’è stato un ostacolo, una fatalità, una malattia, insomma “qualcosa” che lo ha impedito? Non si deve chiamare in causa anche per l’Italia la società civile e la classe politica e i comportamenti che le contraddistinguono? Non è vero anche per l’Italia che non sa uscire da sé dai propri vizi, dalle proprie abitudini e dai propri “misteri”? Non è vero anche per l’Italia che ogni cosa che tenta finisce a mezza strada? Cos’è, se non questa incapacità, l’anomalia italiana? L’irrisolvibilità del problema italiano dovrebbe aiutarci a capire l’irrisolvibilità del problema Napoli. Certo, in questa città si presenta tutto sotto aspetti più tragici perché più tragica è stata la storia che le pesa addosso, e perché essa anticipa sempre e rende più evidenti le deficienze del Paese. Ma – reagisce La Capria – posso ribellarmi quando siamo chiamati incivili da chi ci ha dato l’esempio di Piazzale Loreto? I napoletani sanno meglio dei loro censori cosa ha ridotto Napoli nello stato in cui è: «È una colpa nostra iscritta nella colpa italiana».
Le polemiche e le omissioni. Pasquale Squitieri apre le ostilità: «La Capria, sul Corriere della Sera, scrivendo “Cari napoletani, colpa anche nostra”, esordisce con un “Io non so” che sembra parafrasare Pasolini. E prosegue: “Io non so, non capisco, eppure vorrei sapere, per scrivere, per far sentire il mio cordoglio per quel che avviene a Napoli, perché, pur non vivendo a Napoli da più di mezzo secolo, Napoli fa parte di me…”».
Pasolini – ribatte il regista – era stato intellettualmente più onesto. «Io so, aveva premesso io so, e dico, denuncio, scrivo. Io, che sono ritenuto il maggior romanziere del ‘900. Io, napoletano “ferito a morte”. Io, che devo tutto alle mie radici napoletane. Io non posso non sapere. Io non posso non denunciare… Io sono Raffaele La Capria. Io ho la prima pagina del maggior quotidiano nazionale, quando voglio e per dire quello che voglio. “Io non c’ero, e se c’ero, dormivo”. No, caro La Capria. Tu non vivi a Milano da molto più di mezzo secolo. Eppure, scrivi di Milano. E tanto meno a New York, eppure scrivi della “Grande Mela”… Comodamente avvolto nelle pagine di un capolavoro rivolgevi il tuo sguardo sorpreso e annoiato a quello stesso luridume che ti aveva ispirato. “Come è stato possibile?”, ti chiedi. Tu, che nel 1963 con Francesco Rosi scrivevi Le mani sulla città? Tu non sai? A quel tempo sapevi, perché i nemici erano Lauro e la Democrazia Cristiana. “Qui gli uomini vivono dannati in una feroce tristezza”, scriveva Luigi Compagnone sulla tua stessa rivista, Sud… Un intellettuale della diaspora, diranno di te, affiancandoti a tutti gli altri intellettuali “fuggiti” da Napoli. Da te, di cui amo ogni scritto, mi sarei aspettato che un giorno, con la violenza che la tua autorità ti consente, avessi afferrato per il bavero il Bassolino di turno e gli avessi urlato: “Vergogna!”. Invece, cinquant’anni dopo, non sai che dire: “Io non so!”».

La magistratura, poi, con le accuse roventi di Lino Jannuzzi, rimaste senza alcuna smentita o contestazione. Jannuzzi esordisce sostenendo che quella napoletana «ha gravi responsabilità storiche per i ritardi e le insufficienze della classe dirigente meridionale, causa prima e fondamentale dell’arretratezza e del declino del Mezzogiorno». E prosegue: fascista durante il regime, democristiana e succube e corriva con la peggiore democristianeria al momento del crollo della Prima repubblica, ha contribuito in maniera decisiva all’attuale sfacelo, tra le montagne di immondizia e il fiume di sangue della camorra, di Napoli e dintorni.
Citazione di dati storici: «Falsificarono le prove, strumentalizzando il primo falso “pentito” della storia del pentitismo, per mettere in scena lo spettacolare processo Cuocolo, di cui si vergognò persino Benito Mussolini, che fece in modo di scarcerare alla chetichella gli ingiustamente condannati. L’hanno rifatto negli anni ‘80 con il processo a Enzo Tortora, condannando senza prove e uccidendo di cancro il presentatore tv, e con la spettacolare retata che avrebbe dovuto distruggere la camorra, più di 800 mandati di cattura, più di 600 arrestati, più di 100 arrestati per sbaglio, per omonimia, di cui l’ultimo è stato dimenticato in galera per 3 anni, e più di 400 sono risultati alla fine assolti. Dopo esserne stati complici nelle peggiori degenerazioni per cinquant’anni, hanno liquidato in un colpo solo i partiti della Prima Repubblica [...] e tutta la classe dirigente faticosamente formatasi nel dopoguerra [...]. E dopo la “pulizia giudiziaria” non c’è mai stata a Napoli tanta “monnezza” e tanta camorra…».
Eppure, un po’ dovunque in Italia le inchieste non sono mancate. Re Mida, Humus, Greenland, Murgia Violata, Cassiopea: sono i nomi di azioni giudiziarie che hanno fatto luce nell’ultimo decennio sull’immenso giro d’affari del ciclo illegale dei rifiuti, con informazioni preziose per capire come sia possibile, in un Paese “moderno”, che una delle nostre principali aree metropolitane affoghi nella spazzatura.

Dalle osservazioni degli investigatori sono emerse due Campanie. La prima. Questa terra è stata a lungo il terminale tirrenico di un flusso incontrollato di rifiuti industriali provenienti dal Centro-Nord, lo stesso che poi ha chiuso le sue discariche all’emergenza campana. Il territorio saturo di rifiuti viene da lontano e racconta una storia non edificante che riguarda l’intera comunità nazionale. Il ciclo illegale dei rifiuti è un business affinato negli ultimi due o tre lustri. Buttiamoci sulla spazzatura, affermava un capocosca in un’intercettazione: «Trasi munnizzi e ni esci oru».
Ma la malavita è solo l’ultimo anello di una catena legata inestricabilmente all’economia legale. Secondo il Comando tutela ambiente dei Carabinieri e Legambiente, almeno 12-14 milioni di tonnellate spariscono ogni anno nel nulla, cioè al di fuori del circuito legale di smaltimento: una montagna alta 1.500 metri, con una base di 3 ettari, per un giro d’affari stimato (1993-2002) nell’ordine di 27 miliardi di euro. Lo smaltimento abusivo costa fino all’80 per cento in meno rispetto a quello legale. Grazie alle grandi quantità trattate, la malavita si accontenta di margini ristretti. Il resto è sconto per i produttori, con effetti paragonabili al taglio del 10 per cento dell’Irap.
La seconda. La Campania, metafora o specchio del Sud, e non solo del Sud, è quel che è, per il deficit decisionale che è il contesto all’interno del quale per molto tempo i governi nazionali hanno ritenuto di non dover affrontare la questione dell’assenza di un ciclo integrato dei rifiuti e dei relativi impianti industriali, lasciando incancrenire la situazione. E ciò, come sostiene Roberto Barbieri, presidente della “Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse”, con il contributo della politica locale, che pure ha deciso, ma di fare dell’emergenza rifiuti uno strumento originale di intermediazione clientelare. Scrive Barbieri a proposito dei metodi seguiti nel gestire i fondi pubblici: «Oggi, per la classe politica locale, assistere alla fine tragica del consenso, morto annegato tra i rifiuti, assume i caratteri di un vero e proprio contrappasso dantesco».

La storia comincia nel 1994. Da allora, mentre in Lombardia si costruivano 13 termovalorizzatori, in Campania si metteva su un Commissariato che di straordinario aveva solo i compensi e le consulenze, si aprivano consorzi destinati spesso a realizzare joint ventures con la camorra, si realizzavano impianti di compostaggio dei rifiuti (cdr) che in realtà non facevano altro che imballare pattume, si discuteva sull’impatto sanitario di un termovalorizzatore che non era neppure ultimato. Così, accanto al percolato che intanto discariche mal gestite vomitavano sui terreni, ammorbando l’aria e intossicando le acque, questo maneggio improprio di risorse pubbliche lasciava trasudare ciò che pudicamente è stato definito magma: in realtà, un impasto melmoso di burocrazia inefficiente, di politica clientelare, di malaffare criminale.
Certo – ribadisce il presidente della Commissione – la cultura nazionale dell’incapacità decisionale non poteva che allargarsi anche alla classe dirigente della Campania: «Fatto sta però che qui il fenomeno si è esplicitato in modo più intenso. Non solo, infatti, si è governato senza decidere; non solo si è governato senza rispettare gli scopi cui erano destinate le risorse; ma, soprattutto, lo si è fatto nella ricerca ideologica del consenso di tutti, preferendo la strada deresponsabilizzante dell’unanimismo a quella ben più impegnativa delle scelte anche a maggioranza, confondendo il bene comune con gli interessi di ognuno».
Quegli stessi interessi particolaristici che hanno condizionato, significativamente, anche la gestione dei fondi europei: fondi che molto di rado sono stati impiegati per investimenti di lungo respiro, e più spesso, invece, per accudire lavoratori socialmente utili e imprese parassitarie senza futuro, trasformando tematicamente la spesa pubblica in conto capitale in spesa pubblica corrente.
Perché proprio in Campania? Risponde Barbieri: «Perché, in buona sostanza, si è pensato di poter fare delle risorse destinate all’emergenza rifiuti quel che si era fatto e si faceva dei fondi europei. Senza rendersi conto del peso, incomparabilmente diverso, delle conseguenze. E infatti, se si impiegano male i fondi europei, non ci sarà sviluppo economico: non fa piacere, certo, rinunciare a prospettive di ricchezza, ma, come si dice, se c’è la salute… Ebbene, spendendo i soldi destinati ai rifiuti per altro, è anche la salute che comincia a vacillare! Ma vi è di più. Aver trasformato strade e piazze in discariche e inceneritori a cielo aperto significa aver precluso l’accesso a quei naturali luoghi d’incontro che sono gli spazi pubblici di una città, condannando i cittadini a chiudersi in casa: un isolamento forzato che è la fotografia di un distacco ormai anche fisico fra comunità civile e istituzioni».
Altro che “nuovo Rinascimento” o nuovo “Risorgimento” per Napoli, quale venne conclamato imprudentemente quando furono eletti Sindachessa e consiglieri della città, Presidente e giunta della Regione! Era un auspicio, certo. O la speranza di un auspicio. Solo che in un Paese normale una speranza, al massimo, può trasformarsi in una delusione. Da noi, è stata trasformata in una disfatta economica e in una vergogna planetaria.
Come organizzare una risposta alla sfiducia che – soprattutto dopo la vicenda partenopea – si è consolidata nei confronti del Sud? Domanda che sottintende un’altra, gravissima: come fermare la disgregazione sociale e politica che sta attaccando anche le zone più coese dell’Italia? Un lungo elenco di intellettuali meridionali (e non solo meridionali) ha puntato l’indice su questa malattia, che ad un certo punto si è trasformata ed è stata chiamata “assistenzialismo” (clientelismo, corporativismo, corruzione), che in seguito fu negata e nascosta proditoriamente sotto le vesti delle varie “emergenze” meridionali, ancora oggi indicate come conseguente pericolo di frana (cedimento, smottamento, slavina, valanga, crollo) cui sta andando incontro il nostro Paese.
Sistematicamente inascoltati, i meridionali più avvertiti per molti anni hanno cercato di sostenere come asse centrale del risanamento e dello sviluppo del Sud la causa dell’occupazione privata nelle piccole e medie imprese (magari in clusters, sistemi locali e distretti; magari basata su nuove tecnologie, trasferimenti tecnologici, economia della conoscenza; magari parte di circuiti virtuosi che creano multinazionali tascabili e che, così facendo, consentono di incrementare la buona occupazione).
Si deve iniziare capendo che questa malattia, questo aspetto-chiave della realtà che ci circonda è grave al Mezzogiorno, ma – motu proprio e per contagio – sta invadendo l’intera Penisola. Lo si intravede, ad esempio, nella bramosia con cui nel Nord si guarda al privilegio relativo delle Regioni di confine (soprattutto a quello del Trentino-Alto Adige), con annesse grandi manovre per accedervi. Lo si tocca con mano col populismo leghista, ma anche in numerosi sintomi sociali, un tempo impensabili, che si fanno avanti nelle cosiddette Regioni rosse. Sicché il desiderio di tanti meridionali di accreditare l’idea del “così fan tutti” è in realtà speculare a quello di molti settentrionali di “tirarsi fuori”, o addirittura di buttare a mare il Sud.
Questo sentimento, e quello meridionale di portarci anche il Nord (all’inferno), hanno una bruttissima cera, trasudano irresponsabilità, fanno parte di un assurdo eccesso di panico, di un “si salvi chi può” che rischia di trascinare effettivamente tutti a fondo, visto che bene o male remiamo sulla stessa barca.
Anche per questi motivi, o soprattutto per questi motivi, la distanza tra il senso civico degli italiani e quello dei partners europei sta raggiungendo livelli imbarazzanti. E sotto il profilo economico, non è la struttura industriale italiana a causare le difficoltà sociali, ma al contrario, è la disintegrazione sociale ad appesantire e a condizionare lo sviluppo della nostra industria. Questo non può generare ottimismo sulle prospettive dell’industria italiana e meridionale, ma pessimismo sul futuro sociale e politico del nostro Paese.
È un campanello d’allarme che va ascoltato e che deve spingere i meridionali ad agire (col pensiero, con l’azione), nel tentativo concreto di dare un contributo decisivo al risanamento e al rilancio, rovesciando filosofie e comportamenti, pigrizie mentali e consuetudini, e decidendo una volta per tutte di abbandonare la sfera dell’arretratezza e di irrompere nei tempi moderni.

 

   
   
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