Giugno 2008

Occidente tra ristagno e recessione

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La grande migrazione
Mabel  
 
 

 

 

 

Il futuro non è
più quello di una
volta: ora lo
sviluppo e la
ricchezza stanno migrando in Asia e nei Paesi
emergenti, sospinti dalla demografia
e dalla tecnologia.

 

Da qualche tempo l’economia globale sembra capovolta. Gli Stati Uniti, che hanno trainato per decenni la crescita del mondo, sono avviati ad una fase che oscilla tra il ristagno e la recessione, mentre il ruolo di locomotiva globale è affidato ai Paesi emergenti, soprattutto nel continente asiatico, fino ad ora immuni dalle difficoltà reali e finanziarie.
La novità è che queste economie, per la prima volta, non sono state influenzate dalla crisi americana e persino l’Africa, bloccata per moltissimi anni nella trappola della povertà, è entrata in un periodo di promettente sviluppo. Il settore agricolo, da quando i cereali vengono utilizzati per la produzione di biocombustibili, ha praticamente raddoppiato i prezzi, e rende di più dei prodotti industriali e ad alta tecnologia. Le materie prime energetiche sono ai massimi storici e spingono uno sviluppo impetuoso anche in Russia.
Le grandi banche americane, a valle della crisi dei mutui, hanno operato ampie svalutazioni dei propri attivi e sono state soccorse dai fondi sovrani, vale a dire statali, dell’Asia e del Medio Oriente, che ne sono diventati azionisti. Una grande agenzia di rating (Moody’s) sta meditando di declassare il debito pubblico statunitense, mentre un’altra (S&P) loda i conti pubblici dell’Italia.
Per quanto sorprendenti, questi eventi non sono paradossi e tanto meno manifestazioni di breve periodo, ma la conseguenza di grandi tendenze, da tempo in gestazione e oggi al centro di un mondo che ha ripreso a cambiare molto rapidamente.
Il ciclo globale della liquidità e della finanza, dopo dieci anni di crescita senza inflazione, dalla scorsa estate è girato al peggio, e oggi ha necessità di utilizzare i fondi accumulati negli anni in Asia e nel Vicino e Medio Oriente, in conseguenza dei forti squilibri commerciali. Si è scritto, con preoccupazione, che l’intervento massiccio dei fondi sovrani sia una sorta di “statalizzazione trans-nazionale”. A noi sembra la conseguenza inevitabile della globalizzazione finanziaria, senza la quale molte banche dovrebbero restringere ulteriormente il credito, anche se lo storico Niall Ferguson, dell’Università di Harvard, ha evocato un parallelo inquietante tra gli Stati Uniti di oggi e l’Impero Ottomano d’inizio Novecento, declinato quando cedette la proprietà delle banche per pagare i propri debiti.
Al di là del ciclo del credito, non vi è comunque dubbio che lo sviluppo e la ricchezza stanno migrando in Asia e nei Paesi emergenti, sospinti dalla demografia e dalla tecnologia. Questa migrazione ha reso possibile un decennio di crescita senza inflazione, grazie all’offerta pressoché illimitata di prodotti a basso prezzo. Ma chi aveva preconizzato che la Cina avrebbe conquistato l’Occidente con i prodotti, poi con i capitali e infine con la politica, vede una conferma delle proprie previsioni.

Sicché il quadro è questo: gli Stati Uniti attualmente mantengono un’evidente primazia in termini economici e militari. Ma un viaggio in Asia è più che sufficiente ad evidenziare lo sviluppo di quell’area e della sua classe media, al di là delle cifre che già collocano la Cina al secondo posto nella classifica del prodotto lordo per Paesi, e che fanno prevedere grandi balzi reali in avanti dell’India e della Russia.
Allo stato delle cose, è senza dubbio troppo presto per valutare la persistenza di queste tendenze e per capire quel che farà l’Europa, nel mezzo di una grande trasformazione istituzionale, ma ancora in cerca di una politica e di una vocazione economica. In questo quadro, la risposta non può essere la chiusura, ma una migliore integrazione e un più profondo adattamento che faccia leva sui nostri punti di vantaggio.
Se questo è vero, gli ingredienti fondamentali di una buona politica sembrano essere una maggiore libertà economica, per adattare nella maniera più rapida il modello di specializzazione senza le barriere che ancora esistono, e un’efficiente protezione sociale, per aiutare la classe media, marginalizzata dai grandi cambiamenti.
Soltanto il tempo e una profonda comprensione dei fenomeni ci aiuteranno a trovare una via di successo. Ci muoviamo in un mondo incerto, dove tendenze simili a quelle che stiamo vivendo si sono a loro volta arrestate (ricordate il “periodo giapponese” degli anni Settanta e Ottanta?). Non ha senso, dunque, azzardare previsioni a lungo termine. Solo una cosa si può dire con sicurezza: il futuro non è più quello di una volta.
Sono trent’anni che gli Stati Uniti vivono nella situazione inedita di Paese-leader planetario, garante degli equilibri, come lo fu la Gran Bretagna, ma con la differenza che è indebitato con l’estero. Ci sono 2.600 miliardi di dollari secondo i dati ufficiali, 3.500 secondo altri calcoli, di squilibrio tra quanto il resto del mondo deve agli Stati Uniti e quanto questi devono al resto del mondo, misurando crediti, debiti e investimenti diretti. Cioè, più o meno tra il 20 e il 30 per cento del Prodotto interno lordo americano. Quando Londra si trovò in una situazione analoga, dopo la Prima, e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, che la vide per la prima volta debitrice netta, per il ruolo internazionale della sterlina fu la fine. La forza del dollaro è che per ora c’è solo un mezzo partner-rivale, l’euro, mentre manca un erede a pieno titolo. Ma quanto durerà?
Il tema del declino turba più di quanto amino ammetterlo le visioni della classe dirigente americana. La visita del presidente statunitense nel Golfo Persico, oltre che alla questione Iran, era mirata a consolidare il legame dollaro-petrolio, che ormai da un quarantennio ha sostituito quello dollaro-oro. I Paesi del Golfo sono ancorati alla divisa americana da precisi accordi degli anni Settanta. Il tema dibattuto negli appuntamenti più rilevanti a livello internazionale è incentrato sui rischi finanziari sistemici e sul dollaro come riserva monetaria globale, con le minacce per la posizione geopolitica degli Stati Uniti e l’anticipazione della fine di un periodo egemonico nella storia economica planetaria.
I conti con l’estero americani, con il deficit che incrementa il debito, sono negativi dal 1981. Interrotta a metà anni Ottanta, la discesa è ripresa con gli anni Novanta, nonostante il risanamento allora del deficit federale, ed è peggiorata con il 2000; e neppure il calo del dollaro, avviato nel 2002, è riuscito con il miglioramento delle voci commerciali (nerbo delle partite correnti) ad arrestarla. Nei conti con l’estero, le partite correnti misurano, in definitiva, la differenza tra quanto i residenti di un Paese producono e guadagnano, e quanto spendono. E quindi, come è stato ampiamente dimostrato da anni, il Paese del dollaro sta vivendo non al di sopra dei propri mezzi, che restano enormi, ma certamente al di sopra dei propri guadagni.
C’è una componente di tipico ottimismo americano in tutto questo. Quello delle partite correnti è un concetto “senza senso”, dichiarava nel 2002 l’allora ministro del Tesoro, emulato successivamente da tutti i responsabili dell’economia e della finanza americani. La linea era: tutti portano capitali negli Stati Uniti, e questa è una forza. Ignoravano che, oltre che una forza, era anche una droga. Al capo della Federal Reserve del tempo, Alan Greenspan, viene attribuita tra l’altro la responsabilità di aver sottoscritto di fatto la teoria secondo cui il crollo della propensione al risparmio degli americani non era un problema, perché c’era il mondo intero desideroso di investire i propri risparmi negli Stati Uniti. A quale costo, e con quale servizio del debito, contratto molto più per consumi e per spese militari, tra l’altro, che per investimenti?
La crisi dei subprime ha costretto ad ammettere che la nuova finanza non fa buoni bilanci, decisamente ancorati a regole vecchie. E l’indebitamento degli Stati Uniti, causa prima della debolezza del dollaro, conferma che quello delle partite correnti e dei conti esteri non è un concetto “superato”. Sono debiti in proporzione sostenibili, non all’infinito, per un’economia subalterna, ma corrosivi per la nazione-leader. Che non può più essere il lender of last resort.

Le cose da fare, dunque, sono molte e molto impegnative. E l’obiettivo di fondo resta uno: riportare la propensione al risparmio del sistema americano a livelli decenti. Ormai, con la crisi bancaria, una Federal Reserve che abbassa i tassi per salvare il sistema e dimentica forzatamente i rischi inflazionistici, con il dollaro sempre più debole nei confronti dell’euro, l’uscita con un soft landing dagli squilibri finanziari e monetari forse è persa. Ma un buon Presidente, il nuovo Presidente, può fare la differenza tra un hard landing e un very hard landing pessimo per tutti.
A latere, ma non più di tanto, va sottolineato che il premier britannico Gordon Brown, in una riunione di Business for Europe, un’organizzazione di uomini d’affari d’oltre Manica, ha sostenuto che «l’Unione europea è essenziale per il commercio delle imprese inglesi». Data la crisi del sistema bancario americano, e data la difficoltà di esportare nel mondo del dollaro, Brown sta cercando un maggior legame con l’area dell’euro, contaminata in misura secondaria dal problema dei mutui immobiliari subprime, e tuttora in fase di crescita, sia pure vischiosa, avendo iniziato in ritardo il proprio ciclo di espansione economica.
A questo punto, la Gran Bretagna si deve decidere: o entra nell’area dell’euro e ne condivide benefici e dolori, accettando le regole del gioco e il dominio della filosofia della Banca centrale europea, assieme agli altri Paesi dell’Ue, oppure ne rimane fuori, e condivide con la Federal Reserve i problemi dell’area del dollaro, da cui negli anni passati ha tratto grandi benefici, grazie al boom dell’economia e della finanza americane. Tertium non datur. Le furbizie e i vizi che gli inglesi spesso e volentieri addebitano a noi, ora sembrano essere cosa loro. E ciò riguarda, in particolare, i problemi maggiori che nell’immediato Londra deve affrontare: quelli della finanza bancaria, per loro particolarmente importante.
L’economista Francesco Forte cita un esempio emblematico. Dice: la grande banca di credito immobiliare Northern Rock, che è andata sull’orlo del dissesto, avendo fatto indigestione di mutui immobiliari Usa subprime in aggiunta ad un’analoga, spericolata espansione di mutui inglesi, è stata temporaneamente salvata dalla Boe, la Banca centrale britannica, che ha preso in carico prodotti finanziari di bassa qualità della Northern. Ora la banca inglese sta cercando di trovare dei compratori di una parte dei suoi crediti, oppure un’iniezione di liquidità, mediante un aumento di capitale, che avverrebbe a quotazioni che riflettono il cattivo stato della compagnia.
Si è aperta, così, una guerra fra i risparmiatori, che sono favorevoli a tale operazione, in quanto diversamente possono perdere una parte dei loro depositi, e gli azionisti, che non gradiscono una diluizione delle proprie quote di capitale sociale. Per venir fuori dall’impasse, Brown non ha saputo o potuto proporre altro che la statizzazione della banca.
Una soluzione, questa, con oneri per la Banca centrale, che avrebbe fatto inorridire Margaret Thatcher. Se l’Italia immaginasse un’operazione di salvataggio di questo genere, l’Economist e il Financial Times ci rivolgerebbero critiche impietose, e Bruxelles ci censurerebbe in modo aspro. Resta da vedere se, una volta o l’altra, i giornali inglesi faranno uso della loro sobria (?!) ironia, ora che si tratta di “made in Britain”.

 

   
   
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